Corte Costituzionale
Sentenza n. 218 del 3/10/2019
Pubblico impiego – previdenza complementare – fondi pensione – regime
agevolato – deve essere riconosciuto anche ai dipendenti pubblici
La Corte, con la presente sentenza, afferma che
anche ai dipendenti pubblici deve essere riconosciuto il regime agevolato
entrato in vigore nel 2007 per i soli dipendenti privati e pertanto dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’art. 23 comma 6 del decreto legislativo n.
252/2005 (Disciplina delle forme pensionistiche complementari) nella parte in
cui prevede che il riscatto della posizione individuale sia assoggettato ad
imposta ai sensi dell’art. 52 comma 1 lettera d-ter, del d.P.R. n. 971/1986
(Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi), anziché ai sensi
dell’art. 14, commi 4 e 5, dello stesso d.lgs. n. 252 del 2005. Si riporta di
seguito il comunicato del 3 ottobre 2019 dell’ufficio stampa della Corte: “Previdenza complementare: ai dipendenti
pubblici le stesse agevolazioni fiscali previste per i privati. È illegittimo
il diverso trattamento tributario – tra dipendenti pubblici e privati –
previsto per il riscatto di una posizione individuale maturata tra il 2007 e il
2017 nei fondi pensione negoziali. La previsione penalizza i dipendenti
pubblici rispetto a quelli privati sebbene le due fattispecie siano
sostanzialmente omogenee. Si tratta quindi di una discriminazione che viola il
principio dell’eguaglianza tributaria. È quanto ha stabilito la Corte
costituzionale con la sentenza n. 218 depositata oggi (relatore Luca Antonini),
affermando che anche ai dipendenti pubblici deve essere riconosciuto il regime
agevolato entrato in vigore nel 2007 per i soli dipendenti privati. La questione
era stata sollevata dalla Commissione tributaria provinciale di Vicenza, alla
quale si era rivolta un’insegnante per ottenere il rimborso – negatole
dall’Agenzia delle entrate sulla base della disposizione censurata – delle
maggiori imposte pagate sull’importo riscattato dal Fondo pensione Espero. Su
questo reddito ora si dovrà applicare la più favorevole imposta sostitutiva
introdotta dal 2007 anziché l’aliquota determinata sommando l’importo stesso al
reddito complessivo dell’anno. La Corte ha fatto leva sull’omogeneità del
meccanismo di finanziamento della previdenza complementare sia nei fondi
pensione negoziali dei dipendenti privati sia in quelli dei dipendenti
pubblici, per concludere che la duplicità del trattamento tributario del
riscatto della posizione maturata non può essere giustificata né dalla diversa
natura del rapporto di lavoro né dal fatto che l’accantonamento del TFR dei
dipendenti pubblici è virtuale, in costanza di rapporto di lavoro. Ha quindi
esteso anche ai dipendenti pubblici l’agevolazione già prevista per quelli
privati con lo scopo di favorire lo sviluppo della previdenza complementare.”
(tratto da Bollettino ARAN).
Di seguito la sentenza:
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai
signori:
Presidente:
Giorgio LATTANZI;
Giudici:
Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO,
Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO,
Augusto Antonio BARBERA, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,
ha
pronunciato la seguente
Svolgimento
del processo
SENTENZA
nel giudizio
di legittimità costituzionale dell’art. 23, comma 6,
del D.Lgs. 5
dicembre 2005, n. 252 (Disciplina delle forme pensionistiche
complementari), in relazione all’art. 52, comma 1, lettera d-ter), del D.P.R. 22
dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle
imposte sui redditi), promosso dalla Commissione tributaria provinciale di
Vicenza nel procedimento vertente tra Paola Rizzo e l’Agenzia delle entrate –
Direzione provinciale di Vicenza, con ordinanza dell’11 ottobre 2017, iscritta
al n. 1 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell’anno 2019.
Visti l’atto
di costituzione di Paola Rizzo, nonché l’atto di intervento del Presidente del
Consiglio dei ministri;
udito
nell’udienza pubblica del 18 giugno 2019 il Giudice relatore Luca Antonini;
uditi
l’avvocato Flavio De Benedictis per Paola Rizzo e l’avvocato dello Stato
Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.
1.- Con
ordinanza dell’11 ottobre 2017 (r. o. n. 1 del 2019), la Commissione tributaria
provinciale di Vicenza ha sollevato questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 23, comma 6,
del D.Lgs. 5
dicembre 2005, n. 252 (Disciplina delle forme pensionistiche
complementari), in relazione all’art. 52, comma 1, lettera d-ter), del D.P.R. 22
dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle
imposte sui redditi), in riferimento agli artt. 3 e 53
della Costituzione.
La
controversia pendente davanti al giudice rimettente riguarda il rifiuto tacito
opposto dall’Agenzia delle entrate all’istanza di rimborso dell’imposta sui
redditi delle persone fisiche (IRPEF) e delle addizionali comunale e regionale
per l’anno 2014 presentata dalla ricorrente; questa ritiene di avere versato
un’imposta maggiore del dovuto poiché al reddito complessivo prodotto è stato
sommato l’ammontare dell’imponibile erogatole dal Fondo nazionale pensione
complementare per i lavoratori della scuola (Fondo scuola “Espero”),
tassato sulla base di disposizioni asseritamente illegittime. A tale fondo la
stessa è stata iscritta dal 16 dicembre 2009 al 30 giugno 2014, maturando una
posizione individuale imponibile di Euro 8.108,70; esercitato il riscatto
volontario, il fondo ha applicato sulla somma liquidatale una ritenuta alla
fonte di Euro 1.865,01 a titolo di tassazione ordinaria, per effetto del combinato
disposto degli artt. 23, comma 6,
del D.Lgs. n. 252
del 2005 e 52, comma 2, lettera d-ter), t.u. imposte redditi.
2.- Quanto
alla non manifesta infondatezza, l’ordinanza ricorda che il fondo al quale la
ricorrente aveva aderito, costituito a seguito della riforma pensionistica
contenuta nella L. 8 agosto
1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e
complementare), è destinato ai lavoratori del comparto scuola, sia con
contratto a tempo indeterminato che determinato, che vi aderiscono
volontariamente.
Prosegue il
giudice rilevando che la riforma introdotta dalla L. 23 agosto
2004, n. 243 (Norme in materia pensionistica e deleghe al
Governo nel settore della previdenza pubblica, per il sostegno alla previdenza
complementare e all’occupazione stabile e per il riordino degli enti di
previdenza ed assistenza obbligatoria), avente tra l’altro ad oggetto
l’adozione di norme intese a “sostenere e favorire lo sviluppo di forme
pensionistiche complementari” (art. 1, comma 1), non avrebbe trovato
immediata applicazione nei confronti del pubblico impiego. Infatti, non è stato
emanato l’apposito decreto di armonizzazione necessario per l’attuazione degli
specifici principi e criteri direttivi indicati all’art. 1, comma 2, lettera
p), della legge citata: “applicare i princìpi e i criteri direttivi di cui
al comma 1 e al presente comma e le disposizioni relative agli incentivi al
posticipo del pensionamento di cui ai commi da 12 a 17, con le necessarie
armonizzazioni, al rapporto di lavoro con le amministrazioni di cui
all’articolo 1, comma 2,
del D.Lgs. 30
marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, previo confronto con
le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative dei datori e
dei prestatori di lavoro, le regioni, gli enti locali e le autonomie
funzionali, tenendo conto delle specificità dei singoli settori e
dell’interesse pubblico connesso all’organizzazione del lavoro e all’esigenza
di efficienza dell’apparato amministrativo pubblico”.
Il D.Lgs. n. 252
del 2005, recante disposizioni attuative della predetta legge
delega, prevedeva, infatti, all’art. 21, comma 8, che “fatto salvo quanto
previsto dall’art. 23, comma 5, è abrogato il D.Lgs. 21
aprile 1993, n. 124“, recante “Disciplina delle forme
pensionistiche complementari, a norma dell’articolo 3, comma 1,
lettera v), della L. 23 ottobre
1992, n. 421“, e all’art. 23, comma 6, che “fino
all’emanazione del decreto legislativo di attuazione dell’articolo 1, comma 2,
lettera p), della L. 23 agosto
2004, n. 243, ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui
all’articolo 1, comma 2,
del D.Lgs. 30
marzo 2001, n. 165, si applica esclusivamente ed integralmente la
previgente normativa”.
Ad avviso
del giudice a quo, il combinato disposto di tali previsioni escluderebbe
“l’applicazione, al rapporto di lavoro pubblico, del regime fiscale più
favorevole introdotto dallo stesso decreto legislativo, creando due regimi
impositivi e una disparità di trattamento costituzionalmente rilevante”.
Infatti, il cosiddetto riscatto volontario di una posizione individuale
accumulata dopo il 1 gennaio 2007 (data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 252
del 2005), “se erogato a favore di dipendenti del settore
privato iscritti a una forma pensionistica di natura negoziale di cui sono
destinatari, beneficia della favorevole imposizione sostitutiva di cui
all’art. 14 del D.Lgs. n. 252
del 2005, mentre il medesimo riscatto erogato a favore di dipendenti
pubblici subisce una differente e penalizzante imposizione ordinaria che si
configurerebbe nella maggiorazione dell’onere tributario, derivante
dall’applicazione dell’art. 52, comma 1, lett. d-ter) del TUIR“.
Pertanto, il
rimettente ritiene che il D.Lgs. n. 252
del 2005 risulterebbe “carente di una disciplina generale
di armonizzazione con il settore pubblico”, per effetto delle sopra
richiamate disposizioni di cui agli artt. 21, comma 8, e 23, comma 6 della
stessa fonte normativa.
Il combinato
disposto di queste ultime “escluderebbe, irragionevolmente, al rapporto di
lavoro pubblico contrattualizzato, il regime fiscale più favorevole introdotto
dallo stesso decreto legislativo, creando due sistemi impositivi”. La
conseguente disparità di trattamento appare al rimettente irragionevole, e
quindi in violazione dell’art. 3
Cost., essendo lesiva del principio di uguaglianza tra lavoratori
del settore pubblico e di quello privato, nonché dell’art. 53
Cost., “in quanto una medesima fonte di capacità contributiva
verrebbe sottoposta a due diverse imposizioni fiscali”.
L’ordinanza
ritiene le questioni rilevanti in quanto la risoluzione della controversia in
senso sfavorevole o favorevole al contribuente dipenderebbe dall’applicazione
della norma della cui costituzionalità si dubita.
3.- Con atto
depositato il 19 febbraio 2019 è intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato,
chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o comunque
manifestamente infondate.
Vengono, in
premessa, richiamate le principali fonti normative in materia di previdenza
complementare segnalando, da ultimo, l’art. 1, comma 156,
della L. 27
dicembre 2017, n. 205 (Bilancio di previsione dello Stato per
l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020): tale
disposizione, a decorrere dal 1 gennaio 2018, ha esteso ai dipendenti delle
pubbliche amministrazioni le disposizioni concernenti la deducibilità dei premi
e dei contributi versati ai fini della previdenza complementare e il regime di
tassazione delle prestazioni previsti dal D.Lgs. n. 252
del 2005, precisando che, per i dipendenti pubblici iscritti alla
data di entrata in vigore della legge a forme previdenziali complementari,
“relativamente ai montanti delle prestazioni accumulate fino a tale data,
continuano ad applicarsi le disposizioni previgenti”.
3.1.-
L’Avvocatura generale eccepisce la inammissibilità delle questioni, “per
non avere investito la normativa rilevante, con particolare riferimento
all’art. 1 della legge delega
n. 243/2004, in forza della quale è stato emanato il D.Lgs. n. 252
del 2005“. Richiamando il principio direttivo contenuto nella
lettera p) del comma 2 di tale articolo, ritiene evidente che l’art. 23, comma 6,
del D.Lgs. n. 252
del 2005, sospettato di incostituzionalità, trovi in esso il suo
fondamento.
Un ulteriore
profilo di inammissibilità deriverebbe dal fatto che l’ordinanza ha richiesto
la dichiarazione di illegittimità dell’art. 23, comma 6,
del D.Lgs. n. 252
del 2005 senza richiamare, “neppure in estrema
sintesi”, la disciplina, contenuta nel citato decreto legislativo, in tema
di trattamento fiscale delle prestazioni di previdenza complementare erogate ai
lavoratori privati diverse dal riscatto volontario, di cui l’accoglimento del
petitum formulato “comporterebbe l’estensione ai lavoratori del comparto
pubblico”.
3.2.- A
sostegno della manifesta infondatezza della questione, l’Avvocatura premette
che le prestazioni di previdenza complementare costituiscono reddito da lavoro
dipendente o da pensione e che, sia il D.Lgs. n. 124
del 1993, sia il D.Lgs. 18
febbraio 2000, n. 47 (Riforma della disciplina fiscale della
previdenza complementare, a norma dell’articolo 3 della L. 13 maggio
1999, n. 133), avevano delineato “un trattamento fiscale delle
anzidette prestazioni omogeneo per i lavoratori privati e pubblici analogo a
quello dettato dal TUIR per
tali redditi”.
Secondo la
ricostruzione dell’Avvocatura il regime applicabile alla quota parte delle
prestazioni riferibili ai contributi e al trattamento di fine rapporto (TFR)
versati fino al 31 dicembre 2006, sia per i lavoratori pubblici che per quelli privati,
prevedeva: a) la tassazione progressiva, per le prestazioni in forma periodica;
b) la tassazione separata, per le prestazioni in forma di capitale e per le
anticipazioni; c) la tassazione separata, per riscatti conseguenti a
pensionamento, cessazione del rapporto di lavoro per mobilità e per altre cause
non dipendenti dalla volontà delle parti; d) la tassazione progressiva, per i
riscatti volontari.
Rispetto a
tale regime tipico, la nuova disciplina dettata dal D.Lgs. n. 252
del 2005 avrebbe un connotato evidentemente agevolativo, come
risulterebbe dal contenuto dell’art. 11. Per quanto attiene ai riscatti, si
applicherebbe la medesima tassazione prevista per le prestazioni erogate sotto
forma di capitale, nei casi di riscatti esercitati ai sensi dell’art. 14, commi 2 e
3, del D.Lgs. n. 252
del 2005, mentre le ipotesi di riscatto per cause diverse sarebbero
assoggettate a ritenuta a titolo d’imposta del 23 per cento.
Ciò
ricordato, ad avviso dell’interveniente le censure sollevate dal giudice a quo
sarebbero manifestamente infondate “in considerazione della natura
agevolativa delle disposizioni dettate dal D.Lgs. n. 252
del 2005” e del principio affermato dalla Corte (è richiamata
la sentenza n. 21 del 2005), secondo cui “la previsione di aliquote
differenziate per settori produttivi e per tipologie di soggetti passivi rientra
pienamente nella discrezionalità del legislatore, se sorretta da non
irragionevoli motivi di politica economica e ridistributiva”. L’Avvocatura
ritiene che la stabilità del rapporto pubblico e la circostanza che i
dipendenti pubblici percepissero e continuino a percepire trattamenti
pensionistici obbligatori di importo pari “circa al doppio di quelli
percepiti dai dipendenti privati”, costituirebbero “ragioni
sufficienti a giustificare una disciplina differenziata del trattamento fiscale
delle prestazioni erogate dalle forme di previdenza complementare”.
Argomentando
sotto un ulteriore profilo di infondatezza, l’Avvocatura generale considera che
la previdenza integrativa sarebbe stata costituita prendendo a modello il
settore dipendente privato e attribuendo un ruolo fondamentale al trattamento
di fine rapporto. Peraltro, ciò avrebbe fin dall’inizio comportato difficoltà
di applicazione nel settore pubblico, nel quale mancava il TFR, e non potendo
quindi il bilancio pubblico facilmente “trasferirlo ai fondi pensione nel
caso di una trasformazione dei trattamenti di fine servizio (TFS) in TFR”.
La difesa
dello Stato prosegue riepilogando le fasi che hanno segnato l’estensione ai
dipendenti pubblici del TFR, inizialmente disposta dalla L. n. 335 del
1995, e delineando le modalità di determinazione della misura dei
contributi a carico del lavoratore e del datore di lavoro, nonché le modalità
di accantonamento del TFR dei dipendenti pubblici.
Tali
peculiari vicende e, in particolare, la “diversa disciplina ed entità del
TFS e la differente modalità di accantonamento del TFR” costituirebbero,
ad avviso dell’Avvocatura, ulteriori ragioni che varrebbero “a rendere non
irragionevole la scelta del legislatore di differenziare il trattamento fiscale
delle prestazioni di previdenza complementare erogate dai fondi pensione ai
lavoratori pubblici e privati”.
4.- Con atto
depositato il 15 febbraio 2019, si è costituita Paola Rizzo, come rappresentata
e difesa, in qualità di parte del giudizio a quo.
Dopo avere
richiamato il regime di tassazione applicabile per il periodo dal 1 gennaio
2001 al 31 dicembre 2006, e avere menzionato la disposizione di cui
all’art. 23, comma 6,
del D.Lgs. n. 252
del 2005, la parte dà atto del nuovo regime di tassazione delle
prestazioni a favore dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche introdotto
dall’art. 1, comma 156,
della L. n. 205 del
2017.
4.1.- Anche
a seguito dell’entrata in vigore di tale disposizione, tuttavia, non potrebbe
“considerarsi cessata la materia del contendere del presente
procedimento”: ad avviso della parte lo ius superveniens “non avrebbe
avuto carattere satisfattivo dei rilievi sollevati dal giudice a quo” e,
inoltre, vi sarebbe stata “applicazione medio tempore della disposizione
originariamente censurata”. Considerando che quest’ultima avrebbe
“già conosciuto effettiva applicazione al momento in cui è entrata in
vigore la disciplina sopravvenuta”, si prospetta l’estensione del
“giudizio incidentale di legittimità costituzionale” al comma 156
dell’art. 1 della L. n. 205 del
2017; nonostante lo ius superveniens, i lavoratori dipendenti delle
amministrazioni pubbliche continuerebbero a subire una illegittima
discriminazione, risultante dai diversi regimi, di cui si esplicitano i
contenuti.
4.2.- Il
regime impositivo previgente al D.Lgs. n. 252
del 2005, applicabile alle prestazioni erogate a dipendenti di
pubbliche amministrazioni per la quota riferibile al montante accumulato dal 1
gennaio 2007 al 31 dicembre 2017, risulterebbe in contrasto con i parametri
evocati dal rimettente. A sostegno di tale tesi si richiamano le affermazioni
contenute nella sentenza n. 10 del 2015 sul principio della capacità
contributiva, da interpretare come specificazione settoriale del più ampio
principio di uguaglianza di cui all’art. 3
Cost., e nella sentenza n. 83 del 2015, sul limite della manifesta
irragionevolezza applicabile anche in materia tributaria al principio della
discrezionalità e dell’insindacabilità delle opzioni legislative.
La scelta
legislativa di tassare in modo totalmente differente e penalizzante una
prestazione di previdenza complementare percepita da un aderente a una forma
pensionistica collettiva per la sola circostanza che il proprio datore di
lavoro sia una pubblica amministrazione (e non un soggetto di diritto privato)
sarebbe quindi manifestamente irragionevole e discriminatoria in forza dei
parametri costituzionali evocati.
Da ultimo,
si sostiene che il vizio di irragionevolezza sopra evidenziato porrebbe una
questione di illegittimità costituzionale “anche con riferimento al
principio di non discriminazione di cui all’art. 117,
primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 21 della
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea … e in relazione all’art.
14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali”.
5.- In
prossimità dell’udienza è pervenuta una memoria della parte privata, che
replica all’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri.
A
confutazione della eccezione di inammissibilità per non essere stata censurata
la legge di delegazione, si osserva che la situazione di irragionevolezza
denunciata nel giudizio conseguirebbe dalla mancata attuazione del criterio di
legge delega di cui alla lettera p) del comma 2 dell’art. 1 della L. n. 243 del
2004 e non dalla stessa disposizione di legge, che prevedeva
l’applicazione al rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni degli
stessi principi e criteri direttivi fissati per il settore privato. Pertanto,
il giudice rimettente non avrebbe dovuto censurare anche tale ultima
disposizione normativa.
Ugualmente
infondata sarebbe l’altra eccezione prospettata, atteso che l’ordinanza
esplicitamente ed esaustivamente richiamerebbe il regime impositivo di cui
al D.Lgs. n. 252
del 2005, citandone l’art. 14.
Quanto agli
argomenti di merito utilizzati dalla difesa dello Stato, la memoria ritiene che
si basino su presupposti errati e siano comunque infondati. Precisa che la
ricorrente aveva prestato la sua attività in forza di un contratto di lavoro a
tempo determinato con scadenza al 30 giugno 2014, sì che nessuna stabilità del
rapporto stesso potrebbe essere invocata. Inoltre, fa presente che i dipendenti
pubblici non beneficiano di trattamenti pensionistici obbligatori calcolati in
modo differente rispetto ai lavoratori del settore privato, essendo il relativo
importo direttamente correlato a quello dei contributi versati all’ente
previdenziale di gestione del sistema pensionistico pubblico.
In ogni
caso, la diversa natura del datore di lavoro non potrebbe assurgere a indice
della capacità contributiva tale da giustificare un prelievo fiscale totalmente
differente su medesimi presupposti d’imposta.
Inoltre, si
ritiene inconferente con la questione di costituzionalità “la legislazione
sulla indennità di fine servizio spettante a determinate tipologie di
lavoratori del settore pubblico”. Infine, la preclusione per i lavoratori
pubblici di poter materialmente ed effettivamente conferire le quote maturande
del TFR alla propria forma pensionistica complementare, rappresenterebbe
tuttalpiù un’ulteriore discriminazione a danno degli stessi e non certo una
valida ragione per giustificare il differente e penalizzante prelievo
tributario sulle prestazioni di previdenza complementare.
Motivi della decisione
1.- Con
ordinanza dell’11 ottobre 2017 (r. o. n. 1 del 2019), la Commissione tributaria
provinciale di Vicenza ha sollevato questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 23, comma 6,
del D.Lgs. 5
dicembre 2005, n. 252 (Disciplina delle forme pensionistiche
complementari), in relazione all’art. 52, comma 1, lettera d-ter), del D.P.R. 22
dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle
imposte sui redditi), secondo i quali sulle somme percepite dai dipendenti
delle pubbliche amministrazioni a titolo di riscatto della posizione
individuale maturata presso una forma di previdenza complementare collettiva si
applica il regime fiscale previgente al D.Lgs. n. 252
del 2005, invece del regime fiscale più favorevole introdotto da
detto D.Lgs. n. 252
del 2005 per la stessa prestazione erogata dalle forme
pensionistiche complementari collettive ai dipendenti privati. Il rimettente
ritiene che nel D.Lgs. n. 252
del 2005 la carenza di una disciplina generale di
armonizzazione con il settore pubblico conduca a escludere l’applicazione del
regime fiscale più favorevole, introdotto dallo stesso decreto legislativo per
il rapporto di lavoro privato, al rapporto di lavoro pubblico
contrattualizzato: la duplicità dei sistemi impositivi e la disparità di
trattamento conseguenti sarebbero, perciò, in contrasto con gli artt. 3 e 53
della Costituzione.
Nel giudizio
a quo si impugna il rifiuto tacito formatosi sulla richiesta, avanzata dalla
ricorrente, di rimborso della maggiore imposta sui redditi delle persone
fisiche (IRPEF) e delle maggiori addizionali regionale e comunale versate sulle
somme percepite da un fondo pensione complementare (Fondo scuola
“Espero”) a seguito dell’esercizio, da parte di un dipendente
pubblico, della facoltà di riscatto cosiddetto volontario. L’Agenzia delle entrate
ritiene corretta l’applicazione della tassazione ordinaria, secondo l’aliquota
progressiva applicabile al reddito complessivo, ai sensi dell’art. 52, comma 1,
lettera d-ter), t.u. imposte redditi, mentre la ricorrente sostiene la
incostituzionalità di tale norma e la necessità di applicare il più favorevole
trattamento previsto per i dipendenti privati dall’art. 14 del D.Lgs. n. 252
del 2005.
2.- Deve
preliminarmente rilevarsi che non incide nel presente giudizio lo ius
superveniens dell’art. 1, comma 156,
della L. 27
dicembre 2017, n. 205 (Bilancio di previsione dello Stato per
l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020). Tale
disposizione ha previsto che “a decorrere dal 1 gennaio 2018, ai
dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2,
del D.Lgs. 30
marzo 2001, n. 165, si applicano le disposizioni concernenti la
deducibilità dei premi e contributi versati e il regime di tassazione delle
prestazioni di cui al D.Lgs. 5
dicembre 2005, n. 252. Per i dipendenti delle amministrazioni
pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2,
del D.Lgs. 30
marzo 2001, n. 165, che, alla data di entrata in vigore della
presente legge, risultano iscritti a forme pensionistiche complementari, le
disposizioni concernenti la deducibilità dei contributi versati e il regime di
tassazione delle prestazioni di cui al D.Lgs. 5
dicembre 2005, n. 252, sono applicabili a decorrere dal 1 gennaio
2018. Per i medesimi soggetti, relativamente ai montanti delle prestazioni
accumulate fino a tale data, continuano ad applicarsi le disposizioni
previgenti”.
La norma
citata, successiva all’ordinanza di rimessione, non ha effetti retroattivi e
non è quindi applicabile al giudizio a quo, il quale ha ad oggetto un rapporto
di previdenza complementare cessato nel 2014.
3.- Va, in
primo luogo, rilevata la inammissibilità delle deduzioni svolte dalla parte
costituita, ricorrente nel giudizio a quo, volte ad estendere il thema
decidendum – quale definito nell’ordinanza di rimessione – “anche con
riferimento al principio di non discriminazione di cui all’art. 117,
primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 21 della
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea proclamata a Nizza il 7
dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, e in relazione
all’art. 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata dall’Italia
con L. 4 agosto
1955, n. 848“.
Si tratta di
profili di illegittimità che il giudice a quo non ha fatto propri: per costante
giurisprudenza di questa Corte “l’oggetto del giudizio di legittimità
costituzionale in via incidentale è limitato alle disposizioni e ai parametri
indicati nell’ordinanza di rimessione, sicché non possono essere presi in
considerazione ulteriori questioni o profili di costituzionalità dedotti dalle
parti, sia eccepiti, ma non fatti propri dal giudice a quo, sia volti ad
ampliare o modificare successivamente il contenuto della stessa ordinanza (ex
plurimis, sentenza n. 194 del 2018)” (sentenza n. 7 del 2019).
4.-
L’Avvocatura generale ha formulato due eccezioni di inammissibilità delle
questioni.
4.1.- Con la
prima, ha sostenuto che il giudice rimettente avrebbe dovuto censurare
l’art. 1, comma 2,
lettera p), della L. n. 243 del
2004, poiché il principio di delega da questo espresso costituirebbe
il fondamento dell’art. 23, comma 6,
del D.Lgs. n. 252
del 2005, disposizione sospettata di incostituzionalità.
4.1.1.-
L’eccezione non è fondata.
La citata
norma della legge di delega ha indirizzato il legislatore delegato ad applicare
gli stessi princìpi e criteri direttivi di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 1 anche
al rapporto di lavoro con le amministrazioni pubbliche, pur subordinando tale
applicazione alle “necessarie armonizzazioni”. Pertanto, il contenuto
del criterio direttivo sopra richiamato non consente di affermare che il
legislatore delegante intendesse direttamente ottenere, all’esito
dell’attuazione della delega, una differenziazione della disciplina tributaria
applicabile alle prestazioni di previdenza complementare in ragione della
natura del rapporto di lavoro dell’aderente, tanto più che i principi e criteri
relativi al regime tributario della previdenza complementare presentavano un
contenuto generale e, peraltro, piuttosto circoscritto.
Risulta
quindi priva di validità l’affermazione secondo cui la disposizione censurata
troverebbe diretto fondamento nel menzionato criterio direttivo e non sussiste,
pertanto, la eccepita inesatta indicazione della norma oggetto di censura che
determinerebbe la inammissibilità della questione.
Correttamente
il giudice a quo non ha esteso le questioni sollevate alla disposizione della
legge delega poiché, come osservato nella memoria della parte privata, la
situazione di irragionevolezza che egli lamenta non è conseguenza di tale
previsione, quanto piuttosto dell’inattuazione, sullo specifico punto, della
stessa disposizione.
4.2.- Con la
seconda eccezione l’Avvocatura ha rilevato che l’ordinanza, pur chiedendo la
dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 23, comma 6,
del D.Lgs. n. 252
del 2005, non avrebbe richiamato, neppure in estrema sintesi,
l’intera disciplina dettata dal decreto stesso in tema di trattamento fiscale
delle prestazioni di previdenza complementare erogate ai lavoratori privati,
essendosi invece limitata a citare solo quella concernente la prestazione
oggetto del giudizio (il cosiddetto riscatto volontario).
4.2.1.-
Anche tale eccezione non è fondata.
Se è vero
che l’ordinanza di rimessione, nel dispositivo, riferisce genericamente le
questioni all’art. 23, comma 6,
del D.Lgs. n. 252
del 2005, in forza del quale ai dipendenti pubblici resta
applicabile la intera disciplina previgente, tuttavia nel suo contenuto
motivazionale circoscrive precipuamente il dubbio di costituzionalità al
combinato disposto del citato art. 23, comma 6, e dell’art. 52, comma 2,
lettera d-ter), t.u. imposte redditi. Quest’ultima lettera attiene
specificamente al trattamento fiscale delle “prestazioni pensionistiche di
cui alla lettera h-bis) del comma 1, dell’articolo 50, erogate in forma
capitale a seguito di riscatto della posizione individuale ai sensi
dell’articolo 10, comma 1,
lettera c), del D.Lgs. 21
aprile 1993, n. 124, diverso da quello esercitato a seguito di
pensionamento o di cessazione del rapporto di lavoro per mobilità o per altre
cause non dipendenti dalla volontà delle parti”.
Dall’insieme
delle due disposizioni si ricava la norma che il rimettente dovrebbe applicare
e sulla quale appunta le censure; così precisato l’oggetto delle questioni e
del petitum, ne discende l’infondatezza della eccezione in esame: l’ordinanza
richiama puntualmente la disciplina del trattamento tributario del riscatto
contenuta nell’art. 14 del D.Lgs. n. 252
del 2005, di cui lamenta la irragionevole non applicazione ai
dipendenti pubblici, e non doveva pertanto illustrare anche il regime
tributario delle altre prestazioni erogate dai fondi di previdenza
complementare, estranee all’oggetto del giudizio a quo.
5.- Le
questioni sono fondate in relazione all’art. 3
Cost.
Il
richiamato regime sostitutivo tributario del riscatto, previsto dal D.Lgs. n. 252
del 2005, ma solo per i dipendenti del settore privato, si inquadra
nell’ambito di agevolazioni tributarie non strutturali, dirette, in questo
caso, a incentivare lo sviluppo della previdenza complementare; non si
configura quindi come una qualunque spesa fiscale, ma assume una specifica
giustificazione costituzionale in virtù della sua connessione con l’attuazione
del sistema dell’art. 38,
secondo comma, Cost., derivante dal “collegamento funzionale
tra previdenza obbligatoria e previdenza complementare” (sentenza n. 393
del 2000; nello stesso senso, ordinanza n. 319 del 2001).
Questa Corte
si è trovata più volte a vagliare la legittimità costituzionale di disposizioni
che, in nome del bilanciamento con altri principi costituzionali, prevedono, a
fronte di una riconosciuta capacità contributiva (sentenza n. 159 del 1985),
agevolazioni tributarie e, in questo contesto, ha affermato, in via generale,
che “norme di tale tipo, aventi carattere eccezionale e derogatorio,
costituiscono esercizio di un potere discrezionale del legislatore, censurabile
solo per la sua eventuale palese arbitrarietà o irrazionalità (sentenza n. 292
del 1987; ordinanza n. 174 del 2001); con la conseguenza che la Corte stessa
non può estenderne l’ambito di applicazione, se non quando lo esiga la ratio
dei benefici medesimi (sentenze n. 6 del 2014, n. 275 del 2005, n. 27 del 2001,
n. 431 del 1997 e n. 86 del 1985; ordinanze n. 103 del 2012, n. 203 del 2011,
n. 144 del 2009 e n. 10 del 1999)” (da ultimo, sentenza n. 264; nello
stesso senso, sentenza n. 242 del 2017).
Nella
fattispecie in esame, tuttavia, è palese che la ratio del beneficio
riconosciuto a favore dei dipendenti privati – quella di favorire lo sviluppo
della previdenza complementare, dando attuazione al sistema dell’art. 38,
secondo comma, Cost. – è identicamente ravvisabile anche nei
confronti di quelli pubblici.
5.1.- Tanto
dimostra la ricostruzione dell’evoluzione normativa.
Le forme di
previdenza per l’erogazione di trattamenti pensionistici complementari del
sistema obbligatorio, infatti, sono finalizzate ad assicurare più elevati
livelli di copertura previdenziale, come enunciano sia l’art. 1 del D.Lgs. 21
aprile 1993, n. 124 (Disciplina delle forme pensionistiche
complementari, a norma dell’articolo 3, comma 1,
lettera v, della L. 23 ottobre
1992, n. 421) – decreto con cui il legislatore ha per la prima volta
disciplinato in maniera organica la previdenza complementare nel nostro
ordinamento -, sia l’art. 1 del D.Lgs. n. 252
del 2005, che oggi regola la medesima materia.
Tra i
destinatari delle forme pensionistiche complementari vi sono in primo luogo i
lavoratori dipendenti, sia privati, sia pubblici (art. 2, comma 1,
lettera a, del D.Lgs. n. 252
del 2005); le modalità di partecipazione sono stabilite dalle fonti
istitutive delle forme pensionistiche medesime, individuate principalmente nei
contratti collettivi (art. 3, commi 1, lettera a, e 2, del decreto citato).
Per quanto
attiene al finanziamento delle forme pensionistiche, e con specifico riferimento
a quelle istituite dalla contrattazione collettiva dei lavoratori dipendenti,
esso può essere attuato mediante il versamento di contributi a carico del
lavoratore e del datore di lavoro e attraverso il conferimento del trattamento
di fine rapporto maturando (art. 8, comma 1,
del D.Lgs. n. 252
del 2005). Le fonti istitutive fissano le modalità e la misura
minima della contribuzione a carico del datore di lavoro e del lavoratore e
“la percentuale minima di TFR maturando da destinare a previdenza
complementare. In assenza di tale indicazione il conferimento è totale”
(art. 8, comma 2,
del D.Lgs. n. 124
del 1993 citato). Quanto alle “forme pensionistiche
complementari di cui siano destinatari i dipendenti della pubblica
amministrazione, i contributi alle forme pensionistiche debbono essere definiti
in sede di determinazione del trattamento economico, secondo procedure coerenti
alla natura del rapporto” (art. 8, comma 3,
del D.Lgs. n. 124
del 1993 citato, che conferma quanto già previsto
dall’art. 8, comma 4,
del D.Lgs. n. 124
del 1993); ciò rappresenta un implicito richiamo all’art. 3, comma 2,
del D.Lgs. 30
marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro
alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), che riserva in via di
principio alla contrattazione collettiva la materia dell’attribuzione di
trattamenti economici.
5.2.- Il
finanziamento della previdenza complementare dei dipendenti pubblici – con la
costituzione dei primi fondi pensione negoziali per tali lavoratori – è
divenuto concretamente operativo solo a distanza di tempo dall’approvazione
del D.Lgs. n. 124
del 1993. Furono inizialmente di ostacolo l’assenza nel settore
pubblico dell’istituto del trattamento di fine rapporto (TFR) e la inidoneità
delle indennità di fine rapporto variamente denominate, proprie di tale
settore, a realizzare la funzione tipica di finanziamento delle forme
pensionistiche complementari.
Seguendo un
percorso graduale, con l’art. 2, comma 5,
della L. 8 agosto
1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e
complementare), il legislatore ha dapprima assoggettato alle disposizioni sul
TFR, contenute nell’art.
2120 del codice civile, i trattamenti di fine servizio, comunque
denominati, dei lavoratori assunti dal 1 gennaio 1996 alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche. In forza del comma 6 dello stesso L. 8 agosto 1995,
n. 335 art. 2,
alla contrattazione collettiva, nell’àmbito dei singoli comparti, è stata
demandata la definizione delle modalità di attuazione di tali previsioni,
“con riferimento ai conseguenti adeguamenti della struttura retributiva e
contributiva del personale”, anche ai fini della disciplina delle forme
pensionistiche complementari. Il successivo comma 7 ha affidato alla
contrattazione collettiva nazionale la definizione delle modalità per
l’applicazione della disciplina del trattamento di fine rapporto ai lavoratori
già occupati alla data del 31 dicembre 1995, da recepire in un decreto del
Presidente del Consiglio dei ministri, con la procedura prevista dal suddetto
comma 6.
Successivamente,
l’art. 59, comma 56,
della L. 27
dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della
finanza pubblica), al fine di favorire il processo di attuazione per i
dipendenti pubblici delle disposizioni in materia di previdenza complementare,
ha previsto “la possibilità di richiedere la trasformazione dell’indennità
di fine servizio in trattamento di fine rapporto. Per coloro che optano in tal
senso una quota della vigente aliquota contributiva relativa all’indennità di
fine servizio prevista dalle gestioni previdenziali di appartenenza, pari
all’1,5 per cento, verrà destinata a previdenza complementare nei modi e con la
gradualità da definirsi in sede di specifica trattativa con le organizzazioni
sindacali dei lavoratori”. Tale misura incentivante è stata oggetto di una
più specifica disciplina ad opera dell’art. 26, commi da
18 a 20, della L. 23
dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la
stabilizzazione e lo sviluppo).
Infine, il
29 luglio 1999 è stato stipulato un accordo quadro nazionale tra le
organizzazioni sindacali più rappresentative e l’Agenzia per la rappresentanza
negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) successivamente recepito
dal D.P.C.M. 20
dicembre 1999 (Trattamento di fine rapporto e istituzione dei
fondi pensione dei pubblici dipendenti).
Ai fini che
qui rilevano, il D.P.C.M. 20
dicembre 1999, come modificato dal successivo D.P.C.M. 2
marzo 2001 (Trattamento di fine rapporto e istituzione dei
fondi dei pubblici dipendenti), ha previsto che in fase di prima attuazione i
dipendenti esercitanti l’opzione di cui all’art. 59, comma 56,
della L. n. 449 del
1997 possano destinare ai fondi pensione una quota di TFR non
superiore al 2 per cento della retribuzione base di riferimento per il calcolo
del TFR (art. 2, comma 1). Invece, per il personale assunto successivamente al
31 dicembre 2000, soggetto alle regole concessive e di computo di cui
alla L. 29 maggio
1982, n. 297 (Disciplina del trattamento di fine rapporto e
norme in materia pensionistica), in caso di iscrizione al fondo pensione è
stata prevista “la integrale destinazione al fondo stesso degli
accantonamenti al trattamento di fine rapporto” (art. 2, comma 2).
Il D.P.C.M. 20
dicembre 1999, all’art. 1, comma 6, ha anche previsto in via
generale che il TFR debba essere accantonato figurativamente e liquidato
dall’Istituto nazionale di previdenza delle amministrazioni pubbliche (INPDAP,
oggi dall’Istituto nazionale di previdenza sociale-INPS) alla cessazione dal
servizio del lavoratore secondo quanto disposto dalla L. n. 297 del
1982. In caso di adesione del lavoratore pubblico a un fondo
pensione, l’art. 2, comma 5, ha disposto che alla cessazione del rapporto di
lavoro l’INPDAP conferisca al fondo di riferimento il montante maturato,
costituito dagli accantonamenti figurativi delle quote di TFR nonché di quelli
relativi all’aliquota dell’1,5 per cento riconosciuta a chi abbia esercitato
l’opzione sopra menzionata. A entrambi gli accantonamenti va applicato il tasso
di rendimento netto conseguito dal fondo di adesione, salva, in via
transitoria, per il periodo di consolidamento della struttura finanziaria dei
fondi pensione dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, l’applicazione
di un tasso corrispondente alla media dei rendimenti netti di un
“paniere” di fondi presenti sul mercato.
5.3.- Sulla
base della disciplina sopra ripercorsa, il finanziamento delle forme
pensionistiche complementari negoziali per i lavoratori sia privati sia
pubblici si realizza, dunque, mediante contribuzioni a carico sia del
lavoratore sia del datore di lavoro e mediante il conferimento del TFR
maturando che, insieme, formano la posizione individuale dell’aderente.
5.4.- Va
precisato che, per i dipendenti pubblici, il TFR non viene periodicamente
trasferito al fondo, ma entra nella disponibilità dello stesso al termine del
rapporto di lavoro dell’aderente, incrementato secondo il tasso di rendimento
descritto.
Tale
differenza di disciplina non influisce però sulle odierne questioni di
costituzionalità: queste, infatti, riguardano precipuamente il trattamento
tributario di una prestazione di previdenza complementare a favore dei
lavoratori pubblici, prospettato come penalizzante rispetto a quello della
stessa prestazione erogata ai lavoratori privati. In questi termini,
specificamente inerenti alla materia fiscale, non viene logicamente in
considerazione quanto questa Corte ha avuto cura di precisare ad altro
riguardo, ovvero che “il lavoro pubblico e il lavoro privato “non
possono essere in tutto e per tutto assimilati (sentenze n. 120 del 2012 e n.
146 del 2008) e che le differenze, pur attenuate, permangono anche in séguito
all’estensione della contrattazione collettiva a una vasta area del lavoro
prestato alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni” (sentenza n. 178
del 2015, punto 9.2. del Considerato in diritto)” (sentenza n. 159 del
2019).
5.5.- Per
quanto attiene specificamente all’istituto del riscatto, il D.Lgs. n. 124
del 1993 dispone all’art. 10, comma 1, che “ove vengano
meno i requisiti di partecipazione alla forma pensionistica complementare, lo
statuto del fondo pensione deve consentire le seguenti opzioni stabilendone
misure, modalità e termini di esercizio: a) il trasferimento presso altro fondo
pensione complementare, cui il lavoratore acceda in relazione alla nuova
attività; b) il trasferimento ad uno dei fondi di cui all’art. 9 ossia i fondi
pensione aperti; c) il riscatto della posizione individuale”. Il comma
3-ter prevede che, in caso di morte del lavoratore iscritto al fondo pensione
prima del pensionamento per vecchiaia, la posizione individuale dello stesso
“è riscattata dal coniuge ovvero dai figli ovvero, se già viventi a carico
dell’iscritto, dai genitori. In mancanza di tali soggetti o di diverse
disposizioni del lavoratore iscritto al fondo la posizione resta acquisita al
fondo pensione”.
Pertanto, se
non decida di aderire a un altro fondo pensione trasferendovi la posizione
individuale, esercitando il riscatto il lavoratore riceverà l’ammontare della
posizione individuale maturata nel periodo di adesione al fondo, costituita dai
contributi versati da lui stesso e dal datore di lavoro nonché dal TFR destinato
al fondo, e tenuto conto dei risultati della gestione finanziaria svolta.
5.6.- Il
trattamento tributario di tale provento, inizialmente disciplinato in modo
uniforme – come peraltro rileva la stessa difesa erariale – per i dipendenti
pubblici e privati dal testo unico delle imposte sui redditi, risponde ad
alcuni principi con cui il legislatore ha informato la materia: la deducibilità
dal reddito imponibile dei contributi destinati alla previdenza complementare,
entro un determinato importo; la esclusione del TFR trasferito alle forme di
previdenza complementare dal reddito da lavoro dipendente imponibile dell’anno
in cui è maturato; la tassazione dei rendimenti della gestione finanziaria del
fondo pensione direttamente in capo a questo, con conseguente esenzione di tale
componente reddituale dall’imponibile della prestazione erogata all’aderente.
La
disciplina tributaria originariamente prevista per il riscatto della posizione
di previdenza complementare sanciva, quindi, l’assimilazione di tale reddito a
quelli di lavoro dipendente, così come in via generale per tutte le
“prestazioni pensionistiche di cui al D.Lgs. 21
aprile 1993, n. 124, comunque erogate” (art. 50, comma 1,
lettera h-bis, t.u. imposte redditi). Lo specifico criterio di tassazione del
riscatto dipendeva dalla sua causale e le somme erogate erano considerate
imponibili al netto dei redditi già assoggettati a imposta (artt. 20, comma 1,
e 52, comma 1, lettera d-ter, t.u. imposte redditi), ossia dei contributi
destinati a previdenza complementare non in precedenza dedotti dal lavoratore e
dei rendimenti conseguiti durante la gestione (sottoposti a tassazione in capo
al fondo pensione).
6.- È solo
con il D.Lgs. n. 252
del 2005 che i regimi tributari del riscatto si differenziano.
Quest’ultimo,
infatti, modificando la disciplina della previdenza complementare, ha mantenuto
all’art. 14 la previsione generale secondo cui, ove vengano meno i requisiti di
partecipazione alle forme pensionistiche, gli statuti e i regolamenti delle
stesse devono consentire il riscatto, in alternativa al trasferimento della
posizione ad altra forma pensionistica.
Il
trattamento fiscale del riscatto, non più contenuto nel t.u. imposte redditi, è
stato disciplinato dal medesimo D.Lgs. n. 252
del 2005: artt. 14, commi 4 e 5, e 11, comma 6.
Il regime
impositivo introdotto dal D.Lgs. n. 252
del 2005 prevede che la prestazione erogata dal fondo pensione
venga tassata con una ritenuta a titolo d’imposta e, quindi, in maniera
distinta rispetto agli altri redditi del percipiente e senza concorrere a
determinarne il reddito complessivo.
Tuttavia,
tale regime, come rilevato dal giudice rimettente, non si applica a tutti gli
aderenti a forme pensionistiche complementari.
Infatti, se
per un verso l’art. 21, comma 8,
del D.Lgs. n. 252
del 2005 ha, in via generale, abrogato il D.Lgs. n. 124
del 1993, per altro verso, il censurato successivo art. 23, comma 6,
ha disposto che “fino all’emanazione del decreto legislativo di attuazione
dell’articolo 1, comma 2,
lettera p), della L. 23 agosto
2004, n. 243, ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui
all’articolo 1, comma 2,
del D.Lgs. 30
marzo 2001, n. 165, si applica esclusivamente ed integralmente la
previgente normativa”.
Con
quest’ultima disposizione il legislatore delegato – prendendo atto della ormai
sopraggiunta scadenza del termine di attuazione della delega contenuta nella
menzionata lettera p) dell’art. 1, comma 2,
della L. n. 243 del
2004 – ha quindi esplicitato che ai dipendenti pubblici dovesse
applicarsi esclusivamente e integralmente la previgente normativa.
La
individuazione della specifica disciplina applicabile avviene, quindi, in
ragione della natura del rapporto di lavoro dell’aderente a una forma di
previdenza complementare e, precisamente, a seconda che egli dipenda da
un’amministrazione pubblica o da un datore di lavoro privato.
Dal 1
gennaio 2007, data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 252
del 2005, per effetto della mancata attuazione dei principi e
criteri direttivi di cui all’art. 1, comma 2,
lettera p), della L. n. 243 del
2004, si è dunque originata una distinzione di disciplina con
riferimento a vari istituti della previdenza complementare, tra cui il riscatto
di una posizione individuale e il connesso regime tributario.
Qui non è in
questione l’esercizio incompleto della delega, che non comporterebbe di per sé
violazione degli articoli 76 e
77 Cost., ove non determinasse “uno stravolgimento della legge
di delegazione” (sentenza n. 149 del 2005 e ordinanza n. 283 del 2013). La
fattispecie in esame, infatti, è esclusivamente l’effetto riflesso della
parziale attuazione della delega, che ha condotto al risultato normativo di
discriminare due fattispecie caratterizzate da una sostanziale omogeneità, con
violazione del principio dell’eguaglianza tributaria e una conseguente
incidenza sul contesto sociale.
7.- La
ricostruzione del quadro normativo evidenzia, infatti, che non sono
individuabili elementi che giustifichino ragionevolmente una disomogeneità del
trattamento fiscale agevolativo. Tale conclusione trova, peraltro, conferma
nella stessa evoluzione legislativa che ha sempre mantenuto equiparate le due
posizioni, salva l’eccezione – concretizzatasi nella normativa del D.Lgs. n. 252
del 2005 – derivante dalla parentesi dovuta alla mancata
attuazione di una parte della legge delega
n. 243 del 2004. È inoltre significativo che lo stesso legislatore,
con l’art. 1, comma 156,
della L. n. 205 del
2017, abbia successivamente provveduto – pur con l’eccezione dei
montanti delle prestazioni accumulate fino al 1 gennaio 2018 – a ristabilire
una situazione di omogeneità di trattamento.
8.- A un
diverso esito non possono condurre le argomentazioni dell’Avvocatura generale.
8.1.- Sotto
un primo profilo, non sono conferenti il richiamo alla stabilità del rapporto
di lavoro pubblico e al maggiore importo dei trattamenti pensionistici
obbligatori percepiti dai dipendenti pubblici; e ciò in disparte l’assenza di
un’adeguata dimostrazione di questa specifica affermazione.
Né l’uno né
l’altro dei due caratteri sono, in ogni caso, in grado di offrire una valida
ragione a sostegno della ragionevolezza della duplice disciplina del
trattamento tributario del riscatto, quale prestazione pensionistica
complementare: sia che venga percepita da un dipendente privato, sia che venga
percepita da un dipendente pubblico. In entrambi i casi, infatti, la
prestazione sottoposta a tassazione è composta da contributi a carico del lavoratore,
del datore di lavoro e dal TFR maturato nel periodo di adesione al fondo.
A fronte di
tale dato, se si può affermare che la durata del rapporto di lavoro
(specialmente ove a tempo indeterminato) e le garanzie di stabilità influiscono
sul complessivo funzionamento della previdenza complementare per i lavoratori
dipendenti, basato sulla continuità dei conferimenti e sulla durata della
gestione a capitalizzazione, quegli stessi elementi sono inidonei a integrare
un valido criterio di differenziazione dei lavoratori quali soggetti passivi
del rapporto tributario. Ciò in quanto la stabilità del rapporto di lavoro non
è carattere indefettibile ed esclusivo del settore pubblico; peraltro la
disciplina tributaria rimane diversa anche quando l’aderente sia un dipendente
pubblico assunto a tempo determinato.
Quanto
all’entità del trattamento pensionistico riconosciuto dal sistema di previdenza
obbligatorio, l’argomento dell’Avvocatura sembra fare riferimento al più
favorevole criterio di determinazione della pensione secondo il sistema
retributivo; si tratta, però, di una prospettiva fallace perché i dipendenti
pubblici che possono aderire a un fondo pensione sono coloro ai quali fin
dall’inizio del loro rapporto di lavoro si applicano sia il regime di TFR, sia
il nuovo sistema di calcolo contributivo delle pensioni, introdotto dalla L. n. 335 del
1995, al pari dei dipendenti privati. Venendo in rilievo per
entrambe le categorie di lavoratori il medesimo criterio di quantificazione del
trattamento pensionistico obbligatorio, cade il presupposto su cui dovrebbe
poggiarsi la giustificazione del differente trattamento tributario delle
prestazioni di previdenza complementare in ragione della natura pubblica o
privata del rapporto di lavoro dell’aderente.
8.2.- Sotto
un secondo profilo, ad avviso dell’Avvocatura la non irragionevolezza della
scelta del legislatore delegato deriverebbe dalle vicende che hanno portato
alla progressiva estensione al settore pubblico del TFR, partendo dalla diversa
disciplina ed entità del trattamento di fine servizio (TFS), e dalla differente
modalità di accantonamento del TFR stesso.
Anche tale
approccio non coglie la specificità delle questioni sollevate: il tempo occorso
per introdurre il TFR nel settore dell’impiego pubblico ha condotto alla
disciplina contenuta nei D.P.C.M. 20
dicembre 1999 e 2 marzo 2001 che questa Corte ha ritenuto
costituire un “punto di equilibrio individuato dal legislatore e dalle
parti negoziali, secondo un bilanciamento non irragionevole” tra
lavoratori in regime di TFR e lavoratori in regime di TFS, all’esito di un
“laborioso processo di armonizzazione e della necessaria gradualità che lo
ha governato” (sentenza n. 213 del 2018). Ciò premesso, la conseguita
possibilità per i lavoratori pubblici di accedere alla previdenza
complementare, con la ulteriore significativa incentivazione a favore di quelli
che, ancora in regime di TFS, ritengano più conveniente l’opzione per il TFR,
esclude che i profili evidenziati dalla difesa dello Stato possano tuttora
assumere rilievo quali indici della legittima differenziazione del suddetto
trattamento tributario.
Con
particolare riguardo al meccanismo di accantonamento del TFR dei dipendenti
pubblici, se questo – per esigenze di contenimento delle risorse pubbliche –
implica una temporanea “sottrazione” di fonti di finanziamento che i
fondi pensione potrebbero altrimenti gestire direttamente, la sua disciplina
non influisce però sulla quantificazione della posizione individuale maturata
dall’aderente. Infatti, come illustrato (supra, punto 5.2.), ferma rimanendo la
destinazione al finanziamento della previdenza complementare impressa anche al
TFR fin dall’adesione al fondo pensione, al momento della cessazione del
rapporto di lavoro pubblico l’istituto gestore (oggi l’INPS) trasferisce al
fondo il montante del TFR maturato, applicandovi lo stesso tasso di rendimento
conseguito dal fondo nella gestione dell’altra componente della posizione
individuale, costituita dai contributi periodici.
Pertanto
l’aderente che, al venir meno dei requisiti di partecipazione al fondo,
eserciti il riscatto della posizione individuale maturata, vedrà quest’ultima
calcolata allo stesso modo, sia se dipendente pubblico, sia se dipendente
privato.
In
conclusione, la peculiare modalità di gestione del TFR pubblico, mediante un
accantonamento virtuale in costanza di rapporto di lavoro, non è idonea a
differenziare dal punto di vista funzionale la posizione individuale maturata
in un fondo pensione da un dipendente pubblico rispetto a quella maturata da un
dipendente privato e, di conseguenza, a giustificare un differente regime
tributario del riscatto della posizione medesima.
9.- Per le
esposte considerazioni, la disposizione censurata deve essere dichiarata
costituzionalmente illegittima per violazione dell’art. 3
Cost. nella parte in cui assoggetta ad imposta il riscatto
della posizione individuale ai sensi dell’art. 52, comma 1, lettera d-ter),
del D.P.R. n. 917
del 1986, anziché ai sensi dell’art. 14, commi 4 e
5, del D.Lgs. n. 252
del 2005. Risulta pertanto assorbita la censura relativa all’art. 53
Cost.
Non appare
necessario estendere, come invece richiesto dalla parte privata, la
dichiarazione di incostituzionalità anche al terzo periodo dell’art. 1, comma 156,
della L. n. 205 del
2017, con cui il legislatore ha disciplinato anche i rapporti di
previdenza complementare in corso a quella data; la tecnica normativa
utilizzata, basata su un rinvio alle “disposizioni previgenti”, è
infatti di per sé idonea, all’esito del presente giudizio, a rendere
applicabile l’art. 14, commi 4 e
5, del D.Lgs. n. 252
del 2005, anche ai montanti delle prestazioni accumulate fino al 1
gennaio 2018 e successivamente oggetto di riscatto.
P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’art. 23, comma 6,
del D.Lgs. 5
dicembre 2005, n. 252 (Disciplina delle forme pensionistiche
complementari), nella parte in cui prevede che il riscatto della posizione
individuale sia assoggettato a imposta ai sensi dell’art. 52, comma 1, lettera
d-ter), del D.P.R. 22
dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle
imposte sui redditi), anziché ai sensi dell’art. 14, commi 4 e 5, dello
stesso D.Lgs. n. 252
del 2005.
Così deciso
in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15
luglio 2019.
Depositata
in Cancelleria il 3 ottobre 2019.