Quadro della Pubblica Amministrazione segnala gli episodi di corruzione!

La legge tutela il pubblico dipendente che segnala illeciti.

La tutela si applica anche ai dipendenti delle società partecipate e delle imprese che forniscono beni e servizi alla Pubblica Amministrazione.

Il dipendente di un ente pubblico economico ovvero il dipendente di un ente di diritto privato sottoposto a controllo pubblico ai sensi dell’articolo 2359 del codice civile. La disciplina di cui al presente articolo si applica anche ai lavoratori e ai collaboratori delle imprese fornitrici di beni o servizi e che realizzano opere in favore dell’amministrazione pubblica.

Il DLGS 165/2001 all’articolo 54 bis stabilisce modi e termini della tutela.

1. Il pubblico dipendente che, nell’interesse dell’integrità della pubblica amministrazione, segnala al responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza di cui all’articolo 1, comma 7, della legge 6 novembre 2012, n. 190, ovvero all’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC), o denuncia all’autorità giudiziaria ordinaria o a quella contabile, condotte illecite di cui è venuto a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro non può essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito, o sottoposto ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro determinata dalla segnalazione. L’adozione di misure ritenute ritorsive, di cui al primo periodo, nei confronti del segnalante è comunicata in ogni caso all’ANAC dall’interessato o dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative nell’amministrazione nella quale le stesse sono state poste in essere. L’ANAC informa il Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri o gli altri organismi di garanzia o di disciplina per le attività e gli eventuali provvedimenti di competenza.

2. Ai fini del presente articolo, per dipendente pubblico si intende il dipendente delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, ivi compreso il dipendente di cui all’articolo 3, il dipendente di un ente pubblico economico ovvero il dipendente di un ente di diritto privato sottoposto a controllo pubblico ai sensi dell’articolo 2359 del codice civile. La disciplina di cui al presente articolo si applica anche ai lavoratori e ai collaboratori delle imprese fornitrici di beni o servizi e che realizzano opere in favore dell’amministrazione pubblica.

3. L’identità del segnalante non può essere rivelata. Nell’ambito del procedimento penale, l’identità del segnalante è coperta dal segreto nei modi e nei limiti previsti dall’articolo 329 del codice di procedura penale. Nell’ambito del procedimento dinanzi alla Corte dei conti, l’identità del segnalante non può essere rivelata fino alla chiusura della fase istruttoria. Nell’ambito del procedimento disciplinare l’identità del segnalante non può essere rivelata, ove la contestazione dell’addebito disciplinare sia fondata su accertamenti distinti e ulteriori rispetto alla segnalazione, anche se conseguenti alla stessa. Qualora la contestazione sia fondata, in tutto o in parte, sulla segnalazione e la conoscenza dell’identità del segnalante sia indispensabile per la difesa dell’incolpato, la segnalazione sarà utilizzabile ai fini del procedimento disciplinare solo in presenza di consenso del segnalante alla rivelazione della sua identità.

4. La segnalazione è sottratta all’accesso previsto dagli articoli 22 e seguenti della legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni.

5. L’ANAC, sentito il Garante per la protezione dei dati personali, adotta apposite linee guida relative alle procedure per la presentazione e la gestione delle segnalazioni. Le linee guida prevedono l’utilizzo di modalità anche informatiche e promuovono il ricorso a strumenti di crittografia per garantire la riservatezza dell’identità del segnalante e per il contenuto delle segnalazioni e della relativa documentazione.

6. Qualora venga accertata, nell’ambito dell’istruttoria condotta dall’ANAC, l’adozione di misure discriminatorie da parte di una delle amministrazioni pubbliche o di uno degli enti di cui al comma 2, fermi restando gli altri profili di responsabilità, l’ANAC applica al responsabile che ha adottato tale misura una sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000 a 30.000 euro. Qualora venga accertata l’assenza di procedure per l’inoltro e la gestione delle segnalazioni ovvero l’adozione di procedure non conformi a quelle di cui al comma 5, l’ANAC applica al responsabile la sanzione amministrativa pecuniaria da 10.000 a 50.000 euro. Qualora venga accertato il mancato svolgimento da parte del responsabile di attività di verifica e analisi delle segnalazioni ricevute, si applica al responsabile la sanzione amministrativa pecuniaria da 10.000 a 50.000 euro. L’ANAC determina l’entità della sanzione tenuto conto delle dimensioni dell’amministrazione o dell’ente cui si riferisce la segnalazione. (310)

7. È a carico dell’amministrazione pubblica o dell’ente di cui al comma 2 dimostrare che le misure discriminatorie o ritorsive, adottate nei confronti del segnalante, sono motivate da ragioni estranee alla segnalazione stessa. Gli atti discriminatori o ritorsivi adottati dall’amministrazione o dall’ente sono nulli.

8. Il segnalante che sia licenziato a motivo della segnalazione è reintegrato nel posto di lavoro ai sensi dell’articolo 2 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23.

9. Le tutele di cui al presente articolo non sono garantite nei casi in cui sia accertata, anche con sentenza di primo grado, la responsabilità penale del segnalante per i reati di calunnia o diffamazione o comunque per reati commessi con la denuncia di cui al comma 1 ovvero la sua responsabilità civile, per lo stesso titolo, nei casi di dolo o colpa grave.

Whistleblowing (italiano informatore).


Ritorsioni verso un segnalante di illeciti: 5mila euro di sanzione Anac al responsabile. È la prima dall’approvazione della legge. Sono 706 le segnalazioni nel 2019, 41 inviate in Procura

All’esito di una lunga istruttoria, l’Autorità nazionale anticorruzione ha irrogato una sanzione da 5mila euro al responsabile di provvedimenti ritorsivi attuati nei confronti di un whistleblower. È la prima multa comminata dall’Anac da quanto è stata approvata la legge 179/2017, che tutela da misure discriminatorie chi segnala illeciti sul luogo di lavoro.

Il whistleblower, operante in un comune campano, aveva denunciato per abuso d’ufficio e omissione di atti d’ufficio i componenti dell’Ufficio procedimenti disciplinari, di cui lui stesso faceva parte. Nelle settimane successive alla denuncia sporta presso l’Autorità giudiziaria, il dirigente era stato sospeso dal servizio per 10 giorni e in seguito per altri 12 giorni, in entrambi i casi con la contestuale privazione della retribuzione.

Dopo un accurato esame della vicenda e l’audizione di due componenti dell’Ufficio procedimenti disciplinari, l’Anac ha ritenuto pretestuose e ritorsive le motivazioni alla base delle contestazioni, sanzionando il firmatario dei provvedimenti.

La legge 179/2017, che ha affidato all’Autorità nazionale anticorruzione il compito di verificare eventuali misure discriminatorie verso i whistleblower, prevede la possibilità di irrogare sanzioni da 5.000 a 30.000 euro nei confronti degli autori delle misure ritorsive e da 10.000 a 50.000 euro in caso di mancata analisi delle segnalazioni ricevute. Le segnalazioni di whistleblowing possono infatti essere inviate, oltre che all’Anac, anche al Responsabile per la prevenzione della corruzione (Rpct) interno all’amministrazione. Dall’istituzione della legge, l’Autorità ha avviato 17 procedimenti sanzionatori; di questi, 10 sono tuttora in corso.

Dall’inizio del 2019 a oggi sono 706 le segnalazioni pervenute. Di queste, dopo gli approfondimenti del caso, 41 sono state trasmesse alla Procura della Repubblica e 35 alla Corte dei Conti per valutare la sussistenza di profili penali ed erariali.

importante sentenza della Corte Costituzionale sulle pensioni integrative dei dipendenti pubblici

Corte Costituzionale
Sentenza n. 218 del 3/10/2019
Pubblico impiego – previdenza complementare – fondi pensione – regime agevolato – deve essere riconosciuto anche ai dipendenti pubblici

La Corte, con la presente sentenza, afferma che anche ai dipendenti pubblici deve essere riconosciuto il regime agevolato entrato in vigore nel 2007 per i soli dipendenti privati e pertanto dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 23 comma 6 del decreto legislativo n. 252/2005 (Disciplina delle forme pensionistiche complementari) nella parte in cui prevede che il riscatto della posizione individuale sia assoggettato ad imposta ai sensi dell’art. 52 comma 1 lettera d-ter,  del d.P.R. n. 971/1986 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi), anziché ai sensi dell’art. 14, commi 4 e 5, dello stesso d.lgs. n. 252 del 2005. Si riporta di seguito il comunicato del 3 ottobre 2019 dell’ufficio stampa della Corte: “Previdenza complementare: ai dipendenti pubblici le stesse agevolazioni fiscali previste per i privati. È illegittimo il diverso trattamento tributario – tra dipendenti pubblici e privati – previsto per il riscatto di una posizione individuale maturata tra il 2007 e il 2017 nei fondi pensione negoziali. La previsione penalizza i dipendenti pubblici rispetto a quelli privati sebbene le due fattispecie siano sostanzialmente omogenee. Si tratta quindi di una discriminazione che viola il principio dell’eguaglianza tributaria. È quanto ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza n. 218 depositata oggi (relatore Luca Antonini), affermando che anche ai dipendenti pubblici deve essere riconosciuto il regime agevolato entrato in vigore nel 2007 per i soli dipendenti privati.  La questione era stata sollevata dalla Commissione tributaria provinciale di Vicenza, alla quale si era rivolta un’insegnante per ottenere il rimborso – negatole dall’Agenzia delle entrate sulla base della disposizione censurata – delle maggiori imposte pagate sull’importo riscattato dal Fondo pensione Espero. Su questo reddito ora si dovrà applicare la più favorevole imposta sostitutiva introdotta dal 2007 anziché l’aliquota determinata sommando l’importo stesso al reddito complessivo dell’anno. La Corte ha fatto leva sull’omogeneità del meccanismo di finanziamento della previdenza complementare sia nei fondi pensione negoziali dei dipendenti privati sia in quelli dei dipendenti pubblici, per concludere che la duplicità del trattamento tributario del riscatto della posizione maturata non può essere giustificata né dalla diversa natura del rapporto di lavoro né dal fatto che l’accantonamento del TFR dei dipendenti pubblici è virtuale, in costanza di rapporto di lavoro. Ha quindi esteso anche ai dipendenti pubblici l’agevolazione già prevista per quelli privati con lo scopo di favorire lo sviluppo della previdenza complementare.” (tratto da Bollettino ARAN).

Di seguito la sentenza:

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Giorgio LATTANZI;

Giudici: Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,

ha pronunciato la seguente

Svolgimento del processo

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 23, comma 6, del D.Lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 (Disciplina delle forme pensionistiche complementari), in relazione all’art. 52, comma 1, lettera d-ter), del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi), promosso dalla Commissione tributaria provinciale di Vicenza nel procedimento vertente tra Paola Rizzo e l’Agenzia delle entrate – Direzione provinciale di Vicenza, con ordinanza dell’11 ottobre 2017, iscritta al n. 1 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell’anno 2019.

Visti l’atto di costituzione di Paola Rizzo, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 18 giugno 2019 il Giudice relatore Luca Antonini;

uditi l’avvocato Flavio De Benedictis per Paola Rizzo e l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.

1.- Con ordinanza dell’11 ottobre 2017 (r. o. n. 1 del 2019), la Commissione tributaria provinciale di Vicenza ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 23, comma 6, del D.Lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 (Disciplina delle forme pensionistiche complementari), in relazione all’art. 52, comma 1, lettera d-ter), del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi), in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione.

La controversia pendente davanti al giudice rimettente riguarda il rifiuto tacito opposto dall’Agenzia delle entrate all’istanza di rimborso dell’imposta sui redditi delle persone fisiche (IRPEF) e delle addizionali comunale e regionale per l’anno 2014 presentata dalla ricorrente; questa ritiene di avere versato un’imposta maggiore del dovuto poiché al reddito complessivo prodotto è stato sommato l’ammontare dell’imponibile erogatole dal Fondo nazionale pensione complementare per i lavoratori della scuola (Fondo scuola “Espero”), tassato sulla base di disposizioni asseritamente illegittime. A tale fondo la stessa è stata iscritta dal 16 dicembre 2009 al 30 giugno 2014, maturando una posizione individuale imponibile di Euro 8.108,70; esercitato il riscatto volontario, il fondo ha applicato sulla somma liquidatale una ritenuta alla fonte di Euro 1.865,01 a titolo di tassazione ordinaria, per effetto del combinato disposto degli artt. 23, comma 6, del D.Lgs. n. 252 del 2005 e 52, comma 2, lettera d-ter), t.u. imposte redditi.

2.- Quanto alla non manifesta infondatezza, l’ordinanza ricorda che il fondo al quale la ricorrente aveva aderito, costituito a seguito della riforma pensionistica contenuta nella L. 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), è destinato ai lavoratori del comparto scuola, sia con contratto a tempo indeterminato che determinato, che vi aderiscono volontariamente.

Prosegue il giudice rilevando che la riforma introdotta dalla L. 23 agosto 2004, n. 243 (Norme in materia pensionistica e deleghe al Governo nel settore della previdenza pubblica, per il sostegno alla previdenza complementare e all’occupazione stabile e per il riordino degli enti di previdenza ed assistenza obbligatoria), avente tra l’altro ad oggetto l’adozione di norme intese a “sostenere e favorire lo sviluppo di forme pensionistiche complementari” (art. 1, comma 1), non avrebbe trovato immediata applicazione nei confronti del pubblico impiego. Infatti, non è stato emanato l’apposito decreto di armonizzazione necessario per l’attuazione degli specifici principi e criteri direttivi indicati all’art. 1, comma 2, lettera p), della legge citata: “applicare i princìpi e i criteri direttivi di cui al comma 1 e al presente comma e le disposizioni relative agli incentivi al posticipo del pensionamento di cui ai commi da 12 a 17, con le necessarie armonizzazioni, al rapporto di lavoro con le amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, previo confronto con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative dei datori e dei prestatori di lavoro, le regioni, gli enti locali e le autonomie funzionali, tenendo conto delle specificità dei singoli settori e dell’interesse pubblico connesso all’organizzazione del lavoro e all’esigenza di efficienza dell’apparato amministrativo pubblico”.

Il D.Lgs. n. 252 del 2005, recante disposizioni attuative della predetta legge delega, prevedeva, infatti, all’art. 21, comma 8, che “fatto salvo quanto previsto dall’art. 23, comma 5, è abrogato il D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124“, recante “Disciplina delle forme pensionistiche complementari, a norma dell’articolo 3, comma 1, lettera v), della L. 23 ottobre 1992, n. 421“, e all’art. 23, comma 6, che “fino all’emanazione del decreto legislativo di attuazione dell’articolo 1, comma 2, lettera p), della L. 23 agosto 2004, n. 243, ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, si applica esclusivamente ed integralmente la previgente normativa”.

Ad avviso del giudice a quo, il combinato disposto di tali previsioni escluderebbe “l’applicazione, al rapporto di lavoro pubblico, del regime fiscale più favorevole introdotto dallo stesso decreto legislativo, creando due regimi impositivi e una disparità di trattamento costituzionalmente rilevante”. Infatti, il cosiddetto riscatto volontario di una posizione individuale accumulata dopo il 1 gennaio 2007 (data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 252 del 2005), “se erogato a favore di dipendenti del settore privato iscritti a una forma pensionistica di natura negoziale di cui sono destinatari, beneficia della favorevole imposizione sostitutiva di cui all’art. 14 del D.Lgs. n. 252 del 2005, mentre il medesimo riscatto erogato a favore di dipendenti pubblici subisce una differente e penalizzante imposizione ordinaria che si configurerebbe nella maggiorazione dell’onere tributario, derivante dall’applicazione dell’art. 52, comma 1, lett. d-ter) del TUIR“.

Pertanto, il rimettente ritiene che il D.Lgs. n. 252 del 2005 risulterebbe “carente di una disciplina generale di armonizzazione con il settore pubblico”, per effetto delle sopra richiamate disposizioni di cui agli artt. 21, comma 8, e 23, comma 6 della stessa fonte normativa.

Il combinato disposto di queste ultime “escluderebbe, irragionevolmente, al rapporto di lavoro pubblico contrattualizzato, il regime fiscale più favorevole introdotto dallo stesso decreto legislativo, creando due sistemi impositivi”. La conseguente disparità di trattamento appare al rimettente irragionevole, e quindi in violazione dell’art. 3 Cost., essendo lesiva del principio di uguaglianza tra lavoratori del settore pubblico e di quello privato, nonché dell’art. 53 Cost., “in quanto una medesima fonte di capacità contributiva verrebbe sottoposta a due diverse imposizioni fiscali”.

L’ordinanza ritiene le questioni rilevanti in quanto la risoluzione della controversia in senso sfavorevole o favorevole al contribuente dipenderebbe dall’applicazione della norma della cui costituzionalità si dubita.

3.- Con atto depositato il 19 febbraio 2019 è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o comunque manifestamente infondate.

Vengono, in premessa, richiamate le principali fonti normative in materia di previdenza complementare segnalando, da ultimo, l’art. 1, comma 156, della L. 27 dicembre 2017, n. 205 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020): tale disposizione, a decorrere dal 1 gennaio 2018, ha esteso ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni le disposizioni concernenti la deducibilità dei premi e dei contributi versati ai fini della previdenza complementare e il regime di tassazione delle prestazioni previsti dal D.Lgs. n. 252 del 2005, precisando che, per i dipendenti pubblici iscritti alla data di entrata in vigore della legge a forme previdenziali complementari, “relativamente ai montanti delle prestazioni accumulate fino a tale data, continuano ad applicarsi le disposizioni previgenti”.

3.1.- L’Avvocatura generale eccepisce la inammissibilità delle questioni, “per non avere investito la normativa rilevante, con particolare riferimento all’art. 1 della legge delega n. 243/2004, in forza della quale è stato emanato il D.Lgs. n. 252 del 2005“. Richiamando il principio direttivo contenuto nella lettera p) del comma 2 di tale articolo, ritiene evidente che l’art. 23, comma 6, del D.Lgs. n. 252 del 2005, sospettato di incostituzionalità, trovi in esso il suo fondamento.

Un ulteriore profilo di inammissibilità deriverebbe dal fatto che l’ordinanza ha richiesto la dichiarazione di illegittimità dell’art. 23, comma 6, del D.Lgs. n. 252 del 2005 senza richiamare, “neppure in estrema sintesi”, la disciplina, contenuta nel citato decreto legislativo, in tema di trattamento fiscale delle prestazioni di previdenza complementare erogate ai lavoratori privati diverse dal riscatto volontario, di cui l’accoglimento del petitum formulato “comporterebbe l’estensione ai lavoratori del comparto pubblico”.

3.2.- A sostegno della manifesta infondatezza della questione, l’Avvocatura premette che le prestazioni di previdenza complementare costituiscono reddito da lavoro dipendente o da pensione e che, sia il D.Lgs. n. 124 del 1993, sia il D.Lgs. 18 febbraio 2000, n. 47 (Riforma della disciplina fiscale della previdenza complementare, a norma dell’articolo 3 della L. 13 maggio 1999, n. 133), avevano delineato “un trattamento fiscale delle anzidette prestazioni omogeneo per i lavoratori privati e pubblici analogo a quello dettato dal TUIR per tali redditi”.

Secondo la ricostruzione dell’Avvocatura il regime applicabile alla quota parte delle prestazioni riferibili ai contributi e al trattamento di fine rapporto (TFR) versati fino al 31 dicembre 2006, sia per i lavoratori pubblici che per quelli privati, prevedeva: a) la tassazione progressiva, per le prestazioni in forma periodica; b) la tassazione separata, per le prestazioni in forma di capitale e per le anticipazioni; c) la tassazione separata, per riscatti conseguenti a pensionamento, cessazione del rapporto di lavoro per mobilità e per altre cause non dipendenti dalla volontà delle parti; d) la tassazione progressiva, per i riscatti volontari.

Rispetto a tale regime tipico, la nuova disciplina dettata dal D.Lgs. n. 252 del 2005 avrebbe un connotato evidentemente agevolativo, come risulterebbe dal contenuto dell’art. 11. Per quanto attiene ai riscatti, si applicherebbe la medesima tassazione prevista per le prestazioni erogate sotto forma di capitale, nei casi di riscatti esercitati ai sensi dell’art. 14, commi 2 e 3, del D.Lgs. n. 252 del 2005, mentre le ipotesi di riscatto per cause diverse sarebbero assoggettate a ritenuta a titolo d’imposta del 23 per cento.

Ciò ricordato, ad avviso dell’interveniente le censure sollevate dal giudice a quo sarebbero manifestamente infondate “in considerazione della natura agevolativa delle disposizioni dettate dal D.Lgs. n. 252 del 2005” e del principio affermato dalla Corte (è richiamata la sentenza n. 21 del 2005), secondo cui “la previsione di aliquote differenziate per settori produttivi e per tipologie di soggetti passivi rientra pienamente nella discrezionalità del legislatore, se sorretta da non irragionevoli motivi di politica economica e ridistributiva”. L’Avvocatura ritiene che la stabilità del rapporto pubblico e la circostanza che i dipendenti pubblici percepissero e continuino a percepire trattamenti pensionistici obbligatori di importo pari “circa al doppio di quelli percepiti dai dipendenti privati”, costituirebbero “ragioni sufficienti a giustificare una disciplina differenziata del trattamento fiscale delle prestazioni erogate dalle forme di previdenza complementare”.

Argomentando sotto un ulteriore profilo di infondatezza, l’Avvocatura generale considera che la previdenza integrativa sarebbe stata costituita prendendo a modello il settore dipendente privato e attribuendo un ruolo fondamentale al trattamento di fine rapporto. Peraltro, ciò avrebbe fin dall’inizio comportato difficoltà di applicazione nel settore pubblico, nel quale mancava il TFR, e non potendo quindi il bilancio pubblico facilmente “trasferirlo ai fondi pensione nel caso di una trasformazione dei trattamenti di fine servizio (TFS) in TFR”.

La difesa dello Stato prosegue riepilogando le fasi che hanno segnato l’estensione ai dipendenti pubblici del TFR, inizialmente disposta dalla L. n. 335 del 1995, e delineando le modalità di determinazione della misura dei contributi a carico del lavoratore e del datore di lavoro, nonché le modalità di accantonamento del TFR dei dipendenti pubblici.

Tali peculiari vicende e, in particolare, la “diversa disciplina ed entità del TFS e la differente modalità di accantonamento del TFR” costituirebbero, ad avviso dell’Avvocatura, ulteriori ragioni che varrebbero “a rendere non irragionevole la scelta del legislatore di differenziare il trattamento fiscale delle prestazioni di previdenza complementare erogate dai fondi pensione ai lavoratori pubblici e privati”.

4.- Con atto depositato il 15 febbraio 2019, si è costituita Paola Rizzo, come rappresentata e difesa, in qualità di parte del giudizio a quo.

Dopo avere richiamato il regime di tassazione applicabile per il periodo dal 1 gennaio 2001 al 31 dicembre 2006, e avere menzionato la disposizione di cui all’art. 23, comma 6, del D.Lgs. n. 252 del 2005, la parte dà atto del nuovo regime di tassazione delle prestazioni a favore dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche introdotto dall’art. 1, comma 156, della L. n. 205 del 2017.

4.1.- Anche a seguito dell’entrata in vigore di tale disposizione, tuttavia, non potrebbe “considerarsi cessata la materia del contendere del presente procedimento”: ad avviso della parte lo ius superveniens “non avrebbe avuto carattere satisfattivo dei rilievi sollevati dal giudice a quo” e, inoltre, vi sarebbe stata “applicazione medio tempore della disposizione originariamente censurata”. Considerando che quest’ultima avrebbe “già conosciuto effettiva applicazione al momento in cui è entrata in vigore la disciplina sopravvenuta”, si prospetta l’estensione del “giudizio incidentale di legittimità costituzionale” al comma 156 dell’art. 1 della L. n. 205 del 2017; nonostante lo ius superveniens, i lavoratori dipendenti delle amministrazioni pubbliche continuerebbero a subire una illegittima discriminazione, risultante dai diversi regimi, di cui si esplicitano i contenuti.

4.2.- Il regime impositivo previgente al D.Lgs. n. 252 del 2005, applicabile alle prestazioni erogate a dipendenti di pubbliche amministrazioni per la quota riferibile al montante accumulato dal 1 gennaio 2007 al 31 dicembre 2017, risulterebbe in contrasto con i parametri evocati dal rimettente. A sostegno di tale tesi si richiamano le affermazioni contenute nella sentenza n. 10 del 2015 sul principio della capacità contributiva, da interpretare come specificazione settoriale del più ampio principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., e nella sentenza n. 83 del 2015, sul limite della manifesta irragionevolezza applicabile anche in materia tributaria al principio della discrezionalità e dell’insindacabilità delle opzioni legislative.

La scelta legislativa di tassare in modo totalmente differente e penalizzante una prestazione di previdenza complementare percepita da un aderente a una forma pensionistica collettiva per la sola circostanza che il proprio datore di lavoro sia una pubblica amministrazione (e non un soggetto di diritto privato) sarebbe quindi manifestamente irragionevole e discriminatoria in forza dei parametri costituzionali evocati.

Da ultimo, si sostiene che il vizio di irragionevolezza sopra evidenziato porrebbe una questione di illegittimità costituzionale “anche con riferimento al principio di non discriminazione di cui all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea … e in relazione all’art. 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”.

5.- In prossimità dell’udienza è pervenuta una memoria della parte privata, che replica all’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri.

A confutazione della eccezione di inammissibilità per non essere stata censurata la legge di delegazione, si osserva che la situazione di irragionevolezza denunciata nel giudizio conseguirebbe dalla mancata attuazione del criterio di legge delega di cui alla lettera p) del comma 2 dell’art. 1 della L. n. 243 del 2004 e non dalla stessa disposizione di legge, che prevedeva l’applicazione al rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni degli stessi principi e criteri direttivi fissati per il settore privato. Pertanto, il giudice rimettente non avrebbe dovuto censurare anche tale ultima disposizione normativa.

Ugualmente infondata sarebbe l’altra eccezione prospettata, atteso che l’ordinanza esplicitamente ed esaustivamente richiamerebbe il regime impositivo di cui al D.Lgs. n. 252 del 2005, citandone l’art. 14.

Quanto agli argomenti di merito utilizzati dalla difesa dello Stato, la memoria ritiene che si basino su presupposti errati e siano comunque infondati. Precisa che la ricorrente aveva prestato la sua attività in forza di un contratto di lavoro a tempo determinato con scadenza al 30 giugno 2014, sì che nessuna stabilità del rapporto stesso potrebbe essere invocata. Inoltre, fa presente che i dipendenti pubblici non beneficiano di trattamenti pensionistici obbligatori calcolati in modo differente rispetto ai lavoratori del settore privato, essendo il relativo importo direttamente correlato a quello dei contributi versati all’ente previdenziale di gestione del sistema pensionistico pubblico.

In ogni caso, la diversa natura del datore di lavoro non potrebbe assurgere a indice della capacità contributiva tale da giustificare un prelievo fiscale totalmente differente su medesimi presupposti d’imposta.

Inoltre, si ritiene inconferente con la questione di costituzionalità “la legislazione sulla indennità di fine servizio spettante a determinate tipologie di lavoratori del settore pubblico”. Infine, la preclusione per i lavoratori pubblici di poter materialmente ed effettivamente conferire le quote maturande del TFR alla propria forma pensionistica complementare, rappresenterebbe tuttalpiù un’ulteriore discriminazione a danno degli stessi e non certo una valida ragione per giustificare il differente e penalizzante prelievo tributario sulle prestazioni di previdenza complementare.

Motivi della decisione

1.- Con ordinanza dell’11 ottobre 2017 (r. o. n. 1 del 2019), la Commissione tributaria provinciale di Vicenza ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 23, comma 6, del D.Lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 (Disciplina delle forme pensionistiche complementari), in relazione all’art. 52, comma 1, lettera d-ter), del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi), secondo i quali sulle somme percepite dai dipendenti delle pubbliche amministrazioni a titolo di riscatto della posizione individuale maturata presso una forma di previdenza complementare collettiva si applica il regime fiscale previgente al D.Lgs. n. 252 del 2005, invece del regime fiscale più favorevole introdotto da detto D.Lgs. n. 252 del 2005 per la stessa prestazione erogata dalle forme pensionistiche complementari collettive ai dipendenti privati. Il rimettente ritiene che nel D.Lgs. n. 252 del 2005 la carenza di una disciplina generale di armonizzazione con il settore pubblico conduca a escludere l’applicazione del regime fiscale più favorevole, introdotto dallo stesso decreto legislativo per il rapporto di lavoro privato, al rapporto di lavoro pubblico contrattualizzato: la duplicità dei sistemi impositivi e la disparità di trattamento conseguenti sarebbero, perciò, in contrasto con gli artt. 3 e 53 della Costituzione.

Nel giudizio a quo si impugna il rifiuto tacito formatosi sulla richiesta, avanzata dalla ricorrente, di rimborso della maggiore imposta sui redditi delle persone fisiche (IRPEF) e delle maggiori addizionali regionale e comunale versate sulle somme percepite da un fondo pensione complementare (Fondo scuola “Espero”) a seguito dell’esercizio, da parte di un dipendente pubblico, della facoltà di riscatto cosiddetto volontario. L’Agenzia delle entrate ritiene corretta l’applicazione della tassazione ordinaria, secondo l’aliquota progressiva applicabile al reddito complessivo, ai sensi dell’art. 52, comma 1, lettera d-ter), t.u. imposte redditi, mentre la ricorrente sostiene la incostituzionalità di tale norma e la necessità di applicare il più favorevole trattamento previsto per i dipendenti privati dall’art. 14 del D.Lgs. n. 252 del 2005.

2.- Deve preliminarmente rilevarsi che non incide nel presente giudizio lo ius superveniens dell’art. 1, comma 156, della L. 27 dicembre 2017, n. 205 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020). Tale disposizione ha previsto che “a decorrere dal 1 gennaio 2018, ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, si applicano le disposizioni concernenti la deducibilità dei premi e contributi versati e il regime di tassazione delle prestazioni di cui al D.Lgs. 5 dicembre 2005, n. 252. Per i dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, che, alla data di entrata in vigore della presente legge, risultano iscritti a forme pensionistiche complementari, le disposizioni concernenti la deducibilità dei contributi versati e il regime di tassazione delle prestazioni di cui al D.Lgs. 5 dicembre 2005, n. 252, sono applicabili a decorrere dal 1 gennaio 2018. Per i medesimi soggetti, relativamente ai montanti delle prestazioni accumulate fino a tale data, continuano ad applicarsi le disposizioni previgenti”.

La norma citata, successiva all’ordinanza di rimessione, non ha effetti retroattivi e non è quindi applicabile al giudizio a quo, il quale ha ad oggetto un rapporto di previdenza complementare cessato nel 2014.

3.- Va, in primo luogo, rilevata la inammissibilità delle deduzioni svolte dalla parte costituita, ricorrente nel giudizio a quo, volte ad estendere il thema decidendum – quale definito nell’ordinanza di rimessione – “anche con riferimento al principio di non discriminazione di cui all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, e in relazione all’art. 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata dall’Italia con L. 4 agosto 1955, n. 848“.

Si tratta di profili di illegittimità che il giudice a quo non ha fatto propri: per costante giurisprudenza di questa Corte “l’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale è limitato alle disposizioni e ai parametri indicati nell’ordinanza di rimessione, sicché non possono essere presi in considerazione ulteriori questioni o profili di costituzionalità dedotti dalle parti, sia eccepiti, ma non fatti propri dal giudice a quo, sia volti ad ampliare o modificare successivamente il contenuto della stessa ordinanza (ex plurimis, sentenza n. 194 del 2018)” (sentenza n. 7 del 2019).

4.- L’Avvocatura generale ha formulato due eccezioni di inammissibilità delle questioni.

4.1.- Con la prima, ha sostenuto che il giudice rimettente avrebbe dovuto censurare l’art. 1, comma 2, lettera p), della L. n. 243 del 2004, poiché il principio di delega da questo espresso costituirebbe il fondamento dell’art. 23, comma 6, del D.Lgs. n. 252 del 2005, disposizione sospettata di incostituzionalità.

4.1.1.- L’eccezione non è fondata.

La citata norma della legge di delega ha indirizzato il legislatore delegato ad applicare gli stessi princìpi e criteri direttivi di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 1 anche al rapporto di lavoro con le amministrazioni pubbliche, pur subordinando tale applicazione alle “necessarie armonizzazioni”. Pertanto, il contenuto del criterio direttivo sopra richiamato non consente di affermare che il legislatore delegante intendesse direttamente ottenere, all’esito dell’attuazione della delega, una differenziazione della disciplina tributaria applicabile alle prestazioni di previdenza complementare in ragione della natura del rapporto di lavoro dell’aderente, tanto più che i principi e criteri relativi al regime tributario della previdenza complementare presentavano un contenuto generale e, peraltro, piuttosto circoscritto.

Risulta quindi priva di validità l’affermazione secondo cui la disposizione censurata troverebbe diretto fondamento nel menzionato criterio direttivo e non sussiste, pertanto, la eccepita inesatta indicazione della norma oggetto di censura che determinerebbe la inammissibilità della questione.

Correttamente il giudice a quo non ha esteso le questioni sollevate alla disposizione della legge delega poiché, come osservato nella memoria della parte privata, la situazione di irragionevolezza che egli lamenta non è conseguenza di tale previsione, quanto piuttosto dell’inattuazione, sullo specifico punto, della stessa disposizione.

4.2.- Con la seconda eccezione l’Avvocatura ha rilevato che l’ordinanza, pur chiedendo la dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 23, comma 6, del D.Lgs. n. 252 del 2005, non avrebbe richiamato, neppure in estrema sintesi, l’intera disciplina dettata dal decreto stesso in tema di trattamento fiscale delle prestazioni di previdenza complementare erogate ai lavoratori privati, essendosi invece limitata a citare solo quella concernente la prestazione oggetto del giudizio (il cosiddetto riscatto volontario).

4.2.1.- Anche tale eccezione non è fondata.

Se è vero che l’ordinanza di rimessione, nel dispositivo, riferisce genericamente le questioni all’art. 23, comma 6, del D.Lgs. n. 252 del 2005, in forza del quale ai dipendenti pubblici resta applicabile la intera disciplina previgente, tuttavia nel suo contenuto motivazionale circoscrive precipuamente il dubbio di costituzionalità al combinato disposto del citato art. 23, comma 6, e dell’art. 52, comma 2, lettera d-ter), t.u. imposte redditi. Quest’ultima lettera attiene specificamente al trattamento fiscale delle “prestazioni pensionistiche di cui alla lettera h-bis) del comma 1, dell’articolo 50, erogate in forma capitale a seguito di riscatto della posizione individuale ai sensi dell’articolo 10, comma 1, lettera c), del D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124, diverso da quello esercitato a seguito di pensionamento o di cessazione del rapporto di lavoro per mobilità o per altre cause non dipendenti dalla volontà delle parti”.

Dall’insieme delle due disposizioni si ricava la norma che il rimettente dovrebbe applicare e sulla quale appunta le censure; così precisato l’oggetto delle questioni e del petitum, ne discende l’infondatezza della eccezione in esame: l’ordinanza richiama puntualmente la disciplina del trattamento tributario del riscatto contenuta nell’art. 14 del D.Lgs. n. 252 del 2005, di cui lamenta la irragionevole non applicazione ai dipendenti pubblici, e non doveva pertanto illustrare anche il regime tributario delle altre prestazioni erogate dai fondi di previdenza complementare, estranee all’oggetto del giudizio a quo.

5.- Le questioni sono fondate in relazione all’art. 3 Cost.

Il richiamato regime sostitutivo tributario del riscatto, previsto dal D.Lgs. n. 252 del 2005, ma solo per i dipendenti del settore privato, si inquadra nell’ambito di agevolazioni tributarie non strutturali, dirette, in questo caso, a incentivare lo sviluppo della previdenza complementare; non si configura quindi come una qualunque spesa fiscale, ma assume una specifica giustificazione costituzionale in virtù della sua connessione con l’attuazione del sistema dell’art. 38, secondo comma, Cost., derivante dal “collegamento funzionale tra previdenza obbligatoria e previdenza complementare” (sentenza n. 393 del 2000; nello stesso senso, ordinanza n. 319 del 2001).

Questa Corte si è trovata più volte a vagliare la legittimità costituzionale di disposizioni che, in nome del bilanciamento con altri principi costituzionali, prevedono, a fronte di una riconosciuta capacità contributiva (sentenza n. 159 del 1985), agevolazioni tributarie e, in questo contesto, ha affermato, in via generale, che “norme di tale tipo, aventi carattere eccezionale e derogatorio, costituiscono esercizio di un potere discrezionale del legislatore, censurabile solo per la sua eventuale palese arbitrarietà o irrazionalità (sentenza n. 292 del 1987; ordinanza n. 174 del 2001); con la conseguenza che la Corte stessa non può estenderne l’ambito di applicazione, se non quando lo esiga la ratio dei benefici medesimi (sentenze n. 6 del 2014, n. 275 del 2005, n. 27 del 2001, n. 431 del 1997 e n. 86 del 1985; ordinanze n. 103 del 2012, n. 203 del 2011, n. 144 del 2009 e n. 10 del 1999)” (da ultimo, sentenza n. 264; nello stesso senso, sentenza n. 242 del 2017).

Nella fattispecie in esame, tuttavia, è palese che la ratio del beneficio riconosciuto a favore dei dipendenti privati – quella di favorire lo sviluppo della previdenza complementare, dando attuazione al sistema dell’art. 38, secondo comma, Cost. – è identicamente ravvisabile anche nei confronti di quelli pubblici.

5.1.- Tanto dimostra la ricostruzione dell’evoluzione normativa.

Le forme di previdenza per l’erogazione di trattamenti pensionistici complementari del sistema obbligatorio, infatti, sono finalizzate ad assicurare più elevati livelli di copertura previdenziale, come enunciano sia l’art. 1 del D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124 (Disciplina delle forme pensionistiche complementari, a norma dell’articolo 3, comma 1, lettera v, della L. 23 ottobre 1992, n. 421) – decreto con cui il legislatore ha per la prima volta disciplinato in maniera organica la previdenza complementare nel nostro ordinamento -, sia l’art. 1 del D.Lgs. n. 252 del 2005, che oggi regola la medesima materia.

Tra i destinatari delle forme pensionistiche complementari vi sono in primo luogo i lavoratori dipendenti, sia privati, sia pubblici (art. 2, comma 1, lettera a, del D.Lgs. n. 252 del 2005); le modalità di partecipazione sono stabilite dalle fonti istitutive delle forme pensionistiche medesime, individuate principalmente nei contratti collettivi (art. 3, commi 1, lettera a, e 2, del decreto citato).

Per quanto attiene al finanziamento delle forme pensionistiche, e con specifico riferimento a quelle istituite dalla contrattazione collettiva dei lavoratori dipendenti, esso può essere attuato mediante il versamento di contributi a carico del lavoratore e del datore di lavoro e attraverso il conferimento del trattamento di fine rapporto maturando (art. 8, comma 1, del D.Lgs. n. 252 del 2005). Le fonti istitutive fissano le modalità e la misura minima della contribuzione a carico del datore di lavoro e del lavoratore e “la percentuale minima di TFR maturando da destinare a previdenza complementare. In assenza di tale indicazione il conferimento è totale” (art. 8, comma 2, del D.Lgs. n. 124 del 1993 citato). Quanto alle “forme pensionistiche complementari di cui siano destinatari i dipendenti della pubblica amministrazione, i contributi alle forme pensionistiche debbono essere definiti in sede di determinazione del trattamento economico, secondo procedure coerenti alla natura del rapporto” (art. 8, comma 3, del D.Lgs. n. 124 del 1993 citato, che conferma quanto già previsto dall’art. 8, comma 4, del D.Lgs. n. 124 del 1993); ciò rappresenta un implicito richiamo all’art. 3, comma 2, del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), che riserva in via di principio alla contrattazione collettiva la materia dell’attribuzione di trattamenti economici.

5.2.- Il finanziamento della previdenza complementare dei dipendenti pubblici – con la costituzione dei primi fondi pensione negoziali per tali lavoratori – è divenuto concretamente operativo solo a distanza di tempo dall’approvazione del D.Lgs. n. 124 del 1993. Furono inizialmente di ostacolo l’assenza nel settore pubblico dell’istituto del trattamento di fine rapporto (TFR) e la inidoneità delle indennità di fine rapporto variamente denominate, proprie di tale settore, a realizzare la funzione tipica di finanziamento delle forme pensionistiche complementari.

Seguendo un percorso graduale, con l’art. 2, comma 5, della L. 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), il legislatore ha dapprima assoggettato alle disposizioni sul TFR, contenute nell’art. 2120 del codice civile, i trattamenti di fine servizio, comunque denominati, dei lavoratori assunti dal 1 gennaio 1996 alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche. In forza del comma 6 dello stesso L. 8 agosto 1995, n. 335 art. 2, alla contrattazione collettiva, nell’àmbito dei singoli comparti, è stata demandata la definizione delle modalità di attuazione di tali previsioni, “con riferimento ai conseguenti adeguamenti della struttura retributiva e contributiva del personale”, anche ai fini della disciplina delle forme pensionistiche complementari. Il successivo comma 7 ha affidato alla contrattazione collettiva nazionale la definizione delle modalità per l’applicazione della disciplina del trattamento di fine rapporto ai lavoratori già occupati alla data del 31 dicembre 1995, da recepire in un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, con la procedura prevista dal suddetto comma 6.

Successivamente, l’art. 59, comma 56, della L. 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica), al fine di favorire il processo di attuazione per i dipendenti pubblici delle disposizioni in materia di previdenza complementare, ha previsto “la possibilità di richiedere la trasformazione dell’indennità di fine servizio in trattamento di fine rapporto. Per coloro che optano in tal senso una quota della vigente aliquota contributiva relativa all’indennità di fine servizio prevista dalle gestioni previdenziali di appartenenza, pari all’1,5 per cento, verrà destinata a previdenza complementare nei modi e con la gradualità da definirsi in sede di specifica trattativa con le organizzazioni sindacali dei lavoratori”. Tale misura incentivante è stata oggetto di una più specifica disciplina ad opera dell’art. 26, commi da 18 a 20, della L. 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo).

Infine, il 29 luglio 1999 è stato stipulato un accordo quadro nazionale tra le organizzazioni sindacali più rappresentative e l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) successivamente recepito dal D.P.C.M. 20 dicembre 1999 (Trattamento di fine rapporto e istituzione dei fondi pensione dei pubblici dipendenti).

Ai fini che qui rilevano, il D.P.C.M. 20 dicembre 1999, come modificato dal successivo D.P.C.M. 2 marzo 2001 (Trattamento di fine rapporto e istituzione dei fondi dei pubblici dipendenti), ha previsto che in fase di prima attuazione i dipendenti esercitanti l’opzione di cui all’art. 59, comma 56, della L. n. 449 del 1997 possano destinare ai fondi pensione una quota di TFR non superiore al 2 per cento della retribuzione base di riferimento per il calcolo del TFR (art. 2, comma 1). Invece, per il personale assunto successivamente al 31 dicembre 2000, soggetto alle regole concessive e di computo di cui alla L. 29 maggio 1982, n. 297 (Disciplina del trattamento di fine rapporto e norme in materia pensionistica), in caso di iscrizione al fondo pensione è stata prevista “la integrale destinazione al fondo stesso degli accantonamenti al trattamento di fine rapporto” (art. 2, comma 2).

Il D.P.C.M. 20 dicembre 1999, all’art. 1, comma 6, ha anche previsto in via generale che il TFR debba essere accantonato figurativamente e liquidato dall’Istituto nazionale di previdenza delle amministrazioni pubbliche (INPDAP, oggi dall’Istituto nazionale di previdenza sociale-INPS) alla cessazione dal servizio del lavoratore secondo quanto disposto dalla L. n. 297 del 1982. In caso di adesione del lavoratore pubblico a un fondo pensione, l’art. 2, comma 5, ha disposto che alla cessazione del rapporto di lavoro l’INPDAP conferisca al fondo di riferimento il montante maturato, costituito dagli accantonamenti figurativi delle quote di TFR nonché di quelli relativi all’aliquota dell’1,5 per cento riconosciuta a chi abbia esercitato l’opzione sopra menzionata. A entrambi gli accantonamenti va applicato il tasso di rendimento netto conseguito dal fondo di adesione, salva, in via transitoria, per il periodo di consolidamento della struttura finanziaria dei fondi pensione dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, l’applicazione di un tasso corrispondente alla media dei rendimenti netti di un “paniere” di fondi presenti sul mercato.

5.3.- Sulla base della disciplina sopra ripercorsa, il finanziamento delle forme pensionistiche complementari negoziali per i lavoratori sia privati sia pubblici si realizza, dunque, mediante contribuzioni a carico sia del lavoratore sia del datore di lavoro e mediante il conferimento del TFR maturando che, insieme, formano la posizione individuale dell’aderente.

5.4.- Va precisato che, per i dipendenti pubblici, il TFR non viene periodicamente trasferito al fondo, ma entra nella disponibilità dello stesso al termine del rapporto di lavoro dell’aderente, incrementato secondo il tasso di rendimento descritto.

Tale differenza di disciplina non influisce però sulle odierne questioni di costituzionalità: queste, infatti, riguardano precipuamente il trattamento tributario di una prestazione di previdenza complementare a favore dei lavoratori pubblici, prospettato come penalizzante rispetto a quello della stessa prestazione erogata ai lavoratori privati. In questi termini, specificamente inerenti alla materia fiscale, non viene logicamente in considerazione quanto questa Corte ha avuto cura di precisare ad altro riguardo, ovvero che “il lavoro pubblico e il lavoro privato “non possono essere in tutto e per tutto assimilati (sentenze n. 120 del 2012 e n. 146 del 2008) e che le differenze, pur attenuate, permangono anche in séguito all’estensione della contrattazione collettiva a una vasta area del lavoro prestato alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni” (sentenza n. 178 del 2015, punto 9.2. del Considerato in diritto)” (sentenza n. 159 del 2019).

5.5.- Per quanto attiene specificamente all’istituto del riscatto, il D.Lgs. n. 124 del 1993 dispone all’art. 10, comma 1, che “ove vengano meno i requisiti di partecipazione alla forma pensionistica complementare, lo statuto del fondo pensione deve consentire le seguenti opzioni stabilendone misure, modalità e termini di esercizio: a) il trasferimento presso altro fondo pensione complementare, cui il lavoratore acceda in relazione alla nuova attività; b) il trasferimento ad uno dei fondi di cui all’art. 9 ossia i fondi pensione aperti; c) il riscatto della posizione individuale”. Il comma 3-ter prevede che, in caso di morte del lavoratore iscritto al fondo pensione prima del pensionamento per vecchiaia, la posizione individuale dello stesso “è riscattata dal coniuge ovvero dai figli ovvero, se già viventi a carico dell’iscritto, dai genitori. In mancanza di tali soggetti o di diverse disposizioni del lavoratore iscritto al fondo la posizione resta acquisita al fondo pensione”.

Pertanto, se non decida di aderire a un altro fondo pensione trasferendovi la posizione individuale, esercitando il riscatto il lavoratore riceverà l’ammontare della posizione individuale maturata nel periodo di adesione al fondo, costituita dai contributi versati da lui stesso e dal datore di lavoro nonché dal TFR destinato al fondo, e tenuto conto dei risultati della gestione finanziaria svolta.

5.6.- Il trattamento tributario di tale provento, inizialmente disciplinato in modo uniforme – come peraltro rileva la stessa difesa erariale – per i dipendenti pubblici e privati dal testo unico delle imposte sui redditi, risponde ad alcuni principi con cui il legislatore ha informato la materia: la deducibilità dal reddito imponibile dei contributi destinati alla previdenza complementare, entro un determinato importo; la esclusione del TFR trasferito alle forme di previdenza complementare dal reddito da lavoro dipendente imponibile dell’anno in cui è maturato; la tassazione dei rendimenti della gestione finanziaria del fondo pensione direttamente in capo a questo, con conseguente esenzione di tale componente reddituale dall’imponibile della prestazione erogata all’aderente.

La disciplina tributaria originariamente prevista per il riscatto della posizione di previdenza complementare sanciva, quindi, l’assimilazione di tale reddito a quelli di lavoro dipendente, così come in via generale per tutte le “prestazioni pensionistiche di cui al D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124, comunque erogate” (art. 50, comma 1, lettera h-bis, t.u. imposte redditi). Lo specifico criterio di tassazione del riscatto dipendeva dalla sua causale e le somme erogate erano considerate imponibili al netto dei redditi già assoggettati a imposta (artt. 20, comma 1, e 52, comma 1, lettera d-ter, t.u. imposte redditi), ossia dei contributi destinati a previdenza complementare non in precedenza dedotti dal lavoratore e dei rendimenti conseguiti durante la gestione (sottoposti a tassazione in capo al fondo pensione).

6.- È solo con il D.Lgs. n. 252 del 2005 che i regimi tributari del riscatto si differenziano.

Quest’ultimo, infatti, modificando la disciplina della previdenza complementare, ha mantenuto all’art. 14 la previsione generale secondo cui, ove vengano meno i requisiti di partecipazione alle forme pensionistiche, gli statuti e i regolamenti delle stesse devono consentire il riscatto, in alternativa al trasferimento della posizione ad altra forma pensionistica.

Il trattamento fiscale del riscatto, non più contenuto nel t.u. imposte redditi, è stato disciplinato dal medesimo D.Lgs. n. 252 del 2005: artt. 14, commi 4 e 5, e 11, comma 6.

Il regime impositivo introdotto dal D.Lgs. n. 252 del 2005 prevede che la prestazione erogata dal fondo pensione venga tassata con una ritenuta a titolo d’imposta e, quindi, in maniera distinta rispetto agli altri redditi del percipiente e senza concorrere a determinarne il reddito complessivo.

Tuttavia, tale regime, come rilevato dal giudice rimettente, non si applica a tutti gli aderenti a forme pensionistiche complementari.

Infatti, se per un verso l’art. 21, comma 8, del D.Lgs. n. 252 del 2005 ha, in via generale, abrogato il D.Lgs. n. 124 del 1993, per altro verso, il censurato successivo art. 23, comma 6, ha disposto che “fino all’emanazione del decreto legislativo di attuazione dell’articolo 1, comma 2, lettera p), della L. 23 agosto 2004, n. 243, ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, si applica esclusivamente ed integralmente la previgente normativa”.

Con quest’ultima disposizione il legislatore delegato – prendendo atto della ormai sopraggiunta scadenza del termine di attuazione della delega contenuta nella menzionata lettera p) dell’art. 1, comma 2, della L. n. 243 del 2004 – ha quindi esplicitato che ai dipendenti pubblici dovesse applicarsi esclusivamente e integralmente la previgente normativa.

La individuazione della specifica disciplina applicabile avviene, quindi, in ragione della natura del rapporto di lavoro dell’aderente a una forma di previdenza complementare e, precisamente, a seconda che egli dipenda da un’amministrazione pubblica o da un datore di lavoro privato.

Dal 1 gennaio 2007, data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 252 del 2005, per effetto della mancata attuazione dei principi e criteri direttivi di cui all’art. 1, comma 2, lettera p), della L. n. 243 del 2004, si è dunque originata una distinzione di disciplina con riferimento a vari istituti della previdenza complementare, tra cui il riscatto di una posizione individuale e il connesso regime tributario.

Qui non è in questione l’esercizio incompleto della delega, che non comporterebbe di per sé violazione degli articoli 76 e 77 Cost., ove non determinasse “uno stravolgimento della legge di delegazione” (sentenza n. 149 del 2005 e ordinanza n. 283 del 2013). La fattispecie in esame, infatti, è esclusivamente l’effetto riflesso della parziale attuazione della delega, che ha condotto al risultato normativo di discriminare due fattispecie caratterizzate da una sostanziale omogeneità, con violazione del principio dell’eguaglianza tributaria e una conseguente incidenza sul contesto sociale.

7.- La ricostruzione del quadro normativo evidenzia, infatti, che non sono individuabili elementi che giustifichino ragionevolmente una disomogeneità del trattamento fiscale agevolativo. Tale conclusione trova, peraltro, conferma nella stessa evoluzione legislativa che ha sempre mantenuto equiparate le due posizioni, salva l’eccezione – concretizzatasi nella normativa del D.Lgs. n. 252 del 2005 – derivante dalla parentesi dovuta alla mancata attuazione di una parte della legge delega n. 243 del 2004. È inoltre significativo che lo stesso legislatore, con l’art. 1, comma 156, della L. n. 205 del 2017, abbia successivamente provveduto – pur con l’eccezione dei montanti delle prestazioni accumulate fino al 1 gennaio 2018 – a ristabilire una situazione di omogeneità di trattamento.

8.- A un diverso esito non possono condurre le argomentazioni dell’Avvocatura generale.

8.1.- Sotto un primo profilo, non sono conferenti il richiamo alla stabilità del rapporto di lavoro pubblico e al maggiore importo dei trattamenti pensionistici obbligatori percepiti dai dipendenti pubblici; e ciò in disparte l’assenza di un’adeguata dimostrazione di questa specifica affermazione.

Né l’uno né l’altro dei due caratteri sono, in ogni caso, in grado di offrire una valida ragione a sostegno della ragionevolezza della duplice disciplina del trattamento tributario del riscatto, quale prestazione pensionistica complementare: sia che venga percepita da un dipendente privato, sia che venga percepita da un dipendente pubblico. In entrambi i casi, infatti, la prestazione sottoposta a tassazione è composta da contributi a carico del lavoratore, del datore di lavoro e dal TFR maturato nel periodo di adesione al fondo.

A fronte di tale dato, se si può affermare che la durata del rapporto di lavoro (specialmente ove a tempo indeterminato) e le garanzie di stabilità influiscono sul complessivo funzionamento della previdenza complementare per i lavoratori dipendenti, basato sulla continuità dei conferimenti e sulla durata della gestione a capitalizzazione, quegli stessi elementi sono inidonei a integrare un valido criterio di differenziazione dei lavoratori quali soggetti passivi del rapporto tributario. Ciò in quanto la stabilità del rapporto di lavoro non è carattere indefettibile ed esclusivo del settore pubblico; peraltro la disciplina tributaria rimane diversa anche quando l’aderente sia un dipendente pubblico assunto a tempo determinato.

Quanto all’entità del trattamento pensionistico riconosciuto dal sistema di previdenza obbligatorio, l’argomento dell’Avvocatura sembra fare riferimento al più favorevole criterio di determinazione della pensione secondo il sistema retributivo; si tratta, però, di una prospettiva fallace perché i dipendenti pubblici che possono aderire a un fondo pensione sono coloro ai quali fin dall’inizio del loro rapporto di lavoro si applicano sia il regime di TFR, sia il nuovo sistema di calcolo contributivo delle pensioni, introdotto dalla L. n. 335 del 1995, al pari dei dipendenti privati. Venendo in rilievo per entrambe le categorie di lavoratori il medesimo criterio di quantificazione del trattamento pensionistico obbligatorio, cade il presupposto su cui dovrebbe poggiarsi la giustificazione del differente trattamento tributario delle prestazioni di previdenza complementare in ragione della natura pubblica o privata del rapporto di lavoro dell’aderente.

8.2.- Sotto un secondo profilo, ad avviso dell’Avvocatura la non irragionevolezza della scelta del legislatore delegato deriverebbe dalle vicende che hanno portato alla progressiva estensione al settore pubblico del TFR, partendo dalla diversa disciplina ed entità del trattamento di fine servizio (TFS), e dalla differente modalità di accantonamento del TFR stesso.

Anche tale approccio non coglie la specificità delle questioni sollevate: il tempo occorso per introdurre il TFR nel settore dell’impiego pubblico ha condotto alla disciplina contenuta nei D.P.C.M. 20 dicembre 1999 e 2 marzo 2001 che questa Corte ha ritenuto costituire un “punto di equilibrio individuato dal legislatore e dalle parti negoziali, secondo un bilanciamento non irragionevole” tra lavoratori in regime di TFR e lavoratori in regime di TFS, all’esito di un “laborioso processo di armonizzazione e della necessaria gradualità che lo ha governato” (sentenza n. 213 del 2018). Ciò premesso, la conseguita possibilità per i lavoratori pubblici di accedere alla previdenza complementare, con la ulteriore significativa incentivazione a favore di quelli che, ancora in regime di TFS, ritengano più conveniente l’opzione per il TFR, esclude che i profili evidenziati dalla difesa dello Stato possano tuttora assumere rilievo quali indici della legittima differenziazione del suddetto trattamento tributario.

Con particolare riguardo al meccanismo di accantonamento del TFR dei dipendenti pubblici, se questo – per esigenze di contenimento delle risorse pubbliche – implica una temporanea “sottrazione” di fonti di finanziamento che i fondi pensione potrebbero altrimenti gestire direttamente, la sua disciplina non influisce però sulla quantificazione della posizione individuale maturata dall’aderente. Infatti, come illustrato (supra, punto 5.2.), ferma rimanendo la destinazione al finanziamento della previdenza complementare impressa anche al TFR fin dall’adesione al fondo pensione, al momento della cessazione del rapporto di lavoro pubblico l’istituto gestore (oggi l’INPS) trasferisce al fondo il montante del TFR maturato, applicandovi lo stesso tasso di rendimento conseguito dal fondo nella gestione dell’altra componente della posizione individuale, costituita dai contributi periodici.

Pertanto l’aderente che, al venir meno dei requisiti di partecipazione al fondo, eserciti il riscatto della posizione individuale maturata, vedrà quest’ultima calcolata allo stesso modo, sia se dipendente pubblico, sia se dipendente privato.

In conclusione, la peculiare modalità di gestione del TFR pubblico, mediante un accantonamento virtuale in costanza di rapporto di lavoro, non è idonea a differenziare dal punto di vista funzionale la posizione individuale maturata in un fondo pensione da un dipendente pubblico rispetto a quella maturata da un dipendente privato e, di conseguenza, a giustificare un differente regime tributario del riscatto della posizione medesima.

9.- Per le esposte considerazioni, la disposizione censurata deve essere dichiarata costituzionalmente illegittima per violazione dell’art. 3 Cost. nella parte in cui assoggetta ad imposta il riscatto della posizione individuale ai sensi dell’art. 52, comma 1, lettera d-ter), del D.P.R. n. 917 del 1986, anziché ai sensi dell’art. 14, commi 4 e 5, del D.Lgs. n. 252 del 2005. Risulta pertanto assorbita la censura relativa all’art. 53 Cost.

Non appare necessario estendere, come invece richiesto dalla parte privata, la dichiarazione di incostituzionalità anche al terzo periodo dell’art. 1, comma 156, della L. n. 205 del 2017, con cui il legislatore ha disciplinato anche i rapporti di previdenza complementare in corso a quella data; la tecnica normativa utilizzata, basata su un rinvio alle “disposizioni previgenti”, è infatti di per sé idonea, all’esito del presente giudizio, a rendere applicabile l’art. 14, commi 4 e 5, del D.Lgs. n. 252 del 2005, anche ai montanti delle prestazioni accumulate fino al 1 gennaio 2018 e successivamente oggetto di riscatto.

P.Q.M.

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 23, comma 6, del D.Lgs. 5 dicembre 2005, n. 252 (Disciplina delle forme pensionistiche complementari), nella parte in cui prevede che il riscatto della posizione individuale sia assoggettato a imposta ai sensi dell’art. 52, comma 1, lettera d-ter), del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi), anziché ai sensi dell’art. 14, commi 4 e 5, dello stesso D.Lgs. n. 252 del 2005.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15 luglio 2019.

Depositata in Cancelleria il 3 ottobre 2019.

Legittimo il mantenimento della trattenuta del 2,5% per il lavoratore al passaggio dal TFS al TFR.

Corte di Cassazione
Sezione Lavoro
Sentenza n. 23115 del 17/9/2019
Pubblico impiego – fondo espero – passaggio volontario da TFS a TFR – sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 26 comma 19 L. 448/1998 – conseguente richiesta rimborso dell’importo del 2,50 mensile trattenuto sullo stipendio – rigetto del ricorso  


La Corte respinge il ricorso di una lavoratrice che, passata volontariamente dal regime di TFS a quello di TFR, chiedeva la ripetizione dell’importo del 2,50 mensile trattenuto sullo stipendio in ragione del disposto dell’art. 26 comma 19 della legge n. 448/1998, articolo di cui la ricorrente chiedeva, preliminarmente, che fosse sollevata questione di illegittimità costituzionale. Gli Ermellini infatti ricordano che: “La problematica posta …è stata esaminata dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 213 del 2018, che ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 26, comma 19, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, per violazione degli artt. 3 e 36 Cost., nella parte in cui, nel disciplinare il passaggio dei lavoratori alle dipendenze delle PP.AA. dal trattamento di fine servizio al trattamento di fine rapporto, ha demandato a un D.P.C.M. il compito di definire, ferma restando l’invarianza della retribuzione complessiva netta e di quella utile ai fini pensionistici, gli adeguamenti della struttura retributiva e contributiva conseguenti all’applicazione del trattamento di fine rapporto. La Consulta ha argomentato che il principio dell’invarianza della retribuzione netta, con i meccanismi perequativi tratteggiati in sede negoziale, mira proprio a garantire la parità di trattamento, nell’àmbito di un disegno graduale di armonizzazione, e non contrasta, pertanto, con il principio di eguaglianza, né determina la violazione del diritto a una retribuzione sufficiente e proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro prestato, in ragione del trattamento complessivo previsto e non già della ponderazione di una sua singola componente.”  

La sentenza:

Cassazione Civile Sezione Lavoro 17-09-2019, n. 23115

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente –

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 13935/2016 proposto da:

L.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA VENUTI 30, presso lo studio dell’avvocato SILVIA CRETELLA, rappresentata e difesa dall’avvocato MARIO CRETELLA;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ISTRUZIONE, DELL’UNIVERSITA’ E DELLA RICERCA, C.F. (OMISSIS), in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia in ROMA, ALLA VIA DEI PORTOGHESI 12, ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1376/2015 della CORTE D’APPELLO di SALERNO, depositata il 20/11/2015 R.G.N. 449/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 13/06/2019 dal Consigliere Dott. ROSSANA MANCINO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELESTE Alberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato MARIO CRETELLA.

Svolgimento del processo

1. L.A. ha adito il Tribunale di Nocera inferiore e, premesso di essere dipendente a tempo indeterminato del MIUR in regime di TFR in virtù dell’opzione contrattuale esercitata con l’adesione al cosiddetto “fondo espero” che consentiva, appunto, il passaggio volontario dei dipendenti in regime di TFS al regime di TFR, chiedeva la ripetizione dell’importo del 2,50% mensile che assumeva illegittimamente trattenuto sul proprio stipendio in quanto non più giustificato.

2. La Corte d’appello di Salerno, in riforma della sentenza del tribunale, rigettava la domanda. Argomentava che la trattenuta operata dal Ministero era da considerarsi legittima perchè prevista dalla normativa risultante dalla L. n. 448 del 1998, art. 26, comma 19, e dal successivo D.P.C.M. 20 dicembre 1999.

3. Avverso la sentenza L.A. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, cui ha resistito il MIUR con controricorso.

Motivi della decisione

4. Con i motivi di ricorso la ricorrente deduce, in via pregiudiziale, la questione di legittimità costituzionale della L. n. 448 del 1998, art. 26, comma 19, per violazione degli artt. 3 e 36 Cost.. Sostiene che tale disposizione, dalla quale è promanato il D.P.C.M. del 20/12/1999 – che stabilisce al comma tre che per assicurare l’invarianza della retribuzione netta complessiva e di quella utile ai fini previdenziali dei dipendenti nei confronti dei quali si applica quanto disposto dal comma due, la retribuzione lorda viene ridotta in misura pari al contributo previdenziale obbligatorio soppresso e contestualmente viene stabilito un recupero in misura pari alla riduzione attraverso un corrispondente incremento figurativo ai fini previdenziali – confliggerebbe con i richiamati precetti costituzionali.

5. Deduce, quindi, violazione e falsa applicazione dell’art. 437 c.p.c., comma 2, in combinato disposto con l’art. 112 c.p.c., e lamenta che la sentenza gravata abbia omesso di valutare l’eccezione sollevata nella memoria difensiva in appello che rilevava come con la difesa innanzi al giudice di prime cure il MIUR si fosse limitato ad eccepire l’estinzione del giudizio ai sensi del D.L. n. 185 del 2012, e della L. n. 228 del 2012, senza contrastare la domanda sulla base della normativa poi applicata nella sentenza gravata.

6. Infine, deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 36 Cost., e dell’art. 2120 c.c., e lamenta che la Corte territoriale abbia ritenuto legittima l’applicazione di una norma contenuta in un provvedimento di natura regolamentare, che riproduce il contenuto della legge oggetto della pronuncia di incostituzionalità contenuta nella sentenza n. 223 del 2012.

7. Il ricorso non è fondato.

Con riguardo al secondo motivo, da esaminarsi per primo in quanto logicamente preliminare, basta qui ribadire che il giudice ha il potere-dovere di qualificare giuridicamente i fatti posti a base della domanda o delle eccezioni e di individuare le norme di diritto conseguentemente applicabili, anche in difformità rispetto alle indicazioni delle parti, incorrendo nella violazione del divieto di ultrapetizione soltanto ove sostituisca la domanda proposta con una diversa, modificandone i fatti costitutivi o fondandosi su una realtà fattuale non dedotta e allegata in giudizio dalle parti (Cass. n. 13945 del 03/08/2012, n. 5153 del 21/02/2019). Correttamente quindi la Corte d’appello ha sottoposto al proprio vaglio la correttezza della soluzione adottata dal Tribunale, a ciò investita dall’appello del MIUR che la contestava, senza che tale facoltà fosse preclusa al Ministero dalle difese in diritto assunte in primo grado.

8. La problematica posta con gli altri due motivi è stata esaminata dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 213 del 2018, che ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale della L. 23 dicembre 1998, n. 448, art. 26, comma 19, per violazione degli artt. 3 e 36 Cost., nella parte in cui, nel disciplinare il passaggio dei lavoratori alle dipendenze delle PP.AA. dal trattamento di fine servizio al trattamento di fine rapporto, ha demandato a un D.P.C.M. il compito di definire, ferma restando l’invarianza della retribuzione complessiva netta e di quella utile ai fini pensionistici, gli adeguamenti della struttura retributiva e contributiva conseguenti all’applicazione del trattamento di fine rapporto. La Consulta ha argomentato che il principio dell’invarianza della retribuzione netta, con i meccanismi perequativi tratteggiati in sede negoziale, mira proprio a garantire la parità di trattamento, nell’ambito di un disegno graduale di armonizzazione, e non contrasta, pertanto, con il principio di eguaglianza, nè determina la violazione del diritto a una retribuzione sufficiente e proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro prestato, in ragione del trattamento complessivo previsto e non già della ponderazione di una sua singola componente.

9. Segue coerente il rigetto del ricorso.

10. Le spese, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

11. Sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 1.200,00 per compensi professionali, oltre Euro 200,00 per esborsi, oltre quindici per cento spese generali e altri accessori di legge. Ai sensi del D.Lgs. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 13 giugno

Pubblica Amministrazione, Digitalizzazione, Smart Working – temi che interessano i quadri

Pubblico Impiego, digitalizzazione, Smart Woking – temi che interessano i profili apicali quadri e alte professionalità nell’ambito del pubblico impiego

CNEL
Conferenza conclusiva del progetto internazionale “Improving work-life balance: opportunities and risks coming from digitalization”
Segnalazione da U.O. Studi e analisi compatibilità
Il Presidente del CNEL prof. Tiziano Treu, alla presenza del Ministro della Pubblica Amministrazione Fabiana Dadone ha presenziato la conferenza finale del progetto europeo “Improving work-life balance: opportunities and risks coming from digitalization”, del Comitato Settoriale Europeo sul Dialogo Sociale per le Amministrazioni Pubbliche Centrali. I lavori del Comitato, coordinato dal dr. Valerio Talamo, Direttore generale dell’Ufficio relazioni sindacali del Dipartimento della funzione pubblica, si sono tradotti nel rapporto finale in cui si analizzano opportunità’ e rischi che si manifestano con l’introduzione delle nuove modalità’ di lavoro nelle pubbliche amministrazioni generate dalla rivoluzione digitale in corso. “La ricerca comparata presentata in Parlamentino costituisce un momento rilevante perché il CNEL è impegnato su questo fronte. I nostri Rapporti sul Mercato del Lavoro includono anche il pubblico impiego. Per questo, forniremo al ministro una serie di contratti collettivi che sono interessanti perché integrano la norma di legge, in modo da rendere lo smart working non solo utile ma anche sostenibile umanamente”, ha affermato, concludendo il Presidente Treu. Il Ministro Dadone ha quindi ribadito che “Bisogna incoraggiare la svolta verso una visione del lavoro che sostituisca l’idea dello scambio tra presenza fisica e salario con quella dell’obiettivo e della responsabilità…… La tecnologia in questo può essere decisiva. Tutte le ricerche dimostrano che forme di smart working e lavoro agile accrescono la soddisfazione professionale, il senso di appartenenza e, dunque, il rendimento, la produttività del lavoro”.

>Chi tutela la specificità delle categorie professionali, come quadri, ricercatori, lavoratori parasubordinati?

  1. La Convenzione.

E’ stata stipulata tra soggetti di matrice e funzione molto diversa, da una parte Ispettorato del lavoro soggetti pubblici istituzionali e dall’altra parte Confindustria, Cgil Cisl e Uil, soggetti importanti, ma non unici, del mondo sindacale.

Nell’ambito della convenzione è ritenuta fondamentale l’importanza della rappresentatività sindacale e del monitoraggio della contrattazione collettiva.

Si lega pertanto l’attività di contrattazione di per sé libera ed autonoma anche in forza dei principi costituzionali espressi dall’articolo 39 della Costituzione ed in assenza di una sua attuazione, al monitoraggio di Confindustria e di due enti pubblici di cui l’Ispettorato del Lavoro delegato a compiti di controllo ed investigazione sui numerosi illeciti in materia di lavoro e che spesso lamenta carenze di organico. Dall’altra parte Confindustria che rappresenta solo parzialmente i datori di lavoro, basti pensare, alle miriadi di piccole e medie aziende del nostro territorio, e Cgil, Cisl, Uil organizzazioni sindacali generalisti e ricollegabili in qualche modo a correnti di pensiero politico sociale non integralmente rappresentate da queste ultime organizzazioni.

L’oggetto dell’attività concordata è dato dalla certificazione della rappresentatività delle organizzazioni sindacali ai fini della contrattazione.

Per definire il livello di rappresentatività si ricorre ad un duplice criterio costituito dal dato elettorale per le elezioni delle RSU, dove in molti casi possono operare in azienda le RSA in forza dell’articolo 19 dello Statuto dei Lavoratori, da una parte e dall’altra dal dato associativo ricavato dalle deleghe date dai singoli dipendenti al datore di lavoro dove in molti casi è ancora aperta la questione del diritto delle organizzazioni sindacali minori ad ottenere il pagamento mediante delega.

I dati confluiscono poi in una banca dati tenuta dall’Inps ed affidati ad un apposito comitato di gestione.

  • Gli antecedenti.

Il riferimento va in primo luogo all’accordo interconfederale tra Confindustria, Cgil, Cisl, e Uil del 28 giugno 2011 che già prevedeva una simile procedura e simile contenuto, ma non vedeva tra i firmatari INPS ed Ispettorato del Lavoro, pur riferendosi ad accertamenti dell’Inps e prevedeva un ruolo per il Cnel come punto di raccolta e di esame dei dati.

L’accordo prevedeva inoltre tutta una serie di limitazioni tra cui la possibilità di sottoposizione a referendum per i contratti stipulati dalle sole RSA.

Di seguito, in data 10 gennaio 2014, Confindustria, Cgil, Cisl e Uil redigevano un testo unico sulla Rappresentanza ai fini della contrattazione nazionale di categoria e sulle rappresentanze in azienda, nonché sull’efficacia della contrattazione collettiva nazionale di categoria e sulle procedure di raffreddamento in caso di conflitti sindacali.

Anche il testo unico qui menzionato prevedeva il coinvolgimento del Cnel nella raccolta dei dati e l’accertamento della rappresentatività in forza della media ponderale tra i risultati delle elezioni RSU.

Nella seconda parte (Regolamentazione delle Rappresentanze in Azienda), sono elencate tutta una serie di clausole atte a favorire la costituzione di RSU in luogo delle RSA stabilendo come, alla scadenza delle RSA il 50% dei dipendenti, sia sufficiente per il passaggio al regime delle RSU, quindi si richiama l’intero accordo interconfederale del 1993 per la costituzione delle RSU.

Nella parte concernente la contrattazione collettiva l’ammissione alla contrattazione è riservata alle organizzazioni sindacali firmatarie dell’accordo interconfederale del 28 giugno 2011 e del successivo protocollo del 31 maggio 2013 che abbiano, nell’ambito di applicazione del contratto collettivo nazionale di lavoro, una rappresentatività non inferiore al 5%, considerando a tale fine la media fra il dato associativo (percentuale delle iscrizioni certificate) e il dato elettorale (percentuale voti ottenuti su voti espressi).

Rappresentatività e Contratti Pirata.

Tra gli antefatti di questi interventi, troviamo la questione dei cosiddetti contratti pirata.

La questione è stata a lungo trattata anche a livello mediatico.

In data 17.7.2019, si teneva presso il Cnel un incontro di studio avente ad oggetto la dimensione e la qualità dei contratti collettivi. Vi partecipavano il presidente del Cnel professor Tiziano Treu, il sottosegretario al lavoro Luciano Cominardi, il presidente dell’Inps professor Pasquale Ytridico, il consigliere del Cnel dottor Claudio Lucifora ed il dirigente Inps Luciano Montaldi.

In quell’ambito era posta l’attenzione sul dumping sociale dato da contratti collettivi con minimi retributivi inferiori a quelli indicati dalla ordinaria contrattazione collettiva. Le soluzioni in quell’occasione erano individuate nell’introduzione del minimo contrattuale, nell’emanazione di una legge in merito alla rappresentatività sindacale, in una regolamentazione strettamente sindacale della rappresentatività ad evitare il fenomeno di questa tipologia di contratti.

Ne discendeva però aperta e favorita l’ipotesi di un deciso intervento legislativo in tema di salario minimo o di rappresentatività sindacale. Chi scrive sommessamente ritiene che un ferreo controllo delle clausole contrattuali essenziali ad introdurre minimi retributivi definiti pirata potrebbe evitare il fenomeno di questa contrattazione deteriore dal momento che presso il Cnel è stato creato un efficiente ed aggiornato archivio informatico dei contratti collettivi.

Effettivamente il livello particolarmente basso delle retribuzioni nel nostro paese costituisce un problema emergente e complesso di cui l’aspetto marcatamente evidente dei contratti pirata costituisce uno degli elementi.

Va notato che il nostro ordinamento già dispone di alcuni correttivi. Il primo è ravvisabile nella normativa previdenziale che stabilisce come i contributi debbano essere rapportati alla retribuzione prevista dalla legge o dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative avuto riguardo al settore merceologico di appartenenza del datore di lavoro (articolo 1, comma 1 DL 338 del 1989, articolo 2, comma 25, legge n.549 del 1995). Altro correttivo può essere individuato nella normativa degli appalti ove il committente può esigere l’applicazione di un contratto di settore che lo metta a riparo di eventuali richieste dell’Inps o di azioni dei singoli lavoratori. Molti contratti di settore stabiliscono poi l’obbligo per il committente di inserire nel contratto di appalto la clausola per l’applicazione di una determinata normativa contrattuale. In ogni caso, in sede legislativa è all’esame l’introduzione del cosiddetto salario minimo.

Inoltre il CNEL conserva una funzione nell’ambito del sistema di certificazione della rappresentatività sindacale.

Invece, alla presenza del Ministro Nunzia Catalfo Ministro del Lavoro proveniente proprio da quel movimento politico che aveva propugnato l’introduzione del salario minimo, era firmata la convenzione Ispettorato del Lavoro, Inps, Confindustria , Cgil, Cisl, Uil di cui si è parlato.

L’attivismo dell’Ispettorato del Lavoro.

Ancor prima, una simile soluzione era preconizzata dalla Circolare n.3/2018 dell’Ispettorato del Lavoro che prevedeva nell’identificare i contratti regolari e non aventi le caratteristiche dei contratti pirata, prevalentemente quelli stipulati dalle maggiori confederazioni del lavoro individuate in Cgil, Cisl, Uil, creando non pochi dissensi nell’ambito del composito mondo sindacale.

Di seguito, sempre l’Ispettorato del Lavoro con la circolare n.9 del 10 settembre 2019 evidenziava che i soggetti privi del requisito della maggiore rappresentatività in termini comparativi , non avrebbero potuto sottoscrivere contratti collettivi idonei ed efficaci a rispettare le deleghe ricevute dalle seguenti disposizioni di legge:

− disciplinare aspetti legati alle tipologie contrattuali – art. 51 del D.Lgs. n. 81/2015;

− integrare o derogare alla disciplina del D.Lgs. n. 66/2003 in materia di tempi di lavoro;

− sottoscrivere i “contratti di prossimità” di cui all’art. 8 del D.L. n. 138/2011;

− costituire enti bilaterali – accezione nella quale rientrano anche le Casse edili – che possano svolgere le funzioni assegnate dall’art. 2, comma 1 lett. h), del D.Lgs. n. 276/2003 ( Roberto Camera , Stop ai CCNL Pirata Ipsoa 20.9.2019).

Elementi di criticità.

Nel nome di questa ritenuta emergenza, si è voluto intervenire non con la selezione dei contratti mediante criteri oggettivi, ma sulla base di criteri soggettivi di difficile attuazione sulla selezione dei soggetti che stipulano i contratti, toccando così il delicato tema della rappresentatività sindacale.

Il primo ostacolo che affronta chi si pone l’obiettivo di percorrere questa strada è dato dall’estrema complessità e variabilità che assume il concetto di rappresentatività. Essa assume forma complessa e mutevole e compendia criteri desunti dalle dinamiche sociali e dalla capacità del sindacato di esprimere o compendiare gli interessi del gruppo sociale assunto come proprio riferimento. Dunque, il primo ostacolo che deve affrontare che si pone l’obiettivo di fissare un concetto stabile di rappresentatività è quello di tener conto della variabilità e delle molteplici funzioni di questo concetto.

A tale scopo l’articolo 39 della Costituzione prefigura a parte l’obbligo di registrazione del sindacato e di assumere al proprio interno regole democratiche, un principio di totale libertà sindacale affidato alla reciproca volontà delle parti nei limiti stabiliti dalla legge.

La Corte Costituzionale nell’ambito dei numerosi interventi che si sono avvicendati nel tempo sul tema, ha adottato criteri di rappresentatività diversificati a seconda dei campi di intervento ove il sindacato era chiamato ad operare.

La costante evoluzione socio economica che accompagna la vita nazionale e l’attività del sindacato, rende quanto mai complesso il compito di elaborare uno stabile e generale concetto di rappresentatività.

I ripetuti interventi sul tema della rappresentatività del Giudice delle Leggi hanno messo in luce di volta in volta concetti e riferimenti differenziati ad evidenziare il concetto di rappresentatività.

Tramontato a seguito del referendum del 1995 il concetto di rappresentatività generale della confederazioni sindacali con l’abolizione del comma 1 dell’articolo 19 legge 300/70, il Giudice delle leggi si è attestato su di un concetto di rappresentatività testato nell’ambito del dialogo o dello scontro aziendale da ultimo con la sentenza n.231/2013.

Ne deriva ad avviso di chi scrive l’intangibilità del riconoscimento delle prerogative aziendali delle RSA anche di fronte all’accordo interconfederale che costituiva le RSU e ne disciplinava l’elezione, e la persistenza di un doppio binario di rappresentanza sindacale costituito da una parte dal dato elettorale e dall’altra dall’efficace dialogo o conflitto contrattuale. Un tanto ha confermato la Corte Costituzionale stante l’attuale disciplina legislativa.

La stessa Carta di Nizza all’articolo 28 ribadisce il diritto per i lavoratori ed i datori di lavoro a negoziare ed a concludere contratti collettivi.

Spetta al legislatore conclude infatti la Consulta, individuare i criteri di rappresentatività , magari valorizzando l’indice di rappresentatività costituito dal numero degli iscritti o introducendo un obbligo a trattare con le organizzazioni sindacali che superino una determinata soglia di sbarramento, oppure attribuendo al requisito previsto dall’articolo 19 dello Statuto dei Lavoratori del carattere di rinvio generale al sistema contrattuale e non al singolo contratto collettivo applicato nell’unità produttiva, o attraverso il riconoscimento del diritto di ciascun lavoratore ad eleggere rappresentanze sindacali nei luoghi di lavoro.

Nel frattempo ed in assenza di ulteriore regolamentazione legale la maggiore rappresentatività è data da diversi e non sempre concorrenti dati e criteri come la partecipazione al CNEL , la effettiva partecipazione alla formazione dei contratti, la composizione delle controversie di lavoro, la considerazione dell’esistenza sul campo di diverse categorie merceologiche e di tutte le categorie di lavoratori indicati all’articolo 2095 del codice civile.

Va anche precisato che ad oggi non sussiste alcun obbligo per le aziende di trasmettere i dati sull’adesione ai singoli sindacati, restando comunque fuori da ogni accordo le aziende più piccole che non sono iscritte ad alcuna organizzazione sindacale datoriale.

Un ulteriore elemento di novità, ma anche di criticità è dato dall’inserimento nell’accordo sindacale di alcuni attori istituzionali di natura pubblica, non tanto il CNEL organo collegiale deputato a rappresentare le istanze socio economico cui del resto è affidata esclusivamente la tenuta della banca dati contrattuale, quanto piuttosto dell’INPS e dell’Ispettorato del Lavoro.

Si dubita che queste due ultime amministrazioni possano dar luogo ad una selezione delle organizzazioni rappresentative in assenza di una norma di legge che le deleghi a ciò e stante la scelta in senso ampio politica di un accordo sindacale che involge soltanto determinati soggetti e le loro connotazioni di politica sindacale e sociale. L’attività dedotto appare non rientrare nei compiti principali di queste amministrazioni che spesso tra l’altro lamentano carenza di mezzi e di personale ed una certa assenza nei controlli sul lavoro. Il coinvolgimento dell’INPS appare in netto contrasto con i fini istituzionali dell’ente espressamente indicati agli articoli 3 e 4 della legge istitutiva n.1827/1935.

Anche il principio costituzionale di imparzialità della Pubblica Amministrazione di cui all’articolo 97 della Costituzione ne appare messo in dubbio.

La discriminazioni di particolari categorie di lavoratori.

Va pure tenuto presente come un accordo per la rappresentatività che si basi solo su dati numerici, appare penalizzante in maniera quasi discriminatoria per quelle categorie di lavoratori che indicate specificamente all’articolo 2095 del codice civile, come i quadri, sono portatrici di istanze non sempre collimanti con quelle di operai ed impiegati.

Quindi anche a voler accettare la rappresentatività in base agli accordi che privilegiano il dato numerico, si dovrebbero comunque individuare delle specifiche misurazioni di rappresentatività in funzione della naturale limitatezza numerica di tali ambiti professionali.

In proposito giova tener presente come la legge 30.12.1986 (norme sul Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro) all’articolo 2 (composizione del Consiglio nazionale dell’Economia e del Lavoro) nell’individuare i rappresentanti delle categorie produttive stabilisce apposita rappresentanza dei quadri.

Va ricordato inoltre l’articolo 9 del DLGS 22.6.2012 n.113 che traduce la direttiva europea sui Comitati Aziendali Europei, laddove prevede al comma 2 punto b) in merito alla composizione del Cae come nel determinare il numero dei membri si debba rispettare una distribuzione dei seggi, che consenta di tener conto, per quanto possibile, della necessità di una rappresentanza equilibrata dei lavoratori in base alle attività, alle categorie di lavoratori e al sesso, e la durata del mandato.

Ancor più preciso il successivo comma 6 laddove prevede che I componenti del Cae o i titolari della procedura di informazione e consultazione sono designati per un terzo dalle organizzazioni sindacali di cui all’articolo 5, comma 1, e per due terzi dalle rappresentanze sindacali unitarie dell’impresa ovvero del gruppo di imprese nell’ambito delle medesime rappresentanze

Eguale attenzione meriterebbero poi i lavoratori para subordinati ed in particolare le collaborazioni coordinate dal committente che l’articolo 2 del Dlgs 81/2015 assimila per numerosi aspetti al contratto di lavoro subordinato.

Fabio Petracci.

Si può privare il Segretario Comunale delle funzioni prima della scadenza del mandato?

Cassazione civile Sezione  Lavoro, Sentenza  02-08-2019, n. 20842

Segretario Comunale privazione dell’incarico prima della scadenza del medesimo – diritto alla reintegra insussistenza – diritto al risarcimento del danno sussiste in presenza di adeguati elementi probatori.

La Corte di Cassazione con la recente sentenza di seguito trascritta svolge tutta una serie di considerazioni in merito alla peculiarità del rapporto di lavoro dei segretari comunali.

In forza di tale specialità e del rapporto strettamente fiduciario che lega il segretario al vertice dell’amministrazione, la Corte ritiene che la professionalità del segretario comunale debba trovare tutela nell’ambito del rapporto temporale che lo lega all’amministrazione e che nel caso di privazione delle funzioni questi non possa chiedere la reintegra nelle funzioni , ma esclusivamente nel danno la cui prova non è in re ipsa, ma deve essere oggetto di dimostrazione.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 02-08-2019, n. 20842

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 25859-2014 proposto da:

F.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE GIULIO CESARE 61, presso lo studio dell’avvocato VINCENZO CALARCO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIOVANNI CAGLIANONE;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI BOLTIERE, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MARIA CRISTINA 8, presso lo studio dell’avvocato GOFFREDO GOBBI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato YVONNE MESSI;

– MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia ex lege in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI, 12;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 252/2014 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il 03/06/2014 R.G.N. 395/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 23/05/2019 dal Consigliere Dott. CATERINA MAROTTA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CIMMINO ALESSANDRO, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato NORBERTO MANENTI per delega Avvocato GIOVANNI CAGLIANONE;

udito l’Avvocato GOFFREDO GOBBI.

Svolgimento del processo

1. F.M., nominata segretario comunale del Comune di Boltiere in data 26 febbraio 2005, si vedeva revocare tale incarico in data 12 settembre 2006, ben prima della sua naturale scadenza (2009), per violazione dei doveri d’ufficio ai sensi del D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 100, del D.P.R. n. 465 del 1997, art. 15 e dell’art. 18 del c.c.n.l. di categoria.

Con ricorso al Tribunale di Brescia, proposto nei confronti del Comune di Boltiere e del Ministero dell’Interno, la F. impugnava detta revoca chiedendo la reintegrazione nelle funzioni, il pagamento delle retribuzioni maturate medio tempore ed il risarcimento degli ulteriori danni patrimoniali e non patrimoniali subiti per effetto della revoca illegittima.

2. Il Tribunale annullava il provvedimento di revoca, respingeva la domanda di reintegrazione e accoglieva solo parzialmente quella risarcitoria (riconoscendo un quantum di danno patrimoniale ridotto rispetto a quello preteso e, quanto al profilo non patrimoniale, attribuendo il danno solo in relazione al pregiudizio all’integrità psico-fisica).

3. La decisione era confermata dalla Corte d’appello di Brescia.

La Corte territoriale dichiarava preliminarmente l’inammissibilità dell’appello notificato anche al Ministero dell’Interno senza che vi fossero censure nella parte in cui il giudice di primo grado aveva espressamente escluso ogni responsabilità in capo all’Agenzia Autonoma, assolvendola da ogni pronuncia di condanna.

Quindi rigettava l’impugnazione incidentale del Comune di Boltiere ritenendo che l’insussistenza dei presupposti per la revoca emergesse da una serie di significativi e concordanti elementi.

Quanto all’appello della F., riteneva infondata la pretesa volta ad ottenere la reintegra considerando che la Giunta Municipale era decaduta in data 7/6/2009 e che si trattava di nomina di durata corrispondente a quella del mandato del Sindaco.

Rilevava che l’appellante avesse configurato il danno alla professionalità in dipendenza della sola privazione delle mansioni di segretario comunale e che fossero mancate deduzioni di circostanze concrete atte a dimostrare la sussistenza di un danno risarcibile. Precisava, al riguardo, che il segretario comunale revocato o comunque privo di incarico è posto a disposizione dell’Agenzia autonoma per le attività dell’Agenzia stessa nonchè per incarichi di supplenza o di reggenza ovvero per altre funzioni ed evidenziava che le circostanze che la F. non avesse rivestito più incarichi di segretario comunale, salvo alcune supplenze o reggenze, e fosse stata poi posta in mobilità e infine transitata presso la Prefettura di Bergamo, con cancellazione dall’Albo dei Segretari comunali, non costituissero conseguenza immediata e diretta della perdita dell’incarico o comunque non costituissero prova del verificarsi in concreto di un danno alla professionalità. Sottolineava che anche il mancato conferimento di convenzioni con altri Comuni fosse dipeso da decisioni che involgevano esclusivamente la responsabilità dei Comuni medesimi.

Quanto alle altre voci di danno esistenziale riteneva che la modestissima percentuale di danno biologico accertata (4-5%) non consentisse, in assenza di specifiche deduzioni di ritenere provato che la revoca avesse comportato anche un radicale peggioramento a titolo definitivo delle abitudini di vita della lavoratrice.

Escludeva la fondatezza delle rivendicazioni relative alla retribuzione di risultato ed alla maggiorazione della retribuzione di posizione essendo mancata, quanto alla prima di dette voci, la prova che qualora l’incarico non fosse stato revocato gli obiettivi sarebbero stati raggiunti, non potendo identificarsi l’elevata probabilità del raggiungimento con l’accertata assenza di una violazione dei doveri d’ufficio a base delle revoca e rilevando, quanto alla maggiorazione della retribuzione di posizione, che non avesse l’appellante dimostrato la sussistenza delle condizioni per l’attribuzione nella misura massima richiesta (e cioè l’esistenza di risorse disponibili e le capacità generali) dovendo altresì essere escluso che nel corso del rapporto tale maggiorazione fosse stata già corrisposta nella misura rivendicata.

Quantificava le differenze spettanti a titolo di danno patrimoniale in Euro 41.896,32 e riteneva nuova la questione, posta dall’appellante, del mantenimento del trattamento in godimento non solo fino alla scadenza dell’incarico ma anche per il biennio successivo.

4. Per la cassazione della sentenza F.M. ha proposto ricorso sulla base di sette motivi ai quali hanno opposto difese il Comune di Boltiere e il Ministero dell’Interno.

5. Il Comune di Boltiere ha depositato memoria.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia nullità della sentenza o del procedimento ex art. 360 c.p.c., n. 4, violazione degli artt. 342, 348 bis, 348 ter, 434, 436 bis e 437 c.p.c. in relazione alla dichiarazione di inammissibilità dell’appello nei confronti del Ministero dell’Interno.

Rileva che nella sentenza di primo grado l’estraneità del Ministero era stata affermata solo in relazione alla condanna al risarcimento del danno mentre tale Ministero era stato evocato in giudizio in appello in relazione alla domanda di reintegrazione poichè senza la presenza in giudizio di tale Ministero ogni statuizione di reintegrazione rivolta al solo Comune di Boltiere sarebbe risultata di difficile, se non impossibile, esecuzione concreta.

2. Il motivo è infondato.

La pronuncia di inammissibilità della Corte d’appello è stata effettuata in via preliminare con riguardo alla posizione del Ministero come delineata in causa dalla prospettazione di cui al ricorso introduttivo del giudizio ed intesa come limitata alla sola condanna al risarcimento.

Riguardo a tale affermazione, che appare del tutto in linea con le stesse conclusioni di cui al ricorso di primo grado come riportate nella stessa sentenza impugnata (“….ha convenuto in giudizio il Comune di Boltiere e l’Agenzia Autonoma per la Gestione dell’Albo dei Segretari Comunali… chiedendo l’accertamento dell’illegittimità del provvedimento di revoca, con condanna del Comune alla reintegrazione nell’incarico e di entrambe le parti convenute al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali patiti per effetto della revoca”), la ricorrente oppone che l’appello nei confronti del Ministero si sarebbe reso necessario in relazione alle contestazioni concernenti il rigetto della domanda di reintegrazione.

Tuttavia non risulta che già in primo grado la F. avesse avanzato anche domanda di reintegrazione nei confronti dell’Agenzia Autonoma per la Gestione dell’Albo dei Segretari Comunali e Provinciali e sul punto il motivo di ricorso è assolutamente privo di specificità, non riportando il contenuto dell’atto introduttivo del giudizio. Nè vale a superare la suddetta carenza la circostanza che la cancellazione dall’Albo sarebbe sopravvenuta rispetto al maturare delle preclusioni nel giudizio di primo grado e che perciò in sede di appello si sarebbe reso necessario richiedere la reintegrazione anche nei confronti dell’Agenzia (v. pag. 6 del ricorso per cassazione), trattandosi, evidentemente, di un ampliamento del thema decidendum non consentito in sede di gravame.

E’ comunque opportuno ricordare che la disciplina del rapporto di lavoro dei segretari comunali è stata ripetutamente interpretata dalla giurisprudenza di questa Corte (v. in particolare Cass. 15 maggio 2012, n. 7510) che ha delineato i seguenti principi:

a) il rapporto di impiego di questi dipendenti è sempre stato caratterizzato dalla non coincidenza dell’amministrazione datrice di lavoro con quella che ne utilizza le prestazioni (così Cass., Sez. Un., 20 giugno 2007, n. 14288); con l’importante riforma del relativo ordinamento introdotta dalla L. n. 127 del 1997 e dal D.P.R. n. 465 del 1997 (le cui norme sono state, poi, trasfuse nel D.Lgs. n. 18 agosto 2000, n. 267 Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, contenente il regime definitivo), l’amministrazione datrice di lavoro dei segretari è diventata l’Agenzia autonoma per la gestione dell’albo dei segretari comunali e provinciali, avente personalità giuridica di diritto pubblico (D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 102, oggi abrogato a seguito dell’intervenuta soppressione dell’Agenzia per effetto del D.L. n. 78 del 2010, convertito con L. n. 122 del 2010);

b) è rimasta confermata la peculiarità della non coincidenza – di regola, salvo i pochi casi di permanenza in disponibilità, con utilizzazione diretta da parte dell’Agenzia, ai sensi del D.P.R. n. 465 del 1997, art. 7, comma 1, – dell’amministrazione datrice di lavoro (Agenzia) con quella che ne utilizza le prestazioni (Comune o Provincia);

c) in ragione di tale distinzione, nelle controversie giudiziarie relative al rapporto tra segretario comunale ed ente utilizzatore non sussiste una situazione di litisconsorzio necessario con la predetta Agenzia (v. Cass. 16 luglio 2010, n. 16698; Cass. 11 agosto 2016, n. 17065);

d) tutti gli atti di gestione del rapporto di lavoro del segretario comunale, compresi quelli posti in essere dall’amministrazione locale nell’ambito del rapporto di lavoro con la stessa instaurata (tra cui la revoca dall’incarico ai sensi della L. 15 maggio 1997, n. 127, art. 17, comma 71), rappresentano manifestazione di poteri propri del privato datore di lavoro (così Cass., Sez. Un., 24 maggio 2006 n. 12224);

e) la non coincidenza dell’amministrazione datrice di lavoro con quella presso la quale il segretario presta servizio può tuttavia avere quale conseguenza che entrambi tali soggetti, ciascuno per la propria parte, siano stati tenuti a cooperare per consentire al dipendente di riprendere la propria prestazione lavorativa e che l’inadempimento di ciascuna di tali proprie e specifiche obbligazioni generi l’obbligazione risarcitoria di cui all’art. 1218 c.c. (questa Corte, infatti, ha da tempo affermato che è da riconoscere al privato una tutela piena nei confronti di un atto che appartiene alla gestione di un rapporto di lavoro assunto dalla PA con le capacità e i poteri del datore di lavoro privato: vedi, per tutte: Cass., Sez. Un., 19 ottobre 1998, n. 10370; Cass., Sez. Un., 16 febbraio 2009, n. 3677; Cass. 3 marzo 2012, n. 3419).

Quindi, nella specie, se legittimamente era stata proposta anche nei confronti dell’Agenzia una domanda risarcitoria, la mancata impugnazione da parte della F. della sentenza di primo grado nella parte in cui questa aveva escluso ogni responsabilità dell’Agenzia in relazione ai danni patiti dalla ricorrente aveva processualmente definito la posizione del Ministero dell’Interno (subentrato all’Agenzia) senza che fatti sopravvenuti potessero in qualche modo rimetterla in discussione.

3. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 99 dell’art. 100 medesimo D.Lgs., della L. n. 300 del 1980, art. 18, del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 63, dell’art. 2058 c.c. tutti letti e interpretati anche alla luce dell’art. 97 Cost., comma 2, in relazione al rigetto della domanda di reintegrazione.

Rileva che l’ordinamento di settore in caso di revoca della nomina prevede la reintegrazione e richiama al riguardo Cass., Sez. Un., 1 febbraio 2007, n. 2233.

Sostiene che, contrariamente a quanto affermato in sentenza, tra cessazione del mandato sindacale e cessazione dell’incarico non vi è alcun automatismo, ma solo la possibilità offerta al sindaco subentrante di nominare un nuovo e diverso segretario decorso il termine di sessanta giorni dall’insediamento ed entro il termine di 120 giorni, spirato il quale l’incarico si intende confermato.

4. Il motivo è infondato.

Va innanzitutto ricordato che la dipendenza funzionale del segretario dall’organo di vertice dell’ente locale (competente per la nomina e la revoca) si traduce nella configurazione di un rapporto caratterizzato dall’elemento fiduciario, che si esprime nella regola secondo cui la nomina ha durata corrispondente a quella del mandato del sindaco o del presidente della provincia che lo ha nominato, con cessazione automatica dall’incarico con la fine del mandato, pur dovendo il titolare della carica continuare ad esercitare le funzioni sino alla nomina del nuovo segretario (D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 99, comma 2). La nomina è disposta non prima di sessanta giorni e non oltre centoventi giorni dalla data di insediamento del sindaco e del presidente della provincia, decorsi i quali il segretario già in carica è confermato (art. 99, comma 3). A tal fine il sindaco, o il presidente della provincia, individua il nominativo del segretario prescelto, a norma delle disposizioni contenute nell’art. 11, e ne chiede l’assegnazione al competente consiglio di amministrazione dell’Agenzia, il quale provvede entro sessanta giorni dalla richiesta.

Quanto al procedimento di nomina del segretario comunale o provinciale questa Corte ha affermato che lo stesso (al pari di quello di revoca) ha natura negoziale di diritto privato, in quanto posto in essere dall’ente locale con la capacità e i poteri del datore di lavoro (v. Cass. 31 ottobre 2017, n. 25960; Cass. 15 maggio 2012, n. 7510; Cass. 9 febbraio 2007, 25969; Cass., Sez. Un., 20 giugno 2005, n. 16876; Cass., Sez. Un., 12 agosto 2005, n. 166876).

La natura fiduciaria dell’incarico, che termina con la scadenza dell’organo amministrativo elettivo di riferimento, è stata, in particolare, affermata da questa Corte con riferimento alla tipologia e alla varietà dei compiti di collaborazione e di assistenza giuridico – amministrativa nei confronti degli organi comunali in ordine alla conformità dell’azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti in piena coerenza con il ruolo del segretario quale controllore di legalità (D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 97, comma 2) nonchè alle funzioni consultive, referenti e di assistenza alle riunioni del consiglio e della giunta (D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 97, comma 4, lett. a) – v. Cass. 23 agosto 2008, n. 12403; Cass. 1 luglio 2008, n. 17974 e da ultimo Corte Costituzionale n. 23 del 22 febbraio 2019 -.

Peraltro le indicate funzioni si sono anche arricchite con la legislazione successiva: in particolare, con la L. n. 190 del 2012 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione), nonchè con il D.Lgs. n. 33 del 2013 (Riordino della disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni) che attribuiscono al segretario comunale, di norma, il ruolo di responsabile della prevenzione della corruzione e quello di responsabile della trasparenza.

Nè, in ragione di detta fiduciarietà, che evidentemente non si esaurisce con l’atto di nomina, può dirsi che sussista un diritto soggettivo alla riconferma.

Il segretario comunale è, infatti, destinato a cessare automaticamente dalle proprie funzioni al mutare del sindaco (salvo conferma), eppure anche in tal caso è garantito nella stabilità del suo status giuridico ed economico e del suo rapporto d’ufficio, restando iscritto all’Albo dopo la mancata conferma e restando perciò a disposizione per successivi incarichi.

La legge è chiara nello stabilire che il segretario decade “automaticamente dall’incarico con la cessazione del mandato del sindaco”, tuttavia lo stesso è chiamato a continuare nelle sue funzioni per un periodo non inferiore a due e non superiore a quattro mesi, in attesa di eventuale conferma, a garanzia della stessa continuità dell’azione amministrativa.

Tale essendo il quadro in cui si colloca la pretesa reintegratoria del ricorrente, va detto che, anche a voler ritenere applicabile (per l’analoga fiduciarietà che caratterizza l’affidamento dell’incarico dirigenziale) il principio affermato da Cass. n. 3677/2009 cit. con riferimento alla revoca dell’incarico dirigenziale in ipotesi di non sussistenza della giusta causa per il recesso anticipato dal contratto a tempo determinato ed al diritto del dirigente alla riassegnazione di tale incarico precedentemente revocato, per il tempo residuo di durata (che, nel caso in esame, comprenderebbe anche quello dell’automatica obbligatoria prosecuzione in attesa di eventuale conferma), detratto il periodo di illegittima revoca, tuttavia la stessa non è decisiva perchè sconta la circostanza, pacifica agli atti, che la F. a far data dal 3/1/2012 (e dunque ben prima della pronuncia di primo grado) prestava servizio presso la Prefettura di Bergamo ed era stata cancellata dall’Albo dei Segretari Comunali (v. pag. 6 del ricorso per cassazione). Dunque aveva perso uno dei requisiti necessari perchè si potesse ricostituire il rapporto.

5. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 267 del 2000, artt. 9799100 e 101 del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 19, dell’art. 2103 c.c., degli artt. 1218, 1223 e 2059 c.c. nonchè omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio in relazione al rigetto della domanda di risarcimento del danno alla professionalità.

Sostiene che la perdita delle mansioni e il collocamento in disponibilità fossero già significativi del danno alla professionalità.

6. Il motivo è infondato.

Se è vero che il demansionamento ben può essere foriero di danni al bene immateriale della dignità professionale del lavoratore, è del pari vero che – per costante giurisprudenza di questa S.C. – essi non sono in re ipsa e devono pur sempre essere dimostrati (seppure, eventualmente, a mezzo presunzioni e/o massime di esperienza) da chi si assume danneggiato (cfr., ex aliis, Cass., Sez. Un., 24 marzo 2006, n. 6572).

Il principio è stato ulteriormente precisato in successive decisioni in particolare evidenziandosi che il risarcimento del danno professionale, non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale, non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo (così Cass. 14 novembre 2016, n. 23146; Cass. 17 novembre 2016, n. 23432) e che, se la relativa prova può essere acquisita in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo precipuo rilievo quella per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro dell’operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) potendosi, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno (così Cass. 19 dicembre 2008, n. 29832 e negli stessi termini Cass. 18 settembre 2015, n. 18431), tuttavia il ricorso alle presunzioni è consentito a condizione che sia stata allegata la natura del pregiudizio e che il ricorrente abbia dedotto e provato circostanze diverse ed ulteriori rispetto al mero inadempimento, che possano essere valorizzate per risalire dal fatto noto a quello ignoto (v. Cass. 19 agosto 2016, n. 17214).

In tema di prova del danno da dequalificazione professionale ex art. 2729 c.c., non è allora sufficiente a fondare una corretta inferenza presuntiva il semplice richiamo di categorie generali (come la qualità e quantità dell’attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la gravità del demansionamento, la sua durata e altre simili), dovendo il giudice di merito procedere, pur nell’ambito di tali categorie, ad una precisa individuazione dei fatti che assume idonei e rilevanti ai fini della dimostrazione del fatto ignoto, alla stregua di canoni di probabilità e regole di comune esperienza (v. Cass. 18 agosto 2016, n. 17163).

Nella specie, il giudice di merito, facendo corretta applicazione degli indicati principi, con accertamento di fatto non surrogabile in questa sede, ha ritenuto che la F. si fosse limitata a prospettare un danno in re ipsa senza dedurre una sola circostanza concreta atta a dimostrare la sussistenza di un danno risarcibile e così omettendo di fornire al giudicante i parametri necessari per giungere ad una valutazione seppure presuntiva.

Alle suddette considerazioni la ricorrente oppone, in modo inammissibile, una diversa lettura delle risultanze di cause.

Nè del resto è sostenibile che la perdita dell’incarico, proprio per il peculiare funzionamento e per la dinamica professionale del segretario comunale, possa identificare un fatto ex se generatore di un danno alla professionalità.

7. Con il quarto motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1223 e 2059 c.c. ed omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione al rigetto della domanda di danno esistenziale.

8. Il motivo è infondato.

Anche in questo caso a fronte di specifiche argomentazioni del giudice a quo (il quale ha ritenuto che la modestissima percentuale di danno biologico derivata – 4-5% – non fosse consentito, in assenza di specifiche deduzioni che la revoca avesse comportato un radicale peggioramento a titolo definivo delle abitudini di vita della lavoratrice) la ricorrente – lungi dal denunciare l’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge – allega un’erronea ricognizione, da parte della Corte territoriale, della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa: operazione che non attiene all’esatta interpretazione della norma di legge, inerendo prettamente alla valutazione del giudice di merito.

Nella parte in cui lamenta l’omesso esame del fatto decisivo il motivo è inammissibile.

Le Sezioni Unite di questa Corte, nell’interpretare il novellato art. 360 c.p.c., n. 5, hanno stabilito che “l’omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, non integra l’omesso esame circa un fatto decisivo previsto (dall’art. 360 c.p.c., n. 5), quando il fatto, storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti” (Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014, n. 8053).

E nel caso di specie il fatto storico rappresentato dall’entità del danno è stato preso in considerazione dalla sentenza, alle pp. 6 e 7.

Le censure sollevate dall’odierna ricorrente tendono piuttosto a negare la congruità dell’interpretazione fornita dalla Corte territoriale del contenuto rappresentativo degli elementi di prova complessivamente acquisiti e dei fatti di causa, ma una simile impostazione critica appare con evidenza diretta a censurare una (tipica) erronea ricognizione della fattispecie concreta, di necessità mediata dalla contestata valutazione delle risultanze probatorie ma ciò non è conforme alla nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

9. Con il quinto motivo la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 41 del c.c.n.l. di categoria, dell’art. 1 del c.c.n.l. decentrato integrativo, dell’art. 2697 c.c. alla luce dell’art. 24 Cost. e del principio di riferibilità o vicinanza o disponibilità della prova, degli artt. 2727 e 2729 c.c..

Lamenta il mancato riconoscimento della maggiorazione della retribuzione di posizione e rileva che tale emolumento è solo correlato alle condizioni oggettive e soggettive, al cui esistere se ne determina l’insorgenza.

10. Il motivo è infondato.

L’art. 41 del c.c.n.l. fa riferimento anche ad ulteriori condizioni che devono ricorrere affinchè la maggiorazione possa essere pretesa dal segretario, giacchè la disposizione è chiara innanzitutto nel prevedere che i criteri ed i parametri delle maggiorazioni devono essere stabiliti in sede di contrattazione decentrata integrativa nazionale, ed inoltre nel fissare il limite delle risorse disponibili e del rispetto delle capacità di spesa.

E’ evidente, pertanto, che detti limiti rilevano nella predeterminazione complessiva della spesa del personale, nel senso che l’ente, il quale è anche chiamato ad individuare la indennità di posizione spettante al dirigente o al personale dipendente titolare di posizione organizzativa, dovrà tener conto del principio della tendenziale equiparazione stabilito dal comma 5 della medesima disposizione (e cioè che la retribuzione di posizione del segretario non sia inferiore a quella stabilita per la funzione dirigenziale più elevata nell’ente in base al contratto collettivo dell’area della dirigenza o, in assenza di dirigenti, a quello del personale incaricato della più elevata posizione organizzativa).

Ove, però, ciò non avvenga la disposizione contrattuale non può far sorgere il diritto soggettivo ad una equiparazione che prescinda del tutto dalla disponibilità delle risorse, perchè ciò equivarrebbe a legittimare spese non compatibili con le capacità dell’ente territoriale (v. Cass. 6 ottobre 2016, n. 20065).

Peraltro, ai sensi dell’art. 1 del c.c.i. nazionale, la maggiorazione della retribuzione di posizione cui all’art. 41 del c.c.n.l. spetta solo in presenza di condizioni oggettive (riferite all’Ente ed alla sua complessità organizzativa – in funzione del numero delle Aree o Settori presenti nell’Ente, della funzione di sovraintendenza e coordinamento di dirigenti o responsabili di servizio, laddove non siano state conferite, all’interno o all’esterno, le funzioni di direzione generale -, funzionale – presenza di particolari uffici o di particolari forme di gestione dei servizi – ed a ragioni di disagio ambientale – sedi di alta montagna, estrema carenza di organico, situazioni anche transitorie di calamità naturale o difficoltà socioeconomiche – e soggettive (in ragione di incarichi speciali di responsabilità di singoli servizi affidati al segretario).

La Corte territoriale, dopo aver fatto puntuale riferimento alle condizioni legittimanti l’erogazione della maggiorazione in questione, ha correttamente ritenuto (con valutazione che supera la questione dell’operatività in concreto degli oneri probatori) che dal complesso del materiale probatorio a sua disposizione non fosse emerso che l’indennità predetta era stata corrisposta alla F. nel periodo di svolgimento dell’incarico di segretario e che pertanto non sussistessero elementi di prova, pur presuntiva, a sostegno della pretesa.

11. Con il sesto motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2729 c.c..

Lamenta il mancato riconoscimento della voce retribuzione di risultato evidenziando che il giudice di appello ben avrebbe potuto far ricorso al ragionamento presuntivo in dipendenza del fatto che nel periodo di vigenza dell’incarico la F. lo aveva sempre svolto al meglio.

12. Il motivo è infondato.

Le deduzioni dell’odierno ricorrente in realtà si risolvono nella mera doglianza circa la dedotta erronea attribuzione da parte del giudice del merito agli elementi valutati di un valore ed un significato difformi dalle sue aspettative e nell’inammissibile pretesa di una lettura dell’asserto probatorio diversa da quella nel caso operata dai giudici di merito (“la lavoratrice non ha allegato alcunchè da cui desumere la possibilità di ottenimento dei risultati, nè risulta che abbia mai percepito la retribuzione di risultato”).

Del resto, quando si imputi al giudice di merito, in mancanza di una presa di posizione nella motivazione da esso resa, di non avere applicato un ragionamento presuntivo che la situazione delle emergenze fattuali probatorie emersa nel giudizio avrebbe invece giustificato, si è del tutto al di fuori della logica della c.d. falsa applicazione dell’art. 2729 c.c..

In tal caso, infatti, quello che si imputa al giudice è l’omesso esame della situazione fattuale, cioè del fatto noto o dei fatti noti, che, se fossero stati considerati, avrebbero dovuto condurre alla conoscenza di un fatto ignoto e, dunque, anch’esso ignorato nella motivazione.

Si ricade, quindi, nell’ipotesi che le Sezioni Unite nella citata sentenza n. 8053/2014, nello scrutinare il significato dell’espressione fatto di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 hanno individuato come omesso esame di un fatto secondario.

13. Con il settimo motivo la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 437 c.p.c. e conseguente omessa pronuncia in relazione all’art. 112 c.p.c..

Lamenta che la Corte territoriale abbia ritenuto nuova la domanda relativa alla corresponsione delle retribuzioni nei due anni successivi alla scadenza dell’incarico rispetto a quanto dalla medesima percepito nel periodo di disponibilità, essendo questa da considerarsi inclusa nella domanda di risarcimento del danno maturato e maturando ritualmente avanzata.

14. Il motivo è inammissibile.

La Corte territoriale non ha omesso alcuna pronuncia ma ha ritenuto che la voce di danno prospettata dalla ricorrente solo in grado di appello integrasse una domanda nuova, come tale inammissibile ai sensi dell’art. 437 c.p.c., fondata sui diritti riconosciuti al segretario revocato durante il periodo di disponibilità.

Ha, inoltre, evidenziato che si trattava anche di danno del tutto eventuale che poteva ricorrere solo se nel corso della disponibilità non fossero stati affidati altri incarichi e che in ogni caso in ordine allo stesso non si era mai svolto alcun contraddittorio.

Se è vero che la certezza che deve sussistere per rendere risarcibile il danno futuro non è la stessa di quella che caratterizza il danno presente, tuttavia questa Corte ha affermato che per ritenere tale danno sussistente non basta la mera eventualità di un pregiudizio futuro, essendo invece sufficiente la rilevante probabilità che esso si verifichi.

Tale rilevante probabilità di conseguenze pregiudizievoli è configurabile come danno futuro immediatamente risarcibile solo qualora l’effettiva diminuzione patrimoniale appaia come il naturale sviluppo di fatti concretamente accertati ed inequivocamente sintomatici di quella probabilità, secondo un criterio di normalità fondato sulle circostanze del caso concreto (v. Cass. 27 aprile 2010, n. 10072).

Il motivo di ricorso non consente di ritenere che una richiesta di danno futuro sulla base di fatti sintomatici della probabilità di verifica dello stesso fosse stata ritualmente dedotta sin dal ricorso di primo grado.

15. Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato.

16. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate nella misura di cui al dispositivo.

17. Va dato atto dell’applicabilità del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del presente giudizio che liquida, in quanto al Comune di Boltiere, in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 3.500,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge e rimborso forfetario in misura del 15% e, quanto al Ministero dell’Interno, in Euro 2.500,00 per compensi professionali oltre sperse prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 23 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 2 agosto 2019