Licenziamento legge 104 e abusi.

Legge 104 – abuso e licenziamento.

La Corte di Cassazione è stata investita di un caso dove un lavoratore dopo aver dichiarato che la persona assistita non era ricoverata a tempo pieno, fruisce di tutta una serie di permessi giornalieri.

Il datore di lavoro scopre che la persona da questi assistita è in realtà ospitata presso una struttura assistenziale di natura alberghiera e non ospedaliera. A causa della dichiarazione mendace, il lavoratore viene licenziato. Impugna il licenziamento. Il suo ricorso è respinto in tutti i gradi di giudizio, sino a quando la cassazione ribalta il verdetto ritenendo che l’ospitalità presso una struttura alberghiera non equivale al ricovero che, secondo la Cassazione, deve intendersi quale ricovero ospedaliero.

Va ricordato come la legge 183/2010 abbia modificato il testo della legge 104/1992 inserendo all’articolo 33 comma 3 la specifica condizione che per la concessione dei permessi la persona assistita non doveva essere ricoverata a tempo pieno.

La Cassazione ha ritenuto che per ricovero debba intendersi esclusivamente il ricovero ospedaliero.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent.14-08-2019, n. 21416

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – rel. Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – est. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 26136-2017 proposto da:

R.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DELLA MARATONA N. 87, presso lo studio dell’avvocato SABINA COLLETTI, rappresentato e difeso dall’avvocato DARIO VLADIMIRO GAMBA;

– ricorrente –

contro

AZIENDA SANITARIA LOCALE ASL (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ARCHIMEDE 112, presso lo studio dell’avvocato CHIARA MAGRINI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato CLAUDIA ZUCCA;

– controricorrente – avverso la sentenza n. 762/2017 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 07/09/2017 R.G.N. 546/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 18/06/2019 dal Consigliere Dott. LUCIA TRIA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SANLORENZO Rita, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso;

udito l’Avvocato DARIO VLADIMIRO GAMBA;

udito l’Avvocato CHIARA MAGRINI.

Svolgimento del processo

1. Con ricorso L. n. 92 del 2014, ex art. 1, comma 47, al Tribunale di Torino R.G., dipendente della ASL TO5 in qualità di operatore tecnico autista, impugnava il licenziamento per giusta causa comminatogli con Delib. Direttore Generale 25 luglio 2016, n. 370 per avere il predetto, in sede di dichiarazione resa in data 10 luglio 2014, dichiarato che il soggetto disabile per il quale beneficiava dei permessi ai sensi della L. n. 104 del 1992, art. 33, comma 3, non fosse ricoverato stabilmente presso alcuna struttura.

2. Il Tribunale, in esito alla fase sommaria, respingeva la domanda.

3. La decisione era confermata in sede di opposizione.

4. Il reclamo proposto dal R. era respinto dalla Corte d’appello di Torino.

La Corte territoriale, per quel che qui interessa, precisava che: a) il dipendente con l’indicata dichiarazione – sottoscritta nelle forme della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà D.P.R. n. 445 del 2000, ex art. 47 e ss. – aveva affermato che la madre, in relazione alla quale usufruiva dei benefici della L. n. 104 del 1992, art. 33 non era “ricoverata a tempo pieno presso alcuna struttura”, mentre la ASL, a seguito di controlli, aveva appurato che già da due anni la signora soggiornava presso una residenza sostanzialmente alberghiera; b) in sede disciplinare era stata contestata unicamente la dichiarazione falsa resa alla datrice di lavoro, senza indagare se sussistessero le condizioni per la fruizione dei suddetti benefici, ciò, però, muovendo dalla premessa che tali benefici comportano notevoli oneri economici e organizzativi e trovano la loro giustificazione solo nella effettiva tutela delle persone disabili; c) quanto all’elemento soggettivo, doveva essere evidenziata la diversità dei criteri e dei presupposti dell’accertamento della responsabilità, rispettivamente in sede penale e in sede disciplinare, sicchè, a prescindere dall’avvenuta archiviazione del procedimento penale, nella sede deputata all’accertamento della responsabilità disciplinare la dichiarazione mendace contestata andava considerata frutto di dolo o, almeno, di grave negligenza; d) l’illecito era da reputarsi di tale gravità da meritare la massima sanzione espulsiva tenendo conto del fatto che la dichiarazione falsa era stata resa nelle forme della dichiarazione sostitutiva di atto notorio da un soggetto legato da un vincolo fiduciario con il datore di lavoro destinatario.

2. Avverso tale decisione R.G. ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi.

3. La ASL (OMISSIS) ha resistito con controricorso.

4. In seguito a rinvio a nuovo ruolo la discussione della causa è stata nuovamente fissata per l’odierna udienza.

5. Entrambe le parti hanno depositano memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione della L. n. 104 del 1992, art. 33, commi 3, 4 e 7-bis, sostenendosi che la Corte d’appello avrebbe confermato il licenziamento del ricorrente sulla base di un fatto inesistente rappresentato dall’illegittima fruizione dei permessi di cui al richiamato art. 33.

2. Con il secondo motivo si denunciano: a) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55-bis nonchè dell’art. 29, comma 2 c.c.n.l. 1 settembre 1995; b) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., rilevandosi che la questione dell’illegittima fruizione dei permessi citati non avrebbe dovuto essere presa in considerazione dalla Corte d’appello, visto che non era stata contestata e neppure introdotta in giudizio dalla datrice di lavoro, sicchè la sentenza impugnata sarebbe anche affetta dal vizio di ultrapetizione.

3. Con il terzo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione della L. n. 104 del 1992, art. 33, commi 3, 4 e 7-bis, dell’art. 2106 c.c. nonchè degli artt. 28 e 29, comma 1, del c.c.n.l. 1 settembre 1995, perchè la Corte territoriale, violando le norme richiamate e i principi generali della materia, avrebbe confermato il licenziamento sulla base di un comportamento privo di qualunque illiceità, visto che in sede penale il procedimento a carico del R. era stato archiviato in quanto era stata esclusa l’ascrivibilità di una falsa dichiarazione o reticenza essendosi ritenuto che il termine ‘ricoverò nell’ambito del citato art. 33 fosse da riferire soltanto alle strutture di tipo sanitario e non a quelle di tipo alberghiero come quella in cui si trovava la madre dell’interessato.

In questa situazione, non essendo compresa la condotta contestata neppure tra quelle indicate dal c.c.n.l. come meritevole di sanzione disciplinare, la Corte d’appello avrebbe, in definitiva, considerato meritevole del licenziamento un comportamento privo di illiceità, muovendo da una erronea accezione del termine ricovero, come se fosse da riferire anche al soggiorno in strutture residenziali.

4. Con il quarto motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione della L. n. 183 del 2010, art. 30, comma 3, dell’art. 13 del c.c.n.l. 19 aprile 2004, dell’art. 29, comma 9, del c.c.n.l. 1 settembre 1995, in via subordinata si deduce che la Corte d’appello non si sarebbe attenuta ai criteri legislativi e contrattuali sulla proporzionalità tra infrazione e sanzione, avendo del tutto ignorato al riguardo le previsioni del c.c.n.l. che indicano le ipotesi in cui è applicabile il licenziamento senza preavviso.

5. Va preliminarmente respinta l’eccezione di improcedibilità del ricorso formulata dall’Azienda controricorrente per non avere il R. prodotto l’integrale testo del c.c.n.l. in relazione al quale ha formulato parte delle censure.

Questa Corte ha da tempo affermato che l’improcedibilità del ricorso per cassazione a norma dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, non può conseguire al mancato deposito del contratto collettivo di diritto pubblico, ancorchè la decisione della controversia dipenda direttamente dall’esame e dall’interpretazione delle relative clausole, atteso che, in considerazione del peculiare procedimento formativo, del regime di pubblicità, della sottoposizione a controllo contabile della compatibilità economica dei costi previsti, l’esigenza di certezza e di conoscenza da parte del giudice è già assolta, in maniera autonoma, mediante la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 47, comma 8, sì che la successiva previsione, introdotta dal D.Lgs. n. 40 del 2006 (che all’art. 7 ha apportato modifiche all’art. 369 c.p.c. prevedendo che il comma 2, n. 4 di tale articolo è sostituito dal seguente: “4. Gli atti processuali, i documenti, i contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda”), deve essere riferita ai contratti collettivi di diritto comune (Cass., Sez. Un., 12 ottobre 2009, n. 21558; Cass., Sez. Un., 4 novembre 2009, n. 23329; Cass. 11 aprile 2011, n. 23329).

6. Tanto precisato, il ricorso, nei motivi in cui è articolato, da trattarsi congiuntamente in quanto intrinsecamente connessi, è fondato per le ragioni di seguito illustrate.

7. Ai fini di un ordinato iter motivazionale occorre, preliminarmente, ricostruire la ratio legis dell’istituto del permesso mensile retribuito di cui alla L. 5 febbraio 1992, n. 104, art. 33, comma 3, alla luce dei suoi presupposti e delle vicende normative che lo hanno caratterizzato.

7.1. In termini generali può dirsi che la norma ha individuato le condizioni cui è subordinato il godimento del diritto e i soggetti che ne sono titolari.

Si tratta di una misura a sostegno dei disabili il cui presupposto è costituito dall’esistenza dello stato di handicap grave della persona da assistere, accertato dagli organi competenti e tale da richiedere un intervento assistenziale permanente e continuativo (ai sensi della L. n. 104 del 1992, art. 3: “1. E’ persona handicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione.

2. La persona handicappata ha diritto alle prestazioni stabilite in suo favore in relazione alla natura e alla consistenza della minorazione, alla capacità complessiva individuale residua e alla efficacia delle terapie riabilitative.

3. Qualora la minorazione, singola o plurima, abbia ridotto l’autonomia personale, correlata all’età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione, la situazione assume connotazione di gravità. Le situazioni riconosciute di gravità determinano priorità nei programmi e negli interventi dei servizi pubblici.

4. La presente legge si applica anche agli stranieri e agli apolidi, residenti, domiciliati o aventi stabile dimora nel territorio nazionale. Le relative prestazioni sono corrisposte nei limiti ed alle condizioni previste dalla vigente legislazione o da accordi internazionali”).

7.3. La normativa specifica in tema di permessi per l’assistenza a familiari disabili di cui alla indicata L. n. 104 del 1992, è la risultante dell’intreccio di diverse disposizioni, che sono state modificate in più occasioni nel corso del tempo. In particolare, l’art. 33, comma 3 di tale legge, nella sua originaria formulazione, così disponeva: “3. Successivamente al compimento del terzo anno di vita del bambino, la lavoratrice madre o, in alternativa, il lavoratore padre, anche adottivi, di minore con handicap in situazione di gravità parente o affine entro il terzo grado, convivente, hanno diritto a tre giorni di permesso mensile, fruibili anche in maniera continuativa a condizione che la persona con handicap in situazione di gravità non sia ricoverata a tempo pieno”.

7.4. La disposizione è stata modificata una prima volta con la L. 8 marzo 2000, n. 53 che, all’art. 19, comma 1, lett. a), ha previsto la copertura da contribuzione figurativa dei giorni di permesso retribuito di cui al comma 3 cit. art. e, all’art. 20, ha sancito l’applicabilità delle disposizioni della L. n. 104 del 1992, art. 33 “ai genitori ed ai familiari lavoratori, con rapporto di lavoro pubblico o privato, che assistono con continuità e in via esclusiva un parente o un affine entro il terzo grado portatore di handicap, ancorchè non convivente”.

7.5. Dalla lettura congiunta della L. n. 104 del 1992, art. 33 con la L. n. 53 del 2000, art. 20 la prevalente giurisprudenza amministrativa (ex plurimis, Consiglio di Stato, sezione quarta, 22 maggio 2012, n. 2964; Consiglio di Stato, sezione sesta, 1 dicembre 2010, n. 8382) ha desunto la eliminazione del requisito della convivenza anche per i permessi mensili retribuiti di cui all’art. 33, comma 3 nonchè l’introduzione dei diversi requisiti della continuità ed esclusività dell’assistenza ai fini della concessione delle agevolazioni in questione.

7.6. La disposizione normativa è stata oggetto di ulteriore modifica ad opera della L. 4 novembre 2010, n. 183 (c.d. Collegato Lavoro) che, all’art. 24, ha sostituito il comma 3 con il seguente: “3. A condizione che la persona handicappata non sia ricoverata a tempo pieno, il lavoratore dipendente, pubblico o privato, che assiste persona con handicap in situazione di gravità, coniuge, parente o affine entro il secondo grado, ovvero entro il terzo grado qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i sessantacinque anni di età oppure siano anche essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti, ha diritto a fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito coperto da contribuzione figurativa, anche in maniera continuativa. Il predetto diritto non può essere riconosciuto a più di un lavoratore dipendente per l’assistenza alla stessa persona con handicap in situazione di gravità. Per l’assistenza allo stesso figlio con handicap in situazione di gravità, il diritto è riconosciuto ad entrambi i genitori, anche adottivi, che possono fruirne alternativamente”.

7.7. La Legge del 2010 ha, inoltre, con l’art. 23, delegato il Governo a riordinare l’intera materia relativa a congedi, aspettative e permessi, al fine di realizzare un “coordinamento formale e sostanziale” delle prescrizioni in vigore (comma 2, lett. a).

7.8. E’ stata apertamente dichiarata la necessità di “garantire la coerenza giuridica, logica e sistematica della normativa e… adeguare, aggiornare e semplificare il linguaggio normativo” (lett. a); al contempo, si è sottolineata l’esigenza di risistematizzare le tipologie dei permessi, con la ridefinizione dei presupposti oggettivi e dei requisiti soggettivi (lett. c e d), semplificando gli oneri di allegazione della documentazione richiesta (lett. e).

In particolare, il legislatore, nel ridefinire la categoria dei lavoratori legittimati a fruire dei permessi per assistere persone in situazione di handicap grave, ha ristretto la platea dei beneficiari.

Infatti, se, da un lato, ha eliminato la limitazione del compimento del terzo anno di età del bambino per la fruizione del permesso mensile retribuito da parte del lavoratore dipendente genitore del minore in situazione di disabilità grave (potendo i genitori, in forza della modifica, fruire, alternativamente, del permesso mensile retribuito anche per assistere figli portatori di handicap in età inferiore ai tre anni), dall’altro, ha riconosciuto il diritto a fruire dei tre giorni di permesso mensile al lavoratore dipendente, pubblico o privato, che assista persona con handicap in situazione di gravità, coniuge, parente o affine entro il secondo grado.

Solo in casi particolari l’agevolazione in questione può essere estesa ai parenti e agli affini di terzo grado delle persone da assistere.

Infatti, l’estensione del diritto a fruire dei benefici in questione ai parenti e affini di terzo grado è stata prevista nei casi in cui il coniuge o i genitori della persona affetta da grave disabilità: a) abbiano compiuto i sessantacinque anni di età; b) siano affetti da patologie invalidanti; c) siano deceduti o mancanti.

7.9. Il citato L. n. 183 del 2010, art. 24 se, dunque, da un lato, ha eliminato i requisiti della continuità ed esclusività dell’assistenza per fruire dei permessi mensili retribuiti, dall’altro, nel modificare della L. n. 104 del 1992, l’art. 33, comma 3, ha introdotto il principio del referente unico per ciascun disabile, ovvero del riconoscimento del permesso mensile retribuito a non più di un lavoratore dipendente per l’assistenza alla stessa persona con handicap in situazione di gravità, fatta salva la possibilità per i genitori, anche adottivi, di fruirne alternativamente, per l’assistenza dello stesso figlio affetto da grave disabilità. Nella formulazione dell’art. 33, comma 3, come sostituito dalla L. n. 183 del 2010, art. 24, comma 1, lett. a), è stato, peraltro, espunto espressamente il requisito della convivenza.

7.10. Il legislatore è intervenuto nuovamente nella materia dei permessi mensili retribuiti spettanti per l’assistenza a persone con disabilità grave, in sede di attuazione della delega contenuta nella L. n. 183 del 2010, art. 23. Tale delega è stata attuata dal D.Lgs. n. 119 del 2011, in particolare dall’art. 6.

7.11. il D.Lgs. n. 119 del 2011, art. 6, comma 1, lett. a), ha aggiunto un periodo al comma 3 della L. n. 104 del 1992, art. 33 relativo alla disciplina della particolare fattispecie del cumulo dei permessi mensili retribuiti in capo al dipendente che presti assistenza nei confronti di più persone in situazione di handicap grave, allorquando ricorrano determinate situazioni ivi elencate.

7.12 Da ultimo la Corte costituzionale, con la sentenza n. 213 del 2016, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della L. n. 104 del 1992, art. 33, comma 3, nella parte in cui non include il convivente – nei sensi di cui in motivazione – tra i soggetti legittimati a fruire del permesso mensile retribuito per l’assistenza alla persona con handicap in situazione di gravità, in alternativa al coniuge, parente o affine entro il secondo grado.

7.13. In tale pronuncia è stato rimarcato che il permesso mensile retribuito di cui all’art. 33, comma 3, è espressione dello Stato sociale che eroga una provvidenza in forma indiretta, tramite facilitazioni e incentivi ai congiunti che si fanno carico dell’assistenza di un parente disabile grave. Trattasi di uno strumento di politica socio-assistenziale, che, come quello del congedo straordinario di cui al D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 42, comma 5, è basato sul riconoscimento della cura alle persone con handicap in situazione di gravità prestata dai congiunti e sulla valorizzazione delle relazioni di solidarietà interpersonale ed intergenerazionale.

Nell’interpretazione del giudice delle leggi, la tutela della salute psicofisica del disabile, costituente la finalità perseguita dalla L. n. 104 del 1992, postula anche l’adozione di interventi economici integrativi di sostegno alle famiglie “il cui ruolo resta fondamentale nella cura e nell’assistenza dei soggetti portatori di handicap” (Corte Cost. sentenze n. 203 del 2013; n. 19 del 2009; n. 158 del 2007 e n. 233 del 2005).

8. Nel novero di tali interventi si iscrive il diritto al permesso mensile retribuito in questione.

8.1. Infatti, alla luce dei suoi presupposti e delle vicende normative che lo hanno caratterizzato, la ratio legis dell’istituto in esame consiste nel favorire l’assistenza alla persona affetta da handicap grave in ambito familiare rendendo incompatibile con la fruizione del diritto all’assistenza da parte dell’handicappato solo una situazione nella quale il livello di assistenza sia garantito in un ambiente ospedaliero o del tutto similare.

8.2. Solo strutture di tal genere, infatti, possono farsi integralmente carico sul piano terapeutico ed assistenziale delle esigenze del disabile, con ciò rendendo non indispensabile l’intervento, a detti fini, dei familiari.

8.3. L’interesse primario cui è preposta la norma in questione è, del resto, quello di “assicurare in via prioritaria la continuità nelle cure e nell’assistenza del disabile che si realizzino in ambito familiare, indipendentemente dall’età e dalla condizione di figlio dell’assistito” (v. Coste Cost. sentenze n. 19 del 2009 e n. 158 del 2007 citate). Tanto più che i soggetti tutelati sono portatori di handicap in situazione di gravità, affetti cioè da una compromissione delle capacità fisiche, psichiche e sensoriali tale da “rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione”, secondo quanto letteralmente previsto dalla L. n. 104 del 1992, art. 3, comma 3.

8.4. L’istituto del permesso mensile retribuito è allora in rapporto di stretta e diretta correlazione con le finalità perseguite dalla L. n. 104 del 1992, in particolare con quelle di tutela della salute psico-fisica della persona portatrice di handicap, diritto fondamentale dell’individuo ai sensi dell’art. 32 Cost., rientrante tra i diritti inviolabili che la Repubblica riconosce e garantisce all’uomo, sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (art. 2 Cost.).

8.5. Pur con i vari interventi legislativi è stata tenuta ferma la condizione che la persona da assistere non sia ricoverata a tempo pieno (cioè per tutte le 24 ore del giorno).

8.6. Tale condizione non può che intendersi riferita al ricovero presso strutture ospedaliere o simili (pubbliche o private) che assicurino assistenza sanitaria continuativa.

Solo se la struttura ospitante sia in grado di garantire un’assistenza sanitaria in modo continuo e così di assicurare al portatore di handicap grave tutte le prestazioni sanitarie necessarie e richieste dal suo status si rende superfluo, o comunque non indispensabile, l’intervento del familiare, venendo così meno l’esigenza di assistenza posta a base dei permessi.

8.7. Se, invece, la struttura non sia in grado di assicurare prestazioni sanitarie che possono essere rese esclusivamente al di fuori di essa, si interrompe la condizione del ricovero a tempo pieno in coerenza con la ratio dell’istituto dei permessi (secondo gli stessi arresti della giurisprudenza costituzionale sopra citati in ordine all’irrilevanza di forme di assistenza non continuativa) che è quella di consentire l’assistenza della persona invalida che non sia altrimenti garantita o per i periodi in cui questa non lo sia.

Solo tale esigenza giustifica il sacrificio imposto al datore di lavoro, in adempimento ad obblighi ispirati al dovere costituzionale di solidarietà.

8.8. Peraltro, come evidenziato, le disposizioni di cui alla L. n. 104 del 1992 sono state oggetto di importanti modifiche aggiuntive ed innovative, introdotte con le L. n. 423 del 1993 e L. n. 53 del 2000, complessivamente caratterizzate da una implementazione del diritto all’assistenza del disabile: tale criterio, che costituisce la ratio legis deve presiedere all’attività di interpretazione della disposizione di che trattasi al fine di assicurare coerenza al sistema e compatibilità con i principi costituzionali, anche ex art. 3 Cost..

8.9. Da tanto consegue che il lavoratore può usufruire dei permessi per prestare assistenza al familiare ricoverato presso strutture residenziali di tipo sociale, quali case-famiglia, comunità-alloggio o case di riposo perchè queste non forniscono assistenza sanitaria continuativa mentre non può usufruire dei permessi in caso di ricovero del familiare da assistere presso strutture ospedaliere o comunque strutture pubbliche o private che assicurano assistenza sanitaria continuativa.

8.10. L’interpretazione qui privilegiata è stata, del resto, fatta propria da questa Corte di cassazione in sede penale (v. Cass. 21 febbraio 2013, n. 8435), laddove, in relazione alla posizione di un pubblico dipendente che rispondeva del reato di falso per aver attestato, appunto falsamente, che la madre ed il padre non erano ricoverati a tempo pieno presso una casa di riposo, richiamando anche le Circolari dell’INPS del 3 dicembre 2010, n. 155 e del Dipartimento Funzione Pubblica n. 13 del 6 dicembre 2010, ha ritenuto che per ricovero a tempo pieno si intende quello, per le intere ventiquattro ore, presso strutture ospedaliere o simili, pubbliche o private, che assicurano assistenza sanitaria continuativà e dunque la natura sanitaria del ricovero.

8.11. Proprio sulla scorta di tale precedente, il Tribunale di Torino, investito in sede penale a seguito della denuncia presentata nei confronti del R. dalla ASL in relazione al reato di cui all’art. 483 c.p., con decreto del 23/8/2017, su conforme richiesta del P.M., ha disposto l’archiviazione ritenendo che il termine ricovero di cui alla L. n. 104 del 1992, art. 33 fosse riferibile al solo ricovero in strutture di tipo sanitario (si vedano gli atti richiamati dal ricorrente ed allegati al ricorso per cassazione).

9. Tale essendo il quadro normativo di riferimento va ritenuto che la Corte territoriale chiamata a valutare la sussistenza o meno di una falsa dichiarazione con riferimento alla compilazione da parte del R. del modulo predisposto dall’Azienda (compilazione da effettuarsi nelle forme della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà D.P.R. n. 445 del 2000, ex art. 76), avente ad oggetto i requisiti per fruire dei benefici L. n. 104 del 1992, ex art. 33 ed in particolare alla parte in cui era indicata quale condizione negativa (da barrare da parte dell’interessato) la frase ‘non ricoverata a tempo pieno presso alcuna strutturà, avrebbe dovuto tener conto delle finalità per le quali la dichiarazione stessa doveva essere resa e quindi affermarne od escluderne la veridicità non in relazione ad una nozione atecnica di ricovero bensì con riferimento alle condizioni richieste per la fruizione del beneficio e cioè ad un ricovero presso una struttura in grado di garantire un’assistenza sanitaria in modo continuo al portatore di handicap grave.

9.1. Così avrebbe dovuto valutare se l’aver apposto una crocetta in corrispondenza di tale frase in presenza di un ricovero della persona da assistere (madre del R.) presso la (OMISSIS) a partire dal 20 luglio 2012, e cioè presso una struttura che non offriva, come è pacifico, assistenza sanitaria, potesse integrare, alla luce della ratio della disposizione agevolativa come sopra ricostruita, una dichiarazione mendace.

9.2. E pur vero che un fatto non costituente illecito penale può essere, ciò nondimeno, rilevante ai fini disciplinari, tuttavia è sempre necessario che sussistano profili di antigiuridicità che vanno specificamente indicati, anche alla luce delle previsioni del codice disciplinare.

9.3. Nella specie, peraltro, nessuna contestazione sull’utilizzo indebito dei permessi era stata formulata al dipendente essendo stata posta a base del provvedimento espulsivo solo la circostanza di aver il R. reso dichiarazioni mendaci, ritenuta rilevante sotto il profilo dell’affidabilità morale e professionale del predetto e come tale inficiante in modo irreversibile il rapporto di fiducia che deve necessariamente sussistere tra lavoratore e datore di lavoro (si vedano il contenuto della contestazione e del conseguente provvedimento di licenziamento come riportati in sede di ricorso per cassazione nonchè il passaggio della stessa memoria difensiva della ASL del 7/12/2016, pure riportato in ricorso, nel quale è evidenziato che “la valutazione che l’UPD è stato chiamato ad effettuare…. non ha riguardato…. la verifica della sussistenza o meno dei presupposti necessari al sig. R. per continuare a beneficiare dei permessi della L. n. 104 del 1992…”).

9.4. Anche il profilo dell’affidabilità morale e professionale andava, perciò, considerato tenendo conto dell’ambito definito della contestazione limitata alla dichiarazione asseritamente mendace rilasciata dal R..

10. Da tanto consegue che, assorbiti gli ulteriori rilievi, il ricorso, conformemente alle conclusioni del P.G., deve essere accolto e la sentenza cassata con rinvio alla Corte d’appello di Torino che procederà ad un nuovo esame tenendo conto dei principi sopra affermati e provvederà anche in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M. motivazione; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Torino in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 18 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 14 agosto 2019

La Corte accoglie il ricorso nei sensi di cui in

PUBBLICO IMPIEGO PERMESSI PER PARTECIPARE AD ATTIVITA’ SELETTIVE INTERNE.

Pubblico Impiego – CCNL Funzioni Centrali – articolo 31 , assenza per procedure selettive interne nell’ambito della mobilità.

È stato formulato un quesito per conoscere se i permessi retribuiti per la partecipazione a concorsi o esami di cui all’art. 31, comma 1, lett. a), del CCNL Funzioni centrali del 12/2/2018 sia applicabile anche ai dipendenti che ne facciano richiesta per lo svolgimento di prove selettive nell’ambito di procedure di mobilità o propedeutiche all’attivazione di comandi.

Il parere dell’ARAN nega possa essere effettuata una simile estensione, in quanto simili procedure non possono essere riportate

Al riguardo, afferma l’Agenzia, appare opportuno sottolineare che la natura delle procedure che gli enti attivano a vantaggio del solo personale già in servizio nella pubblica amministrazione, al fine di selezionare quanti siano interessati ad un passaggio – temporaneo o definitivo – nei propri organici, non appare assimilabile a quella delle procedure selettive di tipo concorsuale né ad un esame.

Si ritiene, pertanto, che l’esigenza di assentarsi per svolgere un colloquio o una prova di idoneità in relazione ad una procedura finalizzata all’attivazione di un comando o di una mobilità non rientri tra quelle che il CCNL sottoscritto il 12/2/2018 ha inteso tutelare con l’istituto di cui all’art. 31, comma 1, lett. a). La fattispecie può comunque essere ricondotta a quella del permesso retribuito per motivi personali ai sensi dell’art. 32 del richiamato CCNL.

ROMA- PALAZZO WEDEKIND-PIAZZA COLONNA L’Avv.ARAMINI LAURA DELLA CIU PARTECIPA AL CONVEGNO : “COMBATTERE LA DISOCCUPAZIONE DI LUNGO PERIODO: IL RUOLO DELLA SOCIETA’ CIVILE ORGANIZZATA”

Nella prestigiosa sala di Palazzo Wedekind , in Piazza Colonna, si è svolto il convegno promosso dal Consiglio Nazionale dell’Ordine dei consulenti del lavoro, in collaborazione con l’Osservatorio del mercato del lavoro (OML) del Comitato economico e sociale Europeo(CESE). Tra i relatori anche la CIU, rappresentata dall’Avv. Laura Aramini, che ha portato i saluti del […]

Un argomento che interessa in particolare i quadri, premi e detassazione di Raffaella Elia Consulente del Lavoro.

  • Detassazione dei premi di produvità Premi di risultato cosa sono e come vengono erogati:I premi di risultato o di produttività sono quelle somme aggiuntive della retribuzione che il datore dilavoro può decidere di erogare ai lavoratori al fine di fidelizzarli e con lo scopo di ottimizzare la prestazione di lavoro incitandoli ad una maggiore produttività.I premi di risultato affinchè possano essere erogati devono essere preventivamente stabiliti dall’azienda mediante contratti individuali, aziendali e/o territoriale (articolo 51 del D.Lgs 15 giugno 2015, n. 81accordi,)In altri casi i premi di risultati sono previsti da accordi sindacali.In questo modo l’azienda vuole che i lavoratori partecipino attivamente nella determinazione dei risultati e non vuole che questi siano imposti ma condivisi.Il*premio di risultato*è, dal punto di vista fiscale e previdenziale, una forma di retribuzione a tutti gli effetti e dunque su di esso il lavoratore dipendente deve pagare le tasse e l’aliquota contributiva spettante (ossia, l’imposta sul reddito delle persone fisiche) come sul resto dello stipendio ed il datore di lavoro deve pagarci i contributi previdenziali.Questo provocherebbe l’effetto contrario, quindi il lavoratore vedrebbe vanificato la gratificazione ela soddisfazione di avere una somma aggiuntiva e di conseguenza disincentivare la volontà di ottimizzare il lavoro e produrre di più.Per evitare questo tipo di situazione, la legge è intervenuta prevedendo una tassazione agevolata perle somme erogate come premio di risultatoL’agevolazione consiste nel fatto che, su queste somme, il dipendente pagherà una aliquota Irpef del10% e non la sua aliquota ordinaria (che è pari, minimo, al 23%).Affinché sia possibile applicare l’agevolazione è necessario che si verifichino determinate condizioni, ovvero:- L’aliquota agevolata del 10% è possibile applicarla per premi di produzioni non superiore a 3 mila euro, aumentandolo a 4 mila euro nel caso in cui vi sia il completo coinvolgimento ei lavoratori nell’organizzazione aziendale.- Se il premio di produttività supera le 3 mila euro ( 4 mila nel caso di coinvolgimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale) si applica per l’eccesso l’aliquota ordinaria;- La tassazione agevolata è possibile applicarla solo per quei lavoratori che nell’anno fiscale precedente hanno dichiarato un reddito non superiore a 80 mila euro.- il lavoratore deve dipendere da una ditta privata e non può usufruirne se è un dipendente pubblico;- per poter accedere all’agevolazione fiscale, deve essere stato previsto in unaccordo sindacale*tra azienda e organizzazioni sindacali. Restano dunque esclusi i premi di risultato stabiliti dai contratti collettivi nazionali di lavoro, da contratti individuali di lavoro contratti aziendali di cui all’articolo 51 del D.Lgs 15 giugno 2015, n. 81.
  • Per i lavoratori che convertono il premio di risultato in misure di welfare aziendale, è prevista la detassazione totale così come previsto dal comma 4 art. 51 del TUIR .Dal 2017 i beni ed i servizi di welfare aziendale inclusi, e quindi che beneficiano della detassazione totale sono:- L’alloggio;- L’auto;- I finanziamenti a tasso agevolato;- I servizi di trasporto ferroviario;- La previdenza complementare;- L’assistenza sanitaria integrativa;- Gli investimenti in azioni.I servizi e i beni di welfare aziendali erogati al lavoratore, possono anche essere estesi agli altri componenti del nucleo familiare del lavoratore beneficiario del premio che quindi può essere trasformato in borse di studio da erogare a favore dei figli.

Quota 100 e la legge 4/2019 – una pluralità di opzioni pensionistiche

Il DL 4/2019 – quota 100 ed altri interventi in materia pensionistica – intervento al Convegno di Udine del 19.9.2019.

  1. Le caratteristiche più recenti della normativa previdenziale.

In qualche modo la materia previdenziale riveste ormai un ruolo strettamente dipendente dall’economia nazionale e dalla politica di bilancio, nonché dei frequenti cambi di governo. Per tale motivo assistiamo ad una frequenza quasi costante di interventi che riduce al minimo il carattere di generalità e sistematicità della legge.

  • I principali interventi legislativi che si sono succeduti negli anni 90.

 E’ questo il periodo dove le pressioni di bilancio dell’ente pensionistico hanno indotto i governi a diversi interventi legislativi che gradualmente hanno modificato il regime della previdenza. Così nel 1992 con il DLGS 503/92 , era dato corso all’inversione di rotta che istituiva un doppio sistema di calcolo determinando così sulla base dell’ultimo stipendio il solo periodo antecedente l’1.1.1993.

La successiva legge 335/95 (Riforma Dini) introduceva per il calcolo delle pensioni il metodo contributivo applicato agli assunti dopo l’1.1.1996 per i restanti pensionanti erano applicati dei sistemi di calcolo misti (contributivo/retributivo) in base all’anzianità alla data dell’1.1.96.

  • Un ulteriore passaggio fondamentale, la legge 214/2011 (Fornero), segna una notevole svolta nell’ambito della disciplina pensionistica.

E’ così abolita la pensioni di anzianità.

Rimane la pensione di vecchiaia a 67 anni con almeno 20 di contribuzione.

E’ introdotta al posto della pensione di anzianità, la pensione di vecchiaia anticipata base contributiva, data da 42 anni e 10 mesi per gli uomini e 41 e 10 mesi per le donne.

Sono così eliminate le quote con età e contribuzione per raggiungere la pensione, sono pure eliminate le cosiddette finestre.

Sono attivati per modificare periodicamente i requisiti pensionistici i cosiddetti indici di aspettativa di vita.

  • Correttivi ed eccezioni.

 La riforma Fornero rispecchiava un intervento di emergenza e costruito in breve tempo.

Accanto alle regole generali appena introdotte, si affiancavano pertanto dei correttivi e delle eccezioni.

La prima era l’opzione donna che permetteva e permette tuttora con il regime esclusivamente contributivo il pensionamento delle lavoratrici donne con limiti di età più favorevoli (attualmente 38 anni di età e 35 di contributi).

Era introdotta pure una forma di pensionamento di vecchiaia anticipato per coloro che per un determinato periodo avessero svolto lavori usuranti (quota 41) oppure avessero iniziato a lavorare prima dei 18 anni. (quota 41).

Era introdotto quindi una sorta di pensionamento anticipato al massimo di 3 anni con finanziamento a carico dell’interessato o delle aziende ed in determinati casi dell’INPS. Con il DL 4/2019 il provvedimento è prorogato per un anno. Erano inoltre introdotte le cosiddette clausole di salvaguardia per i cosiddetti esodati, intendendosi coloro che si erano dimessi confidando nel raggiungimento della pensione poi impedito dalla legge Fornero.

  • Il DL 4/2019.
  • Caratteristiche generali.

Non è una riforma epocale è solo una parziale inversione di tendenza rispetto alla legge 214/2011, o ancor meglio un ritorno a taluni istituti del passato ed il rafforzamento di quelli che abbiamo definito eccezioni e correttivi allo stato già presenti. Come vedremo il provvedimento maggiormente significativo è dato dalla quota 100.

  • Quota 100.

E’ un provvedimento sperimentale destinato a valere per il triennio 2019/2021 mediante il ripristino di un sistema di quote.

In questo caso si richiede il compimento di un età minima ed un numero di contributi che tradotti in anni portino a quota 100.

Come abbiamo già accennato, sono stati introdotti nuovamente degli istituti complementari come ad esempio il divieto di cumulo oltre i 5.000. – euro che vale sino a quando l’assicurato non avrà raggiunto i normali requisiti pensionistici.

Sono state reintrodotte le finestre sia per evitare il pagamento immediato, ma anche per evitare fuoriuscite immediate che avrebbero potuto arrecare seri pregiudizi all’economia.

Pertanto chi matura quota 100 al 31.12.2018, potrà fuoriuscire ad aprile 2019. Chi invece maturerà i requisiti dall’1.1.2019 , potrà fruire della pensione dopo tre mesi.

Diverse regole valgono per il raggiungimento di quota 100 nell’ambito della scuola dove il pensionamento diviene effettivo appena con l’inizio dell’anno scolastico successivo.

Nell’ambito del pubblico impiego, l’articolo 14 del DL 4/2019 dispone che la domanda va posta all’amministrazione con un preavviso di 6 mesi, si chiede come detta norma si raccordi con i periodi di preavviso previsti dalla contrattazione collettiva.

In ogni caso, il lavoratore può continuare a lavorare sino alla data fissata dalla finestra ed in tal modo potrà anche incrementare la propria pensione.

Sempre in tema di pubblico impiego, il TFS nel caso di raggiungimento della quota 100 va a decorrere solo dalla data in cui sarebbe maturata la precedente data di pensionamento, scattando inoltre pure il differimento previsto dalle precedenti norme di legge. In tal caso, vi è la possibilità di finanziamento e anticipo mediante convenzione.

Anche per tutti gli altri istituti derogatori , è bloccato l’automatico aumento dei termini in base ai criteri di aspettativa di vita, ma nel contempo sono stabilite delle finestre come per opzione donna e per i lavoratori precoci.

  • Pace Contributiva.

Introdotta pure con il DL 4/2019 essa permette il riscatto di periodi non lavorati in caso di persone prive di contribuzione alla data del 31.12.1995 (misura sperimentale 2019/2021).

  • Il Riscatto agevolato della laurea. Vale per i titoli conseguiti dopo 1.1.1996 quindi con il regime contributivo, gode di contributi agevolati con una rateizzazione massima di 10 anni

Concludiamo con questo esame della normativa pensionistica succedutasi, rilevando come ormai si viva un regime di estrema flessibilità previdenziale affidato alla capacità del lavoratore di individuare la via migliore.

Trieste, 18 settembre 2019.

Avvocato Fabio Petracci.

Pubblico impiego area quadri.

PUBBLICO IMPIEGO

Dipendente di categoria C4 – Comparto Amministrazioni Centrali –

Privazione della Posizione Organizzativa alla scadenza – dequalificazione insussistenza.

Privazione di compiti di coordinamento, direzione – tipici del livello C- 4 , dequalificazione sussiste.

Sussistenza di predisposizione alla malattia psichica – nesso causale e sussistenza del danno compatibilità.

La sentenza in oggetto, conferma indirizzi giurisprudenziali abbastanza consolidati.

In primo luogo, l’attribuzione di una posizione organizzativa non costituisce una modifica all’inquadramento, ma più semplicemente un’attribuzione di incarico avente natura contrattuale che può venir meno alla scadenza dello stesso.

Diverso invece è il discorso per la corrispondenza delle mansioni alla declaratoria di inquadramento.

L’articolo 52 del DLGS 165/2001 (Testo Unico del Pubblico Impiego) stabilisce che il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni equivalenti nell’ambito dell’area di inquadramento.

La norma risulta così congegnata dopo l’entrata in vigore del DLGS 150/2009 in precedenza stabiliva invece che il dipendente pubblico deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni considerate equivalenti nell’ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi.

Come dato a vedere dalla successione normativa in esame il limite per la dequalificazione è dato dall’area di inquadramento e non rilevano più le eventuali suddivisioni interne all’area o la qualità delle mansioni affidate.

Con il DLGS 81/2015 (Jobs Act), il limite alla dequalificazione è fatto coincidere con tutte le mansioni della categoria di inquadramento.

In tal modo, nell’ambito privato e pubblico lo Jus variandi è ampliato all’intera area di inquadramento.

Per quanto riguarda l’area C del pubblico Impiego, essa coincide in qualche modo a quella che è nel privato l’area quadri.

Diversi sono nell’ambito del pubblico i tentativi di introdurre nel sistema di classificazione del personale l’area dei quadri.

L’iniziativa patrocinata anche da questo studio anche con fasi alterne ha infine avuto esito negativo innanzi alla Corte di Cassazione (Sezione Lavoro 19.12.2008 n.29829 e prima Cassazione Civile Sezione Lavoro 5.7.2005 n.14193.

Di seguito con la legge n.145 del 15 luglio 2002 grazie all’intensa attività in favore svolta da UNIONQUADRI nei confronti del Governo allora in carica era introdotto al DLGS 165/2001 l’articolo 17 che prevedeva l’istituzione della vicedirigenza attingendo ai livelli apicali dell’area C.

La norma non fu mai attivata a causa di una netta opposizione dei sindacati confederali ed alla fine venne abrogata.

Fabio Petracci.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 10/01/2018) 26-04-2018, n. 10138

LAVORO (CONTRATTO COLLETTIVO DI)

Fatto Diritto P.Q.M.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 20860-2012 proposto da:

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE, C.F. (OMISSIS), in persona del Presidente e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dall’Avvocato PAOLA MASSAFRA, che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

G.U.;

– intimato –

avverso la sentenza definitiva n. 868/2011 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 27/03/2012 R.G.N. 317/2008;

avverso la sentenza non definitiva n. 427/2011 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 03/08/2011 R.G.N. 317/2008;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/01/2018 dal Consigliere Dott. ROBERTO BELLE’;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MASTROBERARDINO Paola, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato LUCIA POLICASTRO per delega verbale Avvocato PAOLA MASSAFRA.

Svolgimento del processo

1. La Corte d’Appello di Venezia, con sentenza non definitiva n. 427/2011, poi seguita da sentenza definitiva n. 868/2011, ha confermato la pronuncia del Tribunale di Treviso con cui era stato riconosciuto che l’I.N.P.D.A.P. aveva demansionato G.U., con condanna dell’ente al risarcimento del danno biologico cagionato al ricorrente, in misura di Euro 13.560,90, nonchè al pagamento di 160 ore di lavoro straordinario prestate dal lavoratore.

Avverso la sentenza l’I.N.P.S,. ente in cui è medio tempore confluito l’I.N.P.D.A.P., ha proposto ricorso per cassazione, affidandosi a due motivi, per le sole questioni attinenti al demansionamento e non quindi rispetto al riconoscimento dello straordinario. Il G. è rimasto intimato.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo, riguardante la sentenza non definitiva, l’I.N.P.S. lamenta la violazione degli artt. 1362 ss. c.c., anche in relazione al CCNL 19982001 e CCIE 1999-2001 e del D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 2 e 52, in relazione ai principi di cui all’art. 111 Cost. ed in particolare del comma 7, in una lettura integrata con l’art. 6 CEDU. Il ricorrente premette che l’attribuzione dell’incarico di posizione organizzativa, già conferito al G., non incide sul livello di inquadramento del dipendente, il quale durante e dopo lo stesso mantiene il livello posseduto precedentemente.

Sostiene quindi che le attività cui il G. era stato adibito dopo la cessazione dell’incarico di posizione organizzativa non determinavano la violazione della normativa collettiva di definizione dell’area C e della posizione C4 di appartenenza del ricorrente, anche sulla base delle risultanze dell’istruttoria svolta.

2. Il motivo non merita accoglimento.

2.1 Va intanto rilevato che l’oggetto del contendere, almeno per come definito nella sentenza di secondo grado e sul punto non contestato, non riguarda la legittimità della revoca della posizione organizzativa in sè considerata, quanto il comportamento datoriale tenuto dopo tale revoca, in quanto tale da avere comportato una variazione peggiorativa delle attività fatte svolgere al G. rispetto al profilo (C4 del C.C.N.L. enti pubblici economici 1998-2001) di inquadramento.

2.2 La Corte d’Appello di Venezia, nel ricostruire gli esiti istruttori, ha ritenuto che le mansioni successivamente assegnate al G. fossero nettamente inferiori a quelle di inquadramento, sottolineando come esse avessero carattere meramente impiegatizio, da svolgersi alle dipendenze di un responsabile di area di livello inferiore e fossero prive di qualsiasi profilo di responsabilità e quindi in contrasto con la declaratoria contrattuale propria del profilo C4 di appartenenza.

Rispetto a tale apprezzamento, fondato su risultanze testimoniali che sono state espressamente richiamate nella motivazione della sentenza impugnata, l’I.N.P.S. adduce altre emergenze istruttorie che però non inficiano le conclusioni della Corte distrettuale.

La circostanza infatti che i diversi impiegati inquadrati in Area C, come il G., svolgessero, nell’occuparsi di una pratica, un pò tutte le mansioni rientranti nell’ambito di tale Area, se può giustificare che anche il G. all’occorrenza dovesse fare altrettanto, non significa che egli potesse, come emerso dall’istruttoria così come valorizzata dalla Corte veneziana, essere privato di qualsiasi profilo di responsabilità.

La posizione C4 in cui il G. pacificamente è ed ha diritto ad essere inquadrato, prevede invece la responsabilità come tratto caratterizzante, sia dal punto di vista formale (“assunzione di responsabilità formale” si legge nella declaratoria del C.C.N.L. richiamata dalle parti) sia dal punto vista sostanziale (richiedendo ad esempio la “capacità di assumere decisioni anche in situazioni di criticità”).

La Corte d’Appello non ha quindi violato alcuna norma sull’interpretazione dei contratti (qui, collettivi) ed il motivo risulta palesemente inidoneo ad inficiare in alcun modo la motivazione addotta, in stretta coerenza tra declaratoria e risultanze istruttorie, nella sentenza impugnata.

3. Infondato è anche il secondo motivo, che concerne gli apprezzamenti della sentenza definitiva in ordine al nesso causale tra il comportamento illegittimo e il danno biologico accertato, nonchè la quantificazione del risarcimento posto a carico dell’ente.

L’I.N.P.S. sostiene che vi sarebbe stata la violazione, rilevante ex art. 360 c.p.c., n. 3, dell’art. 41 c.p., ovverosia della regola sull’equivalenza delle concause. Sul presupposto che il lavoratore avesse, come accertato dal c.t.u., una naturale predisposizione alla malattia psichica poi sviluppatasi, l’ente ritiene che la medesima condizione andasse intanto considerata anch’essa come causa del danno ed inoltre, mancando prova “del nesso di causalità tra i comportamenti datoriali ed il danno patito dal lavoratore”, essa dovesse essere intesa quale unica “determinante dell’evento”.

Non appare tuttavia corretto l’assunto secondo cui la predisposizione personale sarebbe da intendere quale concausa del manifestarsi del danno, in quanto nulla autorizza ad affermare che la situazione di latenza della patologia accertata dal c.t.u. si sarebbe conclamata in danno, senza il ricorrente dei fattori scatenanti afferenti alla vicenda penalistica e lavorativa apprezzati dal c.t.u. e puntualmente valorizzati dalla Corte d’Appello. Ciò manifesta l’inconsistenza di quanto sostenuto con il motivo in esame, attraverso cui si sottopone alla Corte un’apodittica ed inammissibile (Cass., S.U., 25 ottobre 2013, n. 24148) rilettura dei dati di merito.

Si deve poi osservare che la sentenza definitiva di appello si fonda su chiarimenti resi del c.t.u. in cui quest’ultimo, secondo quanto riportato espressamente nello stesso ricorso per cassazione, afferma che il danno manifestatosi era da riportare non solo alla vicenda penalistica, ma anche al “vissuto persecutorio” in sede di lavoro.

Vissuto che il c.t.u. riconosceva in nesso causale con il pregiudizio alla salute, a condizione che “la ricostruzione giudiziaria della vicenda fosse risultata conforme alle dichiarazioni del periziato”.

Da ciò la Corte, avendo con la sentenza non definitiva già accertato il comportamento dequalificante, ha ovviamente tratto la conclusione della ricorrenza del nesso concausale, tra le vicende penalistiche/lavoristiche e la manifestazione del danno, concludendo poi in termini giuridici per la piena responsabilità datoriale verso il G., secondo il principio di equivalenza delle concause.

E’ quindi palese che, da quest’ultimo punto di vista, il motivo di ricorso per cassazione si basa su un presupposto, ovverosia il mancato accertamento di nesso causale tra comportamento datoriale e danno, che è erroneo, in quanto l’accertamento di quel nesso vi è stato e neppure sono stati spesi effettivi argomenti logici atti a porne in dubbio la fondatezza.

4. In definitiva il ricorso va integralmente rigettato.

5. Nulla va disposto sulle spese, stante il fatto che la parte vincitrice è rimasta intimata.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 10 gennaio 2018.

Depositato in Cancelleria il 26 aprile 2018

Incontro di studio: “Le novità del sistema pensionistico”

Pubblichiamo di seguito la locandina dell’incontro di studio dedicato, a seguito dell’entrata in vigore del D.L. n. 4/2019 convertito in legge n. 26/2019, alle principali novità del sistema pensionistico.

Nel corso dell’incontro, che si terrà in data giovedì 19 settembre in Udine dalle ore 15 alle ore 18 presso la Sala Scrosoppi di viale Ungheria 22, sarà presentato il volume “Previdenza sociale e lavoro – Il nuovo sistema pensionistico: tutele e contenzioso” degli autori Fabio Petracci ed Alberto Tarlao.

Insegnanti

I rischi che corre l’insegnante a tempo indeterminato che trova una nuova occupazione.

Scuola – Dimissioni – Decadenza dall’impiego – pregiudizi.

  1. Le dimissioni principi generali.

Le dimissioni nell’ambito del rapporto di lavoro sono contemplate in un quadro normativo abbastanza scarno.

Il riferimento va all’articolo 2118 del codice civile laddove si legge che “Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato [c.c. 1373], dando il preavviso nel termine e nei modi stabiliti [dalle norme corporative] (1), dagli usi o secondo equità (4)(2).

In mancanza di preavviso, il recedente è tenuto verso l’altra parte a un’indennità equivalente all’importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso [c.c. 1750, 2948, n. 5].

La stessa indennità è dovuta dal datore di lavoro nel caso di cessazione del rapporto per morte del prestatore di lavoro.”

Il principio compendiato in maniera chiara è quello dell’esercizio di un diritto potestativo che prescinde dalla volontà del soggetto del destinatario dell’atto a cui occorre solo far pervenire la relativa comunicazione.

Diverse sono poi le norme che tutelano il receduto allorquando esso è rappresentato dal lavoratore. 

La sostanziale libertà di recesso che poi ha trovato consistenti limiti nei confronti del datore di lavoro, rappresenta per quanto riguarda il prestatore di lavoro, una forma di rispetto nei confronti dell’articolo 4 della Carta Costituzionale che vuole consentire al lavoratore con contratto indeterminato di autodeterminare il proprio futuro professionale nell’ambito delle limitate occasioni di occupazione soddisfacente, offerte dall’attuale mercato del lavoro.

Il principio affermato in termini costituzionali della libera volontà del prestatore di lavoro si manifesta in primo luogo nella possibilità per le parti di negoziare limiti ragionevoli a tale potestà in ogni caso basati su principi di natura risarcitoria, potendo così legittimamente stipulare delle clausole di durata minima garantita garantite da una penale.

Ne discende, ad avviso chi scrive, un immanente e costituzionalmente garantito principio di libertà per il recesso del lavoratore che, sempre nel rispetto del dettato di cui all’articolo 4 della Carta Costituzionale ammette talune clausole di natura meramente risarcitoria.

  • Le dimissioni nel pubblico impiego contrattualizzato dopo la riforma avviata con il DLGS 29/93.
  1. La disciplina generale della materia (articolo 2, comma 2 del DLGS 165/2001, Testo Unico del Pubblico Impiego) stabilisce che i rapporti di lavoro delle amministrazioni pubbliche (il cui personale non permane in regime di diritto pubblico come nel caso di Forze Armate, Magistratura , corpo docente universitario) sono disciplinati dalle disposizioni del Capo I, Titolo II, del Libro V del codice Civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro nell’impresa, consentendo la deroga da parte della contrattazione collettiva alle norme di legge e di regolamento o statuto, che introducano specifiche discipline dei rapporti di lavoro.Il precedente testo unico degli impiegati civili dello Stato prevedeva oltre alla risoluzione del rapporto di lavoro per varie fattispecie tra cui quella disciplinare, anche un’ulteriore ipotesi dove concorreva anche la volontà del dipendente.Era infatti prevista la decadenza dall’impiego in diverse ipotesi tra cui quella che si verificava nel caso in cui il dipendente senza giustificato motivo, non assumesse o non riassumesse servizio entro il termine prefissogli, ovvero fosse rimasto assente dall’ufficio per un periodo non inferiore a quindici giorni ove gli ordinamenti particolari delle singole amministrazioni non stabiliscano un termine più breve.Detta norma, secondo recente giurisprudenza della Suprema Corte n.20555 del 6.8.2018, è ancora vigente per quanto attiene l’ipotesi dell’incompatibilità che si verifica in forza dell’articolo 53 comma primo del DLGS 165/2001 laddove l’impiegato si trovi in condizione di incompatibilità e, diffidato dal cessare tale situazione, trascorsi 15 giorni dalla diffida, permanendo nella posizione incompatibile venga dichiarato decaduto.Dunque un ipotesi di cessazione per fatto concludente che non assume valenza disciplinare, ma da cui consegue l’istituto della decadenza dall’impiego.Secondo quanto motivato nella sentenza della Suprema Corte cui si è fatto cenno, tale ipotesi risolutiva continuerebbe ad esistere laddove la risoluzione del rapporto non consegua ad un fatto disciplinare il cui ambito di operatività normativa sarebbe invece il citato DLGS 165/2001 dagli articoli 55 e seguenti. (impianto disciplinare del pubblico impiego contrattualizzato).

.

b. La normativa legale specifica della scuola il DLGS n.297/1994, articolo 510.

Il settore della Scuola pubblica è integralmente destinatario della normativa di cui al testo unico del pubblico impiego contrattualizzato e quindi dal DLGS 165/2001.

Quindi il rapporto di lavoro è integralmente contrattualizzato ed opera il complesso di norme in tema di risoluzione del rapporto di cui al codice civile ed alla contrattazione collettiva di comparto.

Sussistono comunque delle particolarità che nel caso in esame assumono rilevanza.

Trattasi in primo luogo del decreto legislativo 297 del 1994 che prevede specifiche normative in materia di istruzione scolastica e di personale insegnante. In proposito, l’articolo 510 (dimissioni) prevedeva per le dimissioni un termine in base al quale, le dimissioni presentate avevano efficacia esclusivamente dal 1° settembre successivo alla data in cui sono state presentate. Stabilisce inoltre la medesima norma che le dimissioni presentate dopo tale data, ma prima dell’inizio dell’anno scolastico successivo, hanno effetto dal 1° settembre dell’anno che segue il suddetto anno scolastico. Conclude l’articolo medesimo che il personale è tenuto a prestare servizio fino a quando non gli venga comunicata l’accettazione delle dimissioni.

La norma risulta abrogata dall’articolo 4, comma 1, DPR 28 aprile 1998 n.351.

Contestualmente, sulla base della legge 15.3.1997 n.59 articolo 20, comma 8, era emanato il DPR 28.4.1998 n.351 all’articolo 1 (cessazione dal servizio) dove era stabilito che i collocamenti a riposo a domanda per compimento del quarantesimo anno di servizio utile al pensionamento e le dimissioni dall’impiego del personale del comparto «Scuola» con rapporto di lavoro a tempo indeterminato decorrono dall’inizio dell’anno scolastico o accademico successivo alla data in cui la domanda è stata presentata.

Era quindi aggiunto al comma 2 che con decreto del Ministro della pubblica istruzione è stabilito il termine entro il quale, annualmente, il personale di cui al comma 1 può presentare o ritirare la domanda di collocamento a riposo o di dimissioni.

Nel contempo, il contratto collettivo di comparto (Scuola) all’articolo 23 (termini di preavviso) stabilisce in caso di risoluzione del rapporto di lavoro dei termini di preavviso che vanno da 2 mesi a 4 mesi a seconda dell’anzianità di servizio.

Il problema aperto.

Ne deriva una situazione alquanto incongrua, in quanto, il dipendente che, ad esempio ha trovato un nuovo lavoro, si trova a dover rispettare il preavviso contrattuale cui abbiamo appena fatto cenno oltre al “preavviso” legale previsto dall’articolo 1 del DPR 28.4.1998 n.351 dove è stabilito che i collocamenti a riposo a domanda per compimento del quarantesimo anno di servizio utile al pensionamento e le dimissioni dall’impiego del personale del comparto «Scuola» con rapporto di lavoro a tempo indeterminato decorrono dall’inizio dell’anno scolastico o accademico successivo alla data in cui la domanda è stata presentata.

Le dimissioni che non rispettano questi ultimi termini si appalesano inefficaci. In tal modo, il dipendente sarà tenuto a rendere la prestazione e due sono le ipotesi cui egli può andare incontro.

Da un lato, egli assumendo un nuovo lavoro si pone in posizione di incompatibilità con l’impiego in essere e rischia la decadenza, diversamente, gli potrà essere contestata l’assenza ingiustificata e comminato quindi il licenziamento disciplinare.

Trattasi di due ipotesi entrambi pregiudizievoli qualora il dipendente dimissionario debba affrontare un concorso pubblico.

Inoltre, secondo quanto previsto dall’articolo 55 bis del DLGS 165/2001 ai commi 8 e 9 prevede che in caso di trasferimento del dipendente, a qualunque titolo, in un’altra amministrazione pubblica, il procedimento disciplinare è avviato o concluso e la sanzione è applicata presso quest’ultima.

Il successivo comma 9 prevede inoltre che la cessazione del rapporto di lavoro estingue il procedimento disciplinare salvo che per l’infrazione commessa sia prevista la sanzione del licenziamento.

Va anche notato che il medesimo contratto della scuola consente all’articolo 18 un’apposita fattispecie di aspettativa per avviare una nuova esperienza lavorativa e superare il periodo di prova presso un nuovo datore di lavoro.

Si giunge così al paradosso, dove il dipendente che ha ottenuto l’aspettativa per testare un nuovo rapporto di lavoro e si decida per quest’ultimo, sia costretto a riprendere il precedente impiego a pena di decadenza o di sanzione disciplinare.

Alcune soluzioni giurisprudenziali e la soluzione auspicata.

Casi del genere sono pervenuti all’attenzione della giurisprudenza anche della Suprema Corte la quale con sentenza del 12.2.2015 n.2795 proprio nello specifico caso delle dimissioni rese nell’ambito della scuola ha ritenuto che l’atto di recesso unilaterale è idoneo a determinare la risoluzione del rapporto, a prescindere dall’accettazione del datore di lavoro, va contemperato con le esigenze di natura organizzativa collegate al buon andamento dell’attività scolastica, che impongono che i termini per la presentazione delle domande siano individuati dalla normativa di riferimento, e che, ai sensi dell’art. 10 del d.l. 6 novembre 1989, n. 357, convertito con modificazioni nella legge 27 dicembre 1989, n. 417, ne individuano la decorrenza dal 1 settembre di ogni anno. (Nella specie, la Suprema Corte ha ritenuto inefficaci le dimissioni di un collaboratore scolastico, presentate in data 26 marzo 2006, in relazione all’anno scolastico 2006-2007, in quanto presentate oltre il termine previsto dal d.m. 18 novembre 2005, n. 87, restando suscettibili di efficacia per la prima successiva data utile del 1° settembre 2007).

Di fronte all’inefficacia delle dimissioni, va approfondita la posizione del dipendente che le ha rassegnate.

Si ipotizza infatti a fronte della mancata presenza in servizio l’ipotesi della decadenza o del licenziamento per assenza ingiustificata.

Entrambi provvedimenti possono influire nel caso di partecipazione a concorso per l’assunzione nella pubblica amministrazione.

In primo luogo, ci si chiede se l’istituto della decadenza abbia ancora diritto di cittadinanza nell’ambito del pubblico impiego contrattualizzato.

La Corte di Cassazione con la pronuncia n.20555 del 6.8.2018 ha ribadito come l’istituto della decadenza dal rapporto di impiego, come disciplinato dagli articoli 60 e seguenti del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, sia applicabile ai dipendenti di cui all’art. 2, commi secondo e terzo, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, in forza dell’espressa previsione contenuta nell’art. 53, comma primo, dello stesso decreto, e, siccome detta forma di decadenza costituita dall’aver assunto altro impiego incompatibile, attiene alla materia delle incompatibilità, essa è estranea all’ambito delle sanzioni e della responsabilità disciplinare di cui all’art. 55 dello stesso testo normativo.

Dunque continua ad applicarsi l’istituto della decadenza laddove il dipendente che assuma una posizione di impiego incompatibile non aderisca alla diffida dell’amministrazione a riprendere servizio.

La gran parte dei bandi di concorso per le pubbliche amministrazioni considera come causa di esclusione dalla partecipazione al concorso l’essere incorsi nella decadenza dall’impiego prevista dall’articolo 127 del DPR n.3 del 1957 Testo Unico del Pubblico Impiego considerato ancora vigente.

Esso prevede che l’impiegato incorre nella decadenza dall’impiego:

a) quando perda la cittadinanza italiana;

b) quando accetti una missione o altro incarico da una autorità straniera senza autorizzazione del Ministro competente;

c) quando, senza giustificato motivo, non assuma o non riassuma servizio entro il termine prefissogli, ovvero rimanga assente dall’ufficio per un periodo non inferiore a quindici giorni ove gli ordinamenti particolari delle singole amministrazioni non stabiliscano un termine più breve (161);

d) quando sia accertato che l’impiego fu conseguito mediante la produzione di documenti falsi o viziati da invalidità non sanabile.

La decadenza di cui alle lettere c) e d) è disposta sentito il consiglio di amministrazione.

Va poi detto a completamento di quanto sopra che Va infine detto che a norma dell’ art. 128, comma 2 del D.P.R. n. 3/1957, l’impiegato decaduto ai sensi della lettera d) dell’art. 127, comma 1 dello stesso D.P.R. (quando cioè l’impiego fu conseguito mediante la produzione di documenti falsi o viziati da invalidità non sanabile) non può concorrere ad altro impiego nella Amministrazione dello Stato.

In realtà, molti bandi di concorso parlano tout court di decadenza ed in tali casi la conseguenza per il decaduto potrebbe essere sempre l’esclusione, a meno che non impugni il bando.

Sul punto è intervenuto la Corte Costituzionale con la sentenza del 27 luglio 2007 n.329 proprio nel caso specifico di un concorso per l’assunzione nella scuola, dove la concorrente era in precedenza stata dichiarata decaduta dall’impiego per aver reso false dichiarazioni sul proprio stato di salute, la Corte ha ritenuto che, in forza dell’articolo 3 della Costituzione e della razionalità che deve governare il principio di eguaglianza, deve escludersi l’automatismo che determina l’esclusione dal concorso,

Ne discende afferma la Consulta,  la necessità che l’amministrazione valuti il provvedimento di decadenza emesso ai sensi dell’art. 127, primo comma, lettera d), dello stesso decreto, per ponderare la proporzione tra la gravità del comportamento presupposto e il divieto di concorrere ad altro impiego; potere di valutazione analogo a quello riconosciuto da questa Corte ai fini dell’ammissione al concorso, con riferimento alla riabilitazione ottenuta dal candidato (sentenza n. 408 del 1993).

La discrezionalità che l’amministrazione pubblica eserciterà in tal modo sarà limitata dall’obbligo di tenere conto dei presupposti e della motivazione del provvedimento di decadenza, ai fini della decisione circa l’ammissione a concorrere ad altro impiego nell’amministrazione.

A maggior ragione deve ritenersi priva di alcuna ragione ed in palese violazione del diritto al lavoro l’esclusione di chi dopo un periodo di aspettativa decida di optare per il nuovo impiego e non sta in grado di rispettare il termine per lasciare il precedente impiego imposto dalla legislazione scolastica.

In casi del genere, il potenziale escluso, dovrà impugnare il bando che contempli una simile clausola di decadenza o comunque una clausola di decadenza generica che non specifichi l’ipotesi di cui all’articolo 128 punto 3 del DPR 3/1957.

Ancora più opportuna e consona all’evoluzione del rapporto di lavoro, una soluzione data dalla contrattazione collettiva che rispetti le esigenza della scuola e quelle della legittima ricerca di un nuovo posto di lavoro.

Fabio Petracci.