Il provvedimento del Giudice del Lavoro sulla condotta antisindacale della Wartsila a Trieste

Pubblichiamo il provvedimento del Giudice del Lavoro di Trieste che sancisce l’antisindacalità della procedura di licenziamento collettivo adottata dall’Azienda.
L’antisindacalità trova la propria ragione d’essere nella mancata – carente informativa fornita dall’azienda.

Scarica il provvedimento

 

Comunicato di solidarietà di CIU UNIONQUADRI sulla situazione della Wartsila di Trieste

CIU UNIONQUADRI sindacato dei quadri del settore pubblico e privato esprime la propria preoccupazione per la decisione di Wartsila di abbandonare l’importante sito di Trieste – Bagnoli della Rosandra a suo tempo appartenente a Grandi Motori Trieste e poi a Fincantieri Divisione Grandi Motori. Nell’esprimere la propria solidarietà ai lavoratori tutti, UNIONQUADRI non può mancare di riferirsi alla categoria dei quadri dalla stessa rappresentata.

Quest’ultima categoria tanto ha contribuito a creare quella che oggi può considerarsi una realtà solida ed efficiente e particolarmente attiva nel campo del settore navale, della ricerca e dell’innovazione.

Grande preoccupazione è dovuta anche al fatto che la decisione adottata non risulta preceduta da alcun rilievo negativo da parte dell’azienda.

Ci attendiamo pertanto una soluzione meditata e razionale che tenga conto delle esigenze aziendali, ma anche delle legittime aspettative locali e dell’indotto, atta a preservare il patrimonio di professionalità ad oggi acquisito ed il ruolo dei quadri.

Solidarietà ai quadri ed ai dipendenti di WARTSILA.

CIU UNIONQUADRI

La previdenza complementare

5.1. La definizione di previdenza complementare
5.1.1. Le prime forme di previdenza complementare – 5.1.2. Il D.Lgs. 252/2005 – 5.1.3. La direttiva “IORP 2” – 5.1.4. La COVIP.

5.2. Le forme e la partecipazione alla previdenza complementare
5.2.1. Le forme previdenziali collettive – 5.2.2. Le forme previdenziali individuale – 5.2.3. L’adesione alle forme pensionistiche complementari.

5.3. La contribuzione e la gestione dei fondi
5.3.1. Lavoratori dipendenti privati – 5.3.2. Pubblici dipendenti– 5.3.3. Soci di cooperative – 5.3.4. Lavoratori autonomi e collaboratori – 5.3.5. Il trattamento fiscale – 5.3.6. La gestione delle risorse e le garanzie.

5.4. Le prestazioni
5.4.1. La rendita – 5.4.2. Il capitale – 5.4.3. Le anticipazioni – 5.4.4. I riscatti – 5.4.5. La portabilità.

5.5. La RITA (Rendita integrativa temporanea anticipata)
5.5.1. Requisiti – 5.5.2. Fruizione

 

5.1. La definizione di previdenza complementare

5.1.1. Le prime forme di previdenza complementare

La previdenza complementare – o integrativa – consiste essenzialmente in una protezione aggiuntiva rispetto al regime previdenziale obbligatorio.

La libertà di organizzazione di forme di previdenza volontarie e private è riconosciuta dall’art. 38 della Carta Costituzionale, che sancisce al quinto comma la libertà delle stesse, peraltro anche attraverso associazioni di volontariato, cooperative, istituti di patronato ed assistenza espressamente previsti per il lavoratore.

Anche il codice civile, agli articoli 2117 e 2223, implicitamente attribuisce all’imprenditore la possibilità di costituire dei fondi speciali per la previdenza e l’assistenza, anche senza la contribuzione dei lavoratori.

In realtà, in passato la protezione integrativa e aggiuntiva garantita dalla previdenza complementare era limitata a determinate categorie di lavoratori o a particolari e ben precise scelte aziendali di miglior favore.

A partire dagli anni ’90 del secolo scorso – anche a seguito delle rilevanti riforme del sistema previdenziale obbligatorio intervenute – si è cominciata a percepire la necessità di estendere la previdenza complementare alla generalità dei lavoratori.

Infatti, la previdenza obbligatoria iniziava ad essere considerata insufficiente, soprattutto in una prospettiva di medio-lungo termine, ad assicurare ai pensionati un tenore di vita paragonabile a quello goduto nel corso dell’esperienza lavorativa e garantito dalla retribuzione.

Il primo intervento del legislatore in materia – dotato di una certa sistematicità ed organicità – è stato quello previsto dal D.Lgs. n. 124/1993, peraltro modificato in maniera rilevante solamente due anni dopo a seguito della riforma della previdenza obbligatoria intervenuta con la legge n. 335/1995.

L’obiettivo del legislatore era quello di affiancare alla già ampiamente esaminata in precedenza previdenza obbligatoria – il cosiddetto primo pilastro – un secondo ed ulteriore pilastro, costituito appunto dalla previdenza complementare su base volontaria.

Quindi, pochi anni dopo, il D.Lgs. n. 47/2000 ha aggiunto un terzo pilastro, costituito dalla previdenza complementare “individuale”.

Il secondo ed il terzo pilastro avevano dunque in comune la volontarietà dell’adesione da parte del lavoratore.

I due pilastri si differenziavano in quanto mentre secondo pilastro trovava la propria fonte istitutiva esclusivamente nella contrattazione collettiva – sia nazionale sia di comparto sia aziendale – invece le forme individuali erano aperte e attivabili esclusivamente in ragione e sulla base dell’adesione del lavoratore interessato.

Considerato lo scarso successo riscontrato dal secondo pilastro, frenato dal ruolo centrale della contrattazione collettiva che aveva dimostrato scarso se non nullo interesse ad attivare delle forme di previdenza complementare, il legislatore ha ritenuto di intervenire nuovamente in materia, con il D.Lgs. n. 252/2005.

5.1.2. Il D.Lgs. n. 252/2005

Il Decreto Legislativo n. 252/2005, entrato in vigore in data 1° gennaio 2007 ed attualmente vigente seppur più volte modificato, ha rivisto completamente il sistema della previdenza complementare, anche al fine di assicurare livelli più elevati di copertura previdenziale attraverso l’incentivazione al ricorso alle forme di contribuzione volontaria.

Rinviando ai paragrafi successivi il compiuto esame delle novità introdotte dal D.Lgs. n. 252/2005 e della disciplina attualmente in vigore, è necessario sin d’ora individuare quali siano tuttavia i fondamentali principi introdotti dalla normativa citata.

In particolare, la previdenza complementare attualmente si basa su:

  • l’adesione volontaria del lavoratore;
  • l’istituzione volontaria del regime pensionistico complementare;
  • la capitalizzazione individuale e la contribuzione definita;
  • una rilevante incentivazione per il lavoratore, costituita essenzialmente da benefici a livello fiscale, per favorire non solo l’accesso ma anche per l’erogazione delle prestazioni relative alla previdenza complementare;
  • la collocazione su un piano di assoluta parità tra le forme di previdenza complementare previste dalla contrattazione collettiva e quelle invece costituite dagli operatori autorizzati (es. banche, assicurazioni);
  • la possibilità di destinazione del Trattamento di Fine Rapporto al finanziamento della previdenza complementare;
  • la possibilità di far transitare il risparmio accumulato presso un fondo previdenziale ad un altro fondo: si tratta della cosiddetta portabilità della posizione individuale, attuabile mediante riscatto o trasferimento.

Si segnalano altresì le recenti modifiche introdotte al D.Lgs. n. 252/2005 ad opera del D.Lgs. n. 147/2018, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 14 di data. 17 gennaio 2019 ed entrato in vigore in data 1° febbraio 2019, con il quale sono state apportate modifiche alla normativa sui fondi pensione, in recepimento della Direttiva (UE) n. 2016/2341, relativa all’attività e alla vigilanza degli enti pensionistici aziendali o professionali (c.d. Direttiva IORP II).

5.1.3. La direttiva “IORP 2”

La direttiva 2016/2341/UE (c.d. IORP Institutions for Occupational Retirement Provision, 2), sostituisce la precedente 2003/41/CE e si inserisce nel quadro delle politiche di rafforzamento del mercato unico interno.

Ha infatti l’obiettivo di creare un contesto normativo unitario e armonizzato per lo sviluppo del mercato europeo dei fondi pensione, pur lasciando agli Stati Membri le singole competenze per l’organizzazione dei propri sistemi pensionistici.

In particolare, mira a rafforzare il sistema di governance e di gestione del rischio, rimuovere alcune barriere che ostacolano l’attività transfrontaliera dei fondi pensione che nei vari Paesi sono regolati da normative differenziate, rafforzare la trasparenza e l’informazione agli iscritti e ai pensionati. Inoltre, ha l’obiettivo di assicurare che le Autorità competenti abbiano tutti gli strumenti necessari per poter effettivamente svolgere attività di vigilanza e controllo sugli enti pensionistici aziendali e professionali.

La direttiva, come abbiamo visto recepita nell’ordinamento con il D.Lgs. n. 147/2018, rappresenta una significativa opportunità per i fondi pensione italiani, che potranno attirare anche lavoratori residenti all’estero, ma soprattutto per i lavoratori italiani, che potrebbero decidere di trasferire la posizione maturata presso un fondo pensione italiano all’estero.

Infatti, sotto il profilo fiscale non è prevista differenza alcuna tra i fondi pensione italiani e quelli degli altri Stati membri; di conseguenza i benefici fiscali riconosciuti nel nostro paese per la contribuzione sono i medesimi. Al contrario, il regime di tassazione sui risultati degli investimenti dipende da ciascun paese membro, dunque un lavoratore/interessato potrebbe trovare più conveniente aderire ad un fondo pensionistico complementare di uno Stato con una tassazione più favorevole rispetto al nostro.

Ancora, occorre notare come la redditività media dei fondi pensione italiani, messa a confronto con quella dei fondi pensioni dei paesi aderenti all’OCSE – ma non solo – non risulti assolutamente tra le migliori.

Un tanto emerge con chiarezza nella tabella di seguito riportata, con riferimento al tasso annuo netto di rendimento medio degli investimenti in fondi pensione, estratta dal Report annuale “Pension Markets in Focus” dell’OCSE – consultabile interamente al link http://www.oecd.org/daf/fin/private-pensions/Pension-Markets-in-Focus-2018.pdf

5.1.4. La COVIP

Occorre inoltre sin d’ora ricordare il ruolo della COVIP (Commissione di vigilanza sui fondi pensione), l’Autorità amministrativa indipendente che ha il compito di vigilare sul buon funzionamento del sistema dei fondi pensione a tutela degli aderenti e dei loro risparmi destinati alla previdenza complementare.

Istituita nel 1993 con il D.Lgs. n. 124/1993, la COVIP ha iniziato a operare nella sua attuale configurazione – con personalità giuridica di diritto pubblico – dal 1996.

Alla COVIP sono stati attribuiti anche compiti di controllo sugli investimenti finanziari e sul patrimonio delle Casse professionali private e privatizzati (Decreto-Legge n. 98/2011 e successivi decreti attuativi).

Il ruolo della COVIP nei confronti dei fondi pensione ricorda per certi versi quello della Banca d’Italia nei confronti del sistema bancario.

Infatti, la funzione che è chiamata a svolgere è essenzialmente quella di garantire e assicurare la trasparenza e la correttezza nella gestione e nell’amministrazione dei fondi pensione.

Maggiormente nel dettaglio, la COVIP:

  • autorizza i fondi pensione ad esercitare la propria attività e approva i loro statuti e regolamenti;
  • tiene l’albo dei fondi pensione autorizzati ad esercitare l’attività di previdenza complementare;
  • vigila sulla corretta gestione tecnica, finanziaria, patrimoniale e contabile dei fondi pensione e sull’adeguatezza del loro assetto organizzativo;
  • assicura il rispetto dei principi di trasparenza nei rapporti tra i fondi pensione ed i propri aderenti;
  • cura la raccolta e la diffusione delle informazioni utili alla conoscenza dei problemi previdenziali e del settore della previdenza complementare.

 

5.2. Le forme e la partecipazione alla previdenza complementare

Come già anticipato, le forme di previdenza complementare si possono distinguere in collettive e individuali.

Le forme collettive sono quelle che trovano la propria fonte istitutiva in un contratto o accordo collettivo, mentre quelle individuali sono invece quelle istituite su iniziativa di specifici operatori autorizzati.

5.2.1. Le forme previdenziali collettive

A loro volta le forme previdenziali collettive si distinguono in fondi chiusi (o negoziali) e in fondi aperti, sulla base della tipologia dei destinatari ai quali sono rivolte.

I fondi chiusi sono riservati a lavoratori appartenenti a specifici settori o categorie, mentre quelli aperti sono destinati a tutti i lavoratori, indipendentemente dunque dal settore o dalla categoria di appartenenza.

  • Fondi chiusi: ex art. 3, comma 1, lettere da a) a h) del D.Lgs. n. 252/2005, i fondi negoziali possono essere istituiti da:
    • contratti e accordi collettivi, anche aziendali, limitatamente, per questi ultimi, anche ai soli soggetti o lavoratori firmatari degli stessi, ovvero, in mancanza, accordi fra lavoratori, promossi da sindacati firmatari di contratti collettivi nazionali di lavoro. Ancora, accordi, anche interaziendali per gli appartenenti alla categoria dei quadri, promossi dalle organizzazioni sindacali nazionali rappresentative della categoria, membri del CNEL;
    • accordi fra lavoratori autonomi o fra liberi professionisti, promossi da loro sindacati o da associazioni di rilievo almeno regionale;
    • regolamenti di enti o aziende, i cui rapporti di lavoro non siano disciplinati da contratti o accordi collettivi, anche aziendali;
    • le regioni, le quali disciplinano il funzionamento di tali forme pensionistiche complementari con legge regionale nel rispetto della normativa nazionale in materia;
    • accordi fra soci lavoratori di cooperative, promossi da associazioni nazionali di rappresentanza del movimento cooperativo legalmente riconosciute;
    • accordi tra soggetti destinatari del D.Lgs. n. 565/1996 (meglio noto come Fondo Casalinghe), promossi anche da loro sindacati o da associazioni di rilievo almeno regionale;
    • gli enti di diritto privato di cui ai D.Lgs. 30 giugno 1994, n. 509, e 10 febbraio 1996, n. 103 (enti previdenziali dei liberi professionisti) con l’obbligo della gestione separata, sia direttamente sia secondo mediante contratti e accordi collettivi anche aziendali o accordi tra lavoratori autonomi o liberi professionisti;

Il fondo pensione viene costituito come associazione non riconosciuta ex art. 36 del codice civile, distinta dai soggetti promotori dell’iniziativa o, in alternativa, anche come soggetto dotato di personalità giuridica.

Per ottenere la personalità giuridica è tuttavia necessario ottenere un provvedimento di autorizzazione della COVIP, la Commissione di Vigilanza dei fondi pensione. Per tali fondi pensione, la COVIP cura la tenuta del registro delle persone giuridiche e provvede ai relativi adempimenti.

La regolamentazione del rapporto associativo è disciplinata dallo Statuto del fondo, il cui contenuto è comunque in larga parte predeterminato dalla COVIP.

Il D.Lgs. n. 147/2018 ha quindi inserito l’art. 4-bis al D.Lgs. n. 252/2005, rubricato “Requisiti generali in materia di sistema di governo”, che prevede che i fondi pensioni dotati di personalità giuridica si dotino di un sistema efficace di governo che assicuri una gestione sana e prudente della loro attività.

Tale sistema prevede una struttura organizzativa trasparente e adeguata, con una chiara attribuzione e un’appropriata separazione delle responsabilità e un sistema efficace per garantire la trasmissione delle informazioni.

Ancora, il sistema di governo adottato deve essere altresì proporzionato alla dimensione, alla natura, alla portata e alla complessità delle attività del fondo pensione.

I fondi pensione dotati di personalità giuridica devono altresì dotarsi di un sistema di controllo interno efficace. Tale sistema include procedure amministrative e contabili, un quadro di controllo interno, comprensivo della verifica di conformità alla normativa nazionale e alle norme europee direttamente applicabili nonché disposizioni di segnalazione adeguate a tutti i livelli del fondo pensione.

Infine, i fondi pensione dotati di personalità giuridica hanno l’obbligo di adottare misure appropriate e tali da garantire la continuità e la regolarità dello svolgimento delle loro attività, tra cui l’elaborazione di piani di emergenza. A tal fine i fondi pensione utilizzano sistemi, risorse e procedure adeguati e proporzionati.

Quindi, il successivo art. 5 del D.Lgs. n. 252/2005 prevede che la composizione degli organi di amministrazione e di controllo delle forme pensionistiche complementari negoziali deve rispettare il criterio della partecipazione paritetica di rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro.

Anche i successivi commi dell’art. 5 D.Lgs. n. 252/2005 sono stati notevolmente modificati dal D.Lgs. n. 147/2018, che ha previsto notevoli novità atte a garantire una maggiore tutela per gli aderenti al fondo pensione ed in particolare una maggiore partecipazione per il tramite di rappresentanti e poteri di vigilanza e controllo di questi ultimi con riguardo alla gestione sia amministrativa che finanziaria del fondo.

  • Fondi aperti: i fondi pensione aperti, a mente dell’art. 3, comma 1 lettera h) e dell’art. 12 del D.Lgs. n. 252/2005, possono essere istituiti da soggetti abilitati alla gestione di un fondo pensione.

Anche l’art. 3 comma 1 lettera h) del D.Lgs. n. 252/2005 è stato oggetto di modifiche da parte del D.Lgs. n. 147/2018.

Ne consegue che ad oggi i soggetti che possono istituire forme pensionistiche complementari mediante fondi aperti sono i soggetti di cui:

  • all’articolo 1, comma 1 del D.Lgs. n. 58/1998:
  1. lettera e) – società di intermediazione mobiliare (SIM), cioè l’impresa di investimento avente forma di persona giuridica con sede legale e direzione generale in Italia, diversa dalle banche e dagli intermediari finanziari iscritti nell’albo previsto dall’articolo 106 del Testo Unico Bancario, autorizzata a svolgere servizi o attività di investimento.
  2. lettera o) – società di gestione del risparmio (SGR), ovvero la società per azioni con sede legale e direzione generale in Italia autorizzata a prestare il servizio di gestione collettiva del risparmio.
  • all’articolo 1, comma 2, lettera a) – banca italiana – e lettera c) – banca extracomunitaria, ovvero la banca avente sede legale in uno Stato terzo – del D.Lgs n. 385/1993, aventi sede legale o succursale in Italia;
  • all’articolo 1, comma 1, lettera u) – impresa di assicurazione autorizzata in Italia ovvero impresa di assicurazione italiana, quindi la società avente sede legale in Italia e la sede secondaria in Italia di impresa di assicurazione avente sede legale in uno Stato terzo, autorizzata all’esercizio delle assicurazioni o delle operazioni di cui all’articolo 2 – del D.Lgs. n. 209/2005, operanti mediante ricorso alle gestioni di cui al ramo VI dei rami vita.

I fondi aperti sono accessibili a tutti coloro che desiderano aderirvi, compresi i lavoratori dipendenti, che possono peraltro destinare alle forme di risparmio in parola anche la contribuzione a carico del datore di lavoro e le quote di TFR.

Anche il fondo pensione aperto deve essere preventivamente autorizzato all’esercizio dell’attività dalla COVIP ed essere iscritto nel relativo albo.

Ai sensi dell’art. 12 comma 2 del D.Lgs. n. 52/2005, l’adesione ai fondi pensione aperti può avvenire non solo su base individuale ma anche collettiva. Invero, la contrattazione collettiva di qualsiasi livello può prevedere – attraverso apposito accordo, collettivo o individuale plurimo – l’adesione a un fondo aperto anziché decidere di ricorrere alla costituzione di un nuovo fondo chiuso.

Le modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 147/2018 all’art. 5 del D.Lgs. n. 252/2005 prevedono che le società istitutrici del fondo in esame nominino una figura di responsabile della forma pensionistica, che svolge la propria attività in modo autonomo e indipendente, riportando direttamente all’organo amministrativo della società relativamente ai risultati dell’attività svolta.

Inoltre, il responsabile della forma pensionistica verifica che la gestione del fondo sia svolta nell’esclusivo interesse degli aderenti, nonché nel rispetto della normativa vigente e delle previsioni stabilite nei regolamenti e nei contratti.

In particolare, ex art. 5 comma 3 del novellato D.Lgs. n. 252/2005 il responsabile della forma pensionistica vigila su:

  1. la gestione finanziaria della forma pensionistica complementare, anche controllando il rispetto della normativa e delle regole interne della stessa circa i limiti di investimento;
  2. la gestione amministrativa della forma, in particolare controllando la separatezza amministrativa e contabile delle operazioni poste in essere per conto della forma pensionistica e del patrimonio della stessa rispetto a quanto afferente alle altre attività della società e la regolare tenuta dei libri e delle scritture contabili riguardanti la forma pensionistica;
  3. le misure di trasparenza adottate nei confronti degli aderenti e beneficiari;
  4. l’adeguatezza della procedura di gestione dei reclami;
  5. la tempestiva e corretta erogazione delle prestazioni;
  6. le situazioni in conflitto di interesse;
  7. il rispetto delle buone pratiche e dei principi di corretta amministrazione.

5.2.2. Le forme previdenziali individuali

Le forme individuali di previdenza complementare, meglio specificate dalla lettera i) dell’art. 3 comma 1 e dall’art. 13 del D.Lgs. n. 252/2005, possono essere realizzate tramite l’adesione ad un fondo pensione aperto, con adesione a livello individuale ed in assenza di pattuizione alcuna derivante dalla contrattazione collettiva. In tal caso, il datore di lavoro dell’aderente non ha nessun obbligo di versare contribuzione.

Altra possibilità è quella di stipulare un contratto di assicurazione sulla vita con imprese di assicurazioni autorizzate dall’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni private (ISVAP) ad operare nel territorio dello Stato italiano o comunque ivi operanti in regime di stabilimento o di prestazioni di servizi.

Questi Piani individuali pensionistici di tipo assicurativo (PIP) sono costituiti sotto forma di patrimonio separato e autonomo rispetto a quello della compagnia che li istituisce in quanto detto patrimonio è destinato esclusivamente al pagamento delle prestazioni agli iscritti e non può essere utilizzato per soddisfare i diritti vantati dai creditori della società.

L’attività del PIP è disciplinata da un Regolamento, redatto sulla base di uno schema adottato dalla COVIP nonché dalle Condizioni generali di contratto.

Il Regolamento definisce gli elementi identificativi del PIP, le caratteristiche, la contribuzione, le prestazioni, i profili organizzativi e i rapporti con gli aderenti.

Nel documento afferente alle Condizioni generali di contratto, espressamente previsto dalla normativa che disciplina i contratti assicurativi, è invece contenuto l’insieme delle clausole che disciplinano il contratto di assicurazione attraverso il quale è realizzato il PIP.

La COVIP vigila sulla gestione e sulle condizioni di trasparenza e di offerta al pubblico dei PIP conformi alla vigente normativa in tema di previdenza complementare, mentre restano ferme le competenze dell’IVASS, l’Istituto per la Vigilanza sulle Assicurazioni, per i profili relativi alla stabilità delle imprese di assicurazione.

Esistono inoltre i cosiddetti vecchi PIP, ovvero quelle forme pensionistiche individuali attuate mediante contratti assicurativi istituiti prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 252/2005 che, non essendosi adeguate al decreto stesso, non possono raccogliere nuove adesioni.

I “vecchi PIP” non sono iscritti all’Albo dei fondi pensione e non sono vigilati dalla COVIP bensì esclusivamente dall’IVASS.

5.2.3. L’adesione alle forme pensionistiche complementari

L’adesione alle forme pensionistiche complementari abbiamo già visto che è fondata sul principio della volontarietà: il lavoratore, ma anche il non lavoratore, può decidere liberamente se aderire alla previdenza complementare.

Infatti, anche i familiari fiscalmente a carico possono essere iscritti alla previdenza complementare, versando in loro favore i contributi (es. per i figli) e beneficiando della deducibilità fiscale di cui si ha diritto.

Nel momento in cui l’interessato decida di aderire ad un fondo pensionistico, deve necessariamente sottostare alle norme che lo regolano: la volontarietà è dunque limitata al momento della scelta se aderire ad un fondo.

Nel caso del lavoratore dipendente, qualora il CCNL applicato o la contrattazione integrativa preveda l’adesione contrattuale, la stessa avverrà automaticamente alla forma pensionistica di riferimento; quindi, sarà obbligo del datore di lavoro il versamento del contributo fissato dagli accordi collettivi per l’adesione contrattuale, salva la possibilità per il lavoratore, se ritenuto opportuno, di integrare le somme versate con un proprio contributo.

Invece, l’adesione a un fondo aperto o a un PIP può avvenire tramite la sopra esaminata adesione individuale direttamente presso le sedi delle società (banche, imprese di assicurazione, SIM, SGR) che hanno istituiti i fondi o i PIP oppure attraverso i soggetti incaricati dalle stesse società o ancora via web.

Per agevolare la scelta dell’interessato, tutelare l’adesione consapevole e garantire la trasparenza delle condizioni contrattuali di tutte le forme pensionistiche complementari, nell’esercizio dei suoi compiti di vigilanza ex art. 19 D.Lgs. n. 252/2005 la COVIP ha elaborato un modello di informativa comune a tutte le forme pensionistiche complementari, che deve essere consegnata all’interessato prima dell’adesione.

Gli esempi di nota informativa redatti dalla COVIP costituiscono dunque uno strumento di ausilio nella predisposizione dei documenti informativi, diretto a favorire, per quanto possibile, un linguaggio semplice, diretto e immediato, in modo da accrescere il livello di accessibilità delle informazioni da parte degli iscritti, effettivi o potenziali, con particolare riguardo alla rappresentazione delle informazioni chiave da fornire in fase di prima adesione.

Tali schemi sono liberamenti consultabili e gratuitamente scaricabili sul sito internet della COVIP, www.covip.it.

All’interno dei modelli di nota informativa redatti dalla COVIP sono solitamente presenti almeno quattro sezioni:

  • Sezione I – Informazioni chiave per l’aderente (lo scopo della sezione è quello di presentare le principali caratteristiche del fondo e facilitare dunque l’eventuale confronto tra il fondo stesso e le altre forme pensionistiche complementari);
  • Sezione II – Caratteristiche della forma pensionistica complementare (lo scopo della sezione è quello di fornire informazioni generali, descrivere come avviene la contribuzione e l’investimento ed informare in merito anche ai costi ed alle modalità con le quali possono essere erogate le prestazioni);
  • Sezione III – Informazioni sull’andamento della gestione (il cui obiettivo è quello di delineare con maggior chiarezza la gestione delle risorse nonché l’orientamento relativo agli investimenti adottato nel presente ed in futuro);
  • Sezione IV – Soggetti coinvolti nell’attività della forma pensionistica complementare (che contiene la descrizione ed i dati di tutti i soggetti che a vario titolo sono coinvolti – es. i dati della compagnia di assicurazione).

Come ricorda la COVIP nella sua Guida introduttiva alla previdenza complementare, prima di aderire ad un fondo pensione è bene:

  • verificare che il proprio contratto di lavoro preveda la possibilità di aderire a un fondo pensione di riferimento (negoziale, aperto o preesistente) in virtù di un accordo collettivo o di un regolamento aziendale;
  • confrontare i costi applicati dalle diverse forme pensionistiche complementari: i costi sostenuti possono infatti incidere negativamente in maniera significativa sull’importo della pensione futura;
  • verificare quali sono le linee di investimento proposte, i rischi finanziari connessi e scegliere le modalità più adatte alle proprie esigenze previdenziali;
  • verificare la convenienza a mantenere aperte le diverse posizioni nel caso di adesione a più forme pensionistiche complementari.

Per favorire il confronto dell’onerosità tra le diverse forme pensionistiche la COVIP ha sviluppato l’ISC (Indicatore sintetico di costo), un indicatore che esprime in modo semplice e immediato il costo annuale, in percentuale della posizione individuale maturata, sostenuto da un iscritto ad una forma pensionistica.

Lo strumento ha lo scopo di semplificare il confronto sull’onerosità delle diverse forme pensionistiche ed è messo gratuitamente e liberamente a disposizione degli interessati dalla COVIP al seguente link: http://www.covip.it/isc_dinamico/.

Prima di aderire ad uno specifico fondo, all’interessato, oltre alla nota informativa, viene sottoposto un Questionario di autovalutazione per raccogliere alcune informazioni riguardanti le conoscenze previdenziali e la propensione personale al risparmio.

A quel punto l’interessato è libero di scegliere il fondo più in linea col suo profilo personale e con le esigenze previdenziali provvedendo a compilare e sottoscrivere il modulo di adesione, il cui modello è anch’esso standardizzato ed elaborato sulla base dei modelli di esempio predisposti dalla stessa COVIP.

 

5.3. La contribuzione e la gestione dei fondi

A mente dell’art. 8 comma 1 del D.Lgs. n. 252/2005, il finanziamento della previdenza complementare può essere attuato:

  • mediante il versamento di contributi a carico del lavoratore;
  • mediante il versamento di contributi da parte del datore di lavoro o del committente;
  • attraverso il conferimento del TFR maturando.

Nel caso di lavoratori autonomi e di liberi professionisti il finanziamento delle forme pensionistiche complementari è invece attuato mediante contribuzioni a carico dei soggetti stessi.

Nel caso di soggetti diversi dai titolari di reddito di lavoro o d’impresa e di soggetti fiscalmente a carico di altri, il finanziamento alle citate forme è attuato dagli stessi o dai soggetti nei confronti dei quali sono a carico.

5.3.1. Lavoratori dipendenti privati

Come anticipato, il versamento di contributi per i lavoratori dipendenti può avvenire esclusivamente a carico del lavoratore, mediante il versamento di contributi da parte del datore di lavoro o attraverso il conferimento del TFR maturando.

Tutti i lavoratori dipendenti hanno la facoltà di determinare liberamente l’entità della contribuzione a proprio carico, ma per coloro che partecipano a fondi chiusi o a fondi aperti con adesione su base collettiva le modalità e la misura minima della contribuzione a carico del datore di lavoro e del lavoratore possono essere fissate dai contratti o dagli accordi aziendali.

Il contributo del datore di lavoro al fondo di previdenza complementare è dovuto solo in caso di espressa previsione in tal senso da parte di un contratto collettivo o di un accordo aziendale di adesione collettiva ad un fondo aperto.

Negli ultimi anni molte aziende, come trattamento di miglior favore nei confronti dei propri dipendenti, hanno deciso di versare spontaneamente una quota di finanziamento alla previdenza complementare prescelta dal lavoratore anche nel caso di scelta da parte di quest’ultimo di un fondo aperto o di un PIP.

La fonte di primaria importanza per il finanziamento della previdenza complementare con riguardo ai lavoratori dipendenti è tuttavia rappresentata dal TFR in maturazione.

Il TFR, Trattamento di Fine Rapporto, è disciplinato dall’art. 2120 c.c., che prevede che in ogni caso di cessazione del rapporto di lavoro subordinato, il prestatore di lavoro ha diritto a un trattamento di fine rapporto. Tale trattamento si calcola sommando per ciascun anno di servizio una quota pari e comunque non superiore all’importo della retribuzione dovuta per l’anno stesso divisa per 13,5. La quota è proporzionalmente ridotta per le frazioni di anno, computandosi come mese intero le frazioni di mese uguali o superiori a 15 giorni.

L’art. 2120 c.c. ha adottato il principio dell’onnicomprensività della retribuzione, secondo cui la retribuzione per prestazione di lavoro non occasionale deve essere ricompresa nel T.F.R., salvo la contrattazione collettiva non vi deroghi in modo preciso e puntuale.

A partire dal 2007, ogni lavoratore dipendente deve decidere, entro il termine di sei mesi dall’inizio del primo rapporto di lavoro, se destinare il proprio TFR maturando alle forme pensionistiche complementari oppure tenerlo, come avveniva fino a quel momento, in azienda presso il datore di lavoro.

La scelta deve essere effettuata nel termine di sei mesi dall’inizio del primo rapporto di lavoro ed è sostanzialmente irreversibile, in quanto il lavoratore che ha deciso di destinare il TFR alle forme pensionistiche complementari non potrà esercitare opzione alcuna per il mantenimento tradizionale del TFR maturando presso il datore di lavoro.

Il lavoratore che ha deciso di destinare il TFR alle forme pensionistiche complementari potrà comunque decidere, anche nel corso di eventuali successivi rapporti di lavoro, di scegliere di destinare il TFR ad un fondo diverso.

Al contrario, il lavoratore dipendente che ha deciso di optare per il mantenimento del TFR in azienda potrà e dovrà nuovamente esercitare la scelta ad ogni nuovo rapporto di lavoro, sempre entro il termine di sei mesi.

In ogni caso il lavoratore dipendente che ha deciso di optare per il mantenimento del TFR in azienda può, in ogni momento, decidere di modificare la propria scelta e destinare il TFR alla previdenza complementare, essendo sufficiente per l’esercizio della scelta in parola la semplice comunicazione al datore di lavoro.

La scelta, da effettuare è bene ribadirlo entro il termine di sei mesi dall’inizio del rapporto di lavoro, viene effettuata dal lavoratore mediante la compilazione di un apposito modulo messo a sua disposizione dal datore di lavoro; è diritto del lavoratore, in caso di dimenticanza del datore, richiedere di ricevere il suddetto modulo.

Risulta inoltre compito del datore di lavoro, al momento dell’assunzione, oltre a fornire il modello di scelta – mod. TFR2 – fornire al lavoratore anche adeguate informazioni sulle diverse possibili destinazioni del TFR maturando.

Ancora, 30 giorni prima dello scadere dei sei mesi, il datore di lavoro ha l’obbligo di fornire al lavoratore che non abbia ancora effettuato la scelta le necessarie informazioni relative alla forma pensionistica complementare cui è destinato il TFR alla scadenza del termine semestrale nel caso di esistenza di un solo fondo collettivo di riferimento o di esistenza di apposito accordo sindacale aziendale che individui uno specifico fondo.

Infatti, nel caso il lavoratore non esprima nessuna scelta utile nel corso del periodo di tempo semestrale di riflessione a lui riconosciuto, il TFR verrà automaticamente destinato alla previdenza complementare.

Peraltro, nel momento in cui il TFR viene destinato alla previdenza complementare, lo stesso cambia natura, divenendo parte della posizione individuale del lavoratore costituita presso il fondo.

Un tanto determina l’importante conseguenza della perdita della garanzia del TFR garantita dal Fondo di garanzia dell’INPS.

Nel caso il lavoratore non abbia effettuato alcuna scelta e siano presenti più fondi, il TFR verrà versato al fondo al quale è iscritto il maggior numero di dipendenti dell’azienda presso la quale è addetto. Se invece non c’è un fondo di riferimento, il TFR confluirà nella forma pensionistica complementare con il maggior numero di iscritti.

In caso di adesione tacita o, meglio, mediante silenzio-assenso, il TFR affluisce a una linea di investimento garantita e a basso rischio; resta salva la possibilità per il lavoratore di scegliere successivamente una diversa linea di investimento.

La scelta di destinare il TFR alla previdenza complementare determina l’automatica iscrizione del lavoratore alla forma pensionistica complementare prescelta dal lavoratore e comunicata al datore di lavoro.

Quindi, il datore di lavoro versa il TFR alla forma prescelta a decorrere dal mese successivo a quello di effettiva consegna del modello TFR2 da parte del lavoratore; la decorrenza è tuttavia differita al periodo di paga in corso al momento della scelta.

Il Modello TFR2, inizialmente allegato al D.M. 30 gennaio 2007, è stato modificato dal D.M. 22 marzo 2018 ed è attualmente composto di tre sezioni; il lavoratore deve compilare esclusivamente la sezione a cui appartiene.

La sezione 1 è prevista in relazione ai lavoratori iscritti alla previdenza obbligatoria in data successiva al 28 aprile 1993. Pertanto, costoro dovranno scegliere se il TFR venga conferito ad una forma pensionistica complementare ed in che misura oppure di non destinare il TFR ad una forma pensionistica complementare e tenerlo in azienda.

La sezione 2 è prevista in relazione ai lavoratori iscritti alla previdenza obbligatoria in data antecedente al 28 aprile 1993 ai quali si applichino accordi o contratti collettivi che prevedano il conferimento del TFR ad una forma pensionistica complementare; costoro potranno decidere di non destinare il TFR ad una forma pensionistica complementare e tenerlo in azienda, di destinare l’intero ammontare del trattamento di fine rapporto alla forma pensionistica complementare o di conferire il TFR solo in parte alla forma pensionistica complementare.

La sezione 3 è prevista in relazione ai lavoratori iscritti alla previdenza obbligatoria in data antecedente al 28 aprile 1993 ai quali tuttavia non si applichino accordi o contratti collettivi che prevedano il conferimento del TFR ad una forma pensionistica complementare; costoro potranno decidere di non destinare il TFR ad una forma pensionistica complementare e tenerlo in azienda, di destinare l’intero ammontare del trattamento di fine rapporto ad una specifica forma pensionistica complementare di loro indicazione o di conferire il TFR solo in parte alla forma pensionistica complementare indicata nel modulo.

Invero, occorre precisare che il modello TFR2 deve essere conservato in originale dal datore di lavoro, che ne deve comunque consegnare copia al lavoratore; è onere invece del dipendente fornire copia del modulo di adesione alla forma pensionistica complementare prescelta.

Infine, va notato che la legge di Bilancio 2017 (legge n. 232/2016) ha introdotto il comma 184-bis alla legge n. 208/2015 (legge di Bilancio 2016), che prevede che non concorrono a formare reddito di lavoro dipendente i contributi alle forme pensionistiche complementari di cui al D.Lgs. n. 252/2005, versati, per scelta del lavoratore, in sostituzione, in tutto o in parte, dei premi di risultato, anche se eccedenti i limiti di deduzione dal reddito previsti dal medesimo D.Lgs. n. 252/2005 e che saranno in seguito esaminati.

5.3.2. Pubblici dipendenti

I fondi pensione destinati al personale dipendente delle Pubbliche Amministrazioni possono essere istituiti con contratti collettivi nazionali di comparto oppure con contratti collettivi di ambito territoriale.

Ai dipendenti pubblici si applica la normativa del D.Lgs. n. 124/1993 e, in materia fiscale, il D.Lgs. n. 252/2005. Costoro possono quindi:

  • aderire ai fondi pensione negoziali di riferimento, conferendo il TFR futuro e al tempo stesso beneficiare del contributo del datore di lavoro;
  • aderire anche a forme pensionistiche individuali (fondi pensione aperti e PIP) ma in tal caso possono versare esclusivamente il proprio contributo.

Non è possibile beneficiare del contributo del datore di lavoro né aderire in forma collettiva a fondi pensione aperti.

Anche i fondi pensione per i dipendenti pubblici sono enti giuridicamente autonomi, distinti dai soggetti promotori; sono iscritti all’Albo dei fondi pensione e sono vigilati dalla COVIP.

L’adesione è volontaria ed è consentita esclusivamente ai lavoratori che appartengono al settore del pubblico impiego il cui rapporto di lavoro è disciplinato dagli accordi collettivi istitutivi dello specifico fondo.

Con la legge di Bilancio per l’anno 2018 (legge n. 205/2017) è stato previsto che le fonti istitutive dei fondi pensione potranno disciplinare le modalità di espressione della volontà di adesione dei lavoratori del pubblico impiego – assunti successivamente al 1° gennaio 2019 – anche mediante meccanismi di silenzio-assenso, proprio come nel lavoro privato.

Invece, i dipendenti pubblici assunti a tempo indeterminato prima del 1° gennaio 2001 con la sottoscrizione del modulo di adesione al fondo pensione optano automaticamente per il passaggio dal regime del TFS (trattamento di fine servizio, buonuscita, indennità premio fine servizio o indennità di anzianità) al regime di TFR (trattamento di fine rapporto).

Il valore della prestazione maturata fino a quel momento costituirà il montante al quale si aggiungeranno i nuovi accantonamenti annui per il TFR e le relative rivalutazioni.

La facoltà di chiedere la trasformazione del TFS in TFR è stata introdotta al fine di favorire il processo di attuazione delle disposizioni in materia di previdenza complementare per i dipendenti pubblici.

Il passaggio avviene mediante la sottoscrizione del modulo di adesione al fondo pensione ed è, pertanto, strettamente connesso e non separabile rispetto all’adesione stessa.

Risulta possibile, qualora lo Statuto del fondo lo preveda, iscrivere anche i familiari fiscalmente a carico.

L’esercizio dell’opzione per il TFR, al fine di iscriversi contestualmente al fondo di previdenza complementare negoziale, sarà possibile sino il 31 dicembre 2020 (cfr. Messaggio INPS n. 2642/2016).

L’ammontare della contribuzione da versare nel fondo pensione complementare è stabilito in sede di contrattazione collettiva.

La pubblica amministrazione verserà dunque sul conto della posizione individuale del dipendente/aderente:

  • il contributo a carico del lavoratore, nell’importo previsto dall’accordo collettivo. Rimane possibile e consentito al dipendente di scegliere di contribuire in misura superiore rispetto a quanto prefissato;
  • il contributo a proprio carico, nella misura prevista dall’accordo collettivo: al predetto contributo il lavoratore ha diritto esclusivamente se effettua il proprio versamento.

5.3.3. Soci di cooperative

Per i soci lavoratori delle società cooperative – sia autonomi che subordinati – il contributo è determinato come percentuale della retribuzione assunta per il calcolo del TFR oppure degli imponibili considerati ai fini dei contributi previdenziali obbligatori o, ancora, in percentuale rispetto al reddito da lavoro autonomo appositamente dichiarato ai fini IRPEF e relativo al periodo d’imposta precedente.

A partire dal luglio del 2018, il fondo unico di previdenza complementare per i lavoratori delle cooperative è “Previdenza cooperativa”, nato dalla fusione dei precedenti fondi Cooperlavoro, Previcooper e Filcoop, che rappresentavano l’intero mondo delle cooperative italiane (Cooperlavoro era riservato ai soci lavoratori e ai dipendenti delle cooperative di lavoro, Previcooper per i lavoratori delle aziende che applicano il contratto nazionale della distribuzione cooperativa e Filcoop per i lavoratori dipendenti addetti ai lavori di sistemazione idraulico-forestale ed idraulico-agraria per i dipendenti di cooperative di trasformazione di prodotti agricoli).

Previdenza Cooperativa è aperto a tutti i settori e imprese cooperative e fa riferimento ai contratti nazionali di lavoro sottoscritti da Confcooperative, Legacoop e Agci con Cgil, Cisl e Uil.

A far data dal 16 luglio 2018 le aziende associate alle tre centrali cooperative effettuano i versamenti contributivi complementari per i propri dipendenti al nuovo Fondo.

I lavoratori già in precedenza aderenti a Cooperlavoro, Previcooper e Filcoop, sono automaticamente iscritti a Previdenza Cooperativa e mantengono senza alcun onere, tra le altre, le anzianità di iscrizione maturate nei Fondi di origine, i requisiti di partecipazione, le posizioni individuali accumulate e il medesimo comparto di investimento.

5.3.4. Lavoratori autonomi e collaboratori

Nel caso dei lavoratori autonomi e dei liberi professionisti il contributo al fondo è determinato come percentuale del reddito d’impresa o di lavoro autonomo dichiarato ai fini IRPEF e relativo al periodo d’imposta precedente.

Anche per agenti e rappresentanti di commercio il contributo al fondo è determinato come percentuale del reddito d’impresa dichiarato ai fini IRPEF e relativo al periodo d’imposta precedente.

Con riferimento al reddito dichiarato deve ritenersi esclusa – implicitamente – l’eventuale rideterminazione dei contributi a seguito di accertamenti fiscali.

Per quanto attiene invece ai collaboratori coordinati e continuativi, non vi è applicazione in via analogica delle disposizioni previste per i lavoratori dipendenti.

Ad ogni modo sono estesi per i collaboratori i benefici fiscali riservati ai dipendenti in caso di contribuzione versata dai committenti a loro beneficio, sia volontariamente sia in base a contratti o accordi collettivi anche aziendali (cfr. in merito art. 8, comma quarto D.Lgs. n. 252/2005 ed il riferimento a “contributi versati dal lavoratore e dal datore di lavoro o committente”).

Resta tuttavia salva la possibilità per il collaboratore di attivare in prima persona una forma di previdenza complementare.

5.3.5. Il trattamento fiscale

Al fine di incentivare il ricorso alla previdenza complementare il legislatore ha deciso di introdurre una tassazione di miglior favore (cfr. art. 8 D.Lgs. n. 252/2005).

In particolare:

  • Detrazione: sulla contribuzione è possibile dedurre dal reddito complessivo i contributi versati al fondo di previdenza complementare, fino ad un tetto unico fissato in 5.164,57 euro all’anno, sia volontari sia dovuti a contratti collettivi o accordi aziendali.

Ne consegue quindi un risparmio di imposta tanto maggiore quanto risulti più elevata l’aliquota IRPEF marginale applicata al lavoratore.

Tale importo comprende e somma l’eventuale contributo fornito dal datore di lavoro e i versamenti effettuati a favore dei soggetti fiscalmente a carico – esclusivamente per l’importo non dedotto direttamente da costoro – nonché i contributi versati per reintegrare eventuali anticipazioni già ottenute.

Nello specifico, per eventuali familiari a carico di più soggetti, si applicano le regole generali previste per gli oneri sostenuti nell’interesse delle persone fiscalmente a carico: pertanto, nel caso di contribuzione versata dai genitori in favore del figlio, l’onere va diviso tra gli stessi in parti uguali o nella proporzione in cui è stato sostenuto.

Risulta invece esclusa dalla deduzione la quota del TFR, in quanto non rientra nel reddito imponibile.

In base al TUIR – Testo Unico Imposte sui Redditi, D.P.R. n. 917/1986 – non concorrono alla formazione del reddito gli oneri deducibili trattenuti direttamente dal datore di lavoro.

Eventuali contributi eccedenti il limite di euro 5.164,57 euro all’anno non godono di alcun beneficio fiscale immediato ma danno comunque origine ad una quota di prestazione in capitale o in rendita esclusa da tassazione.

L’art. 8 comma 4 D.Lgs. n. 252/2005 prevede che il contribuente comunichi alla forma pensionistica complementare, entro il 31 dicembre dell’anno successivo a quello in cui è stato effettuato il versamento, ovvero, se antecedente, alla data in cui sorge il diritto alla prestazione, l’importo non dedotto o che non sarà dedotto nella dichiarazione dei redditi.

Ancora, ex comma 6 art. 8 D.Lgs. n. 252/2005, ai lavoratori di prima occupazione – ovvero non titolari di una posizione contributiva aperta presso un ente di previdenza obbligatoria – successiva alla data di entrata in vigore del decreto (1° gennaio 2007), limitatamente ai primi cinque anni di partecipazione alle forme pensionistiche complementari, è consentito, nei venti anni successivi al quinto anno di partecipazione a tali forme, dedurre dal reddito complessivo contributi eccedenti il limite di 5.164,57 euro pari alla differenza positiva tra l’importo di 25.822,85 euro e i contributi effettivamente versati nei primi cinque anni di partecipazione alle forme.

Ciò significa dunque che il contribuente potrà dedurre dal reddito complessivo contributi eccedenti il limite ordinario per un importo non superiore a euro 2.589,22 annui.

Di conseguenza, l’importo massimo annuo deducibile – ricorrendo le citate condizioni – è pari a euro 7.746,86 euro

  • Rendimenti: i rendimenti realizzati dalla forma pensionistica complementare sono tassati fino a un massimo del 20% (rispetto al 26% che si applica alla maggior parte delle forme di risparmio finanziario).

La tassazione può essere inferiore qualora gli investimenti della forma pensionistica complementare siano effettuati in titoli di Stato e altri titoli equiparati, i cui rendimenti sono tassati con un’aliquota agevolata del 12,50%;

  • Pagamento prestazione: sul pagamento della pensione complementare o del capitale, la tassazione risulta assai favorevole: quanto deriva dai versamenti effettuati è infatti assoggettato a una ritenuta agevolata del 15%.

La citata percentuale si riduce in funzione dell’anzianità di partecipazione al sistema di previdenza complementare: se questa è superiore a 15 anni, l’aliquota diminuisce dello 0,30% per ogni anno di successiva partecipazione fino al limite massimo di riduzione pari a 6 punti percentuali.

Nel caso di almeno 35 anni di contribuzione, quindi, l’imposta scende al 9%.

Viene tassata solo la parte relativa ai contributi dedotti durante il periodo di partecipazione al fondo pensione e alle quote di TFR versato.

  • Anticipazioni: le anticipazioni per spese sanitarie sono tassate con un’aliquota agevolata che varia tra il 15% e il 9%, in base al numero di anni di partecipazione alla previdenza complementare.

Si ricorda e precisa che a tutte le altre tipologie di anticipazione viene applicata, invece, l’aliquota ordinaria del 23%;

  • Riscatti: i riscatti della posizione individuale a seguito di cessazione dell’attività lavorativa sono tassati con l’aliquota del 23%.

Nei casi di riscatto per inoccupazione di durata non inferiore a 12 mesi, mobilità, cassa integrazione guadagni ordinaria/straordinaria e invalidità, si applica un’aliquota agevolata che varia tra il 15% e il 9%, anche in questo caso in base al numero di anni di partecipazione alla previdenza complementare.

Quanto invece al TFR, la parte versata alla previdenza complementare concorre a formare la pensione complementare e quindi è tassata con le stesse aliquote agevolate.

Nel caso il TFR venga lasciato in azienda, sulla rivalutazione annua viene applicata l’imposta sostitutiva del 17% e sulle somme liquidate si applica la tassazione separata in base all’aliquota media IRPEF a cui è soggetto il lavoratore.

Sulle somme di TFR erogate in busta paga fino al luglio 2018 (data alla quale è venuto meno l’obbligo di erogazione della quota di trattamento di fine rapporto in busta paga, cfr. Messaggio INPS n. 2791/2018) si applica la tassazione in base all’aliquota ordinaria IRPEF.

5.3.6. La gestione delle risorse e le garanzie

Le forme pensionistiche complementari offrono diverse politiche di investimento e di ripartizione del rischio per investire i contributi; tali diversi possibilità sono denominate linee di investimento (o comparti).

Le linee di investimento più prudenti comportano generalmente un rischio contenuto ed a garanzia del capitale; al contrario, le linee di investimento più aggressive comportano maggiori rischi ma anche migliori aspettative di remunerazione.

Appare opportuno segnalare che, oltre al rapporto rischio/guadagno e dunque alla propensione o meno per il rischio finanziario, è necessario anche valutare attentamente altri fattori prima di operare la scelta della linea di investimento.

Infatti, risultano variabili da tenere in debita considerazione anche le condizioni socio-economiche, l’età e l’arco temporale che separa dal pensionamento l’interessato.

Generalmente infatti vengono consigliate delle linee di investimento più aggressive soprattutto per i lavoratori più giovani, in quanto tale scelta comporta maggiori probabilità di alti rendimenti nel lungo periodo.

Al contrario, ai lavoratori in prossimità alla pensione sono solitamente proposte linee di investimento più prudenti, che mirino essenzialmente alla conservazione di quanto versato.

In caso di adesione tacita del lavoratore alla previdenza complementare, il TFR viene conferito nella linea di investimento più garantita e prudenziale.

Le linee di investimento, pur differenziandosi in base agli strumenti finanziari, sono comunque riconducibili, in via generale, a quattro principali categorie:

  1. garantite, che offrono una garanzia di rendimento minimo o di restituzione del capitale versato al verificarsi di determinati eventi;
  2. obbligazionarie (pure o miste), a seconda che investano esclusivamente o principalmente in titoli obbligazionari;
  3. bilanciate, che tendenzialmente investono in azioni e in obbligazioni nella stessa o in simili percentuali;
  4. azionarie, che investono esclusivamente o principalmente in azioni.

La scelta della linea di investimento operata non è vincolante e pertanto può sempre essere modificata, anche più volte, nel corso del tempo.

In ogni caso, il raggiungimento dell’obiettivo proprio dei fondi pensione risulta tutelato da un apposito sistema di garanzie e comunque dalla vigilanza della COVIP, che, oltre a controllare tutti i movimenti della vita del fondo, dispone di poteri autoritativi nei confronti degli organi del fondo e altresì della possibilità di emanare regolamenti, circolari e disposizioni finalizzate a disciplinare lo sviluppo dei fondi pensione.

Dunque, le forme pensionistiche complementari devono rispettare nei loro investimenti determinate regole di prudenza, definite dalla legge, che tengono conto della finalità previdenziale e non speculativa dell’investimento.

Per tale ragione infatti nei fondi pensione negoziali la gestione degli investimenti è affidata esclusivamente a determinati operatori professionali (banca, SGR, SIM, impresa di assicurazione) sulla base di una apposita convenzione nella quale sono definiti i criteri a cui tali operatori si devono attenere.

Nei fondi pensione aperti e nei piani individuali pensionistici di tipo assicurativo (PIP), gli investimenti sono gestiti in genere direttamente dalla società (banca, SGR, SIM, impresa di assicurazione) che ha istituito il fondo aperto o il PIP.

Le risorse dei fondi pensione aperti e dei PIP costituiscono patrimonio autonomo e separato rispetto a quello della società.

Le risorse affidate in gestione al fondo, per garantire una piena separazione dei ruoli e ridurre il rischio di possibili conflitti d’interesse, sono custodite da un depositario a ciò autorizzato (una banca, purché abbia i requisiti previsti dal D.Lgs. n. 58/1998 per essere considerata banca depositaria per fondi comuni d’investimento e sia diversa dal gestore del fondo).

La banca depositaria ha anche il compito di verificare che le operazioni effettuate dal gestore siano conformi alla legge e a quanto stabilito nello Statuto o nel Regolamento della forma pensionistica complementare anche nella scelta degli investimenti.

Ulteriore forma di garanzia consiste nell’obbligo per i fondi pensione di inviare ai propri iscritti apposite informazioni periodiche, il cui contenuto è disciplinato dettagliatamente dalla stessa COVIP e i cui obblighi sono stati resi più stringenti a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 147/2018 di modifica del D.Lgs. n. 252/2005, che ha introdotto ulteriori e specifici obblighi di informazione agli articoli da 13-bis a 13-septies.

Nell’informazione agli iscritti devono essere evidenziati sia i dati relativi all’andamento generale della gestione del fondo (investimenti, spese) sia i dati relativi alla gestione della posizione del singolo iscritto (contribuzione ecc.).

Ancora, nell’informazione periodica deve essere altresì contenuto il documento, ex art. 13-quater D.Lgs. n. 252/2005 come modificato dal D.Lgs. n. 147/2018, “Prospetto delle prestazioni pensionistiche”, che contiene una simulazione della presunta pensione complementare calcolata in base ai dati anagrafici, alla posizione individuale maturata, alla dinamica retributiva, alla linea di investimento scelta e ad altre ipotesi definite dalla COVIP.

Si tratta ovviamente di una simulazione, che tuttavia, assieme alle altre informazioni fornite, è però in grado di fornire all’iscritto una panoramica tale da permettergli di valutare l’adeguatezza del percorso scelto.

All’interessato è comunque sempre lasciata aperta la possibilità, in ragione delle informazioni ricevute e a seguito di apposita riflessione e valutazione, di aumentare i contributi o modificare la linea di investimento o addirittura al cambio del fondo pensione sottoscritto, che, essendo un diritto dell’iscritto, non può essere ostacolato né limitato.

Infine, nel caso di riscontro di irregolarità o anomalie che riguardino la forma pensionistica complementare, l’iscritto deve rivolgersi in primo luogo al fondo pensione stesso, che è tenuto a rispondere alla richiesta ricevuta in modo chiaro, tempestivo ed efficace.

Nel caso di mancata o insufficiente risposta da parte del fondo pensione, l’interessato può inviare esposto alla COVIP, che esamina le situazioni portate alla sua attenzione e dalle quali potrebbero emergere comportamenti irregolari o anomali dei fondi e valuta, nell’ambito della propria attività di vigilanza, quali iniziative adottare nei confronti della forma pensionistica complementare inadempiente.

 

5.4. Le prestazioni

Le prestazioni erogate dal fondo pensione consistono nell’attribuzione di una rendita, ovvero di una vera e propria pensione che si aggiunge a quella liquidata dal sistema previdenziale obbligatorio, oppure di capitale.

Infatti, anche il diritto alla prestazione pensionistica complementare viene conseguito al momento della maturazione dei requisiti di accesso alle prestazioni stabiliti dal regime obbligatorio di appartenenza.

Inoltre, per accedere alle prestazioni pensionistiche della previdenza complementare è altresì richiesto il requisito di almeno cinque anni di partecipazione alle forme pensionistiche complementari.

Il predetto termine è ridotto a tre anni per il lavoratore il cui rapporto di lavoro in corso cessa per motivi indipendenti dal fatto che lo stesso acquisisca il diritto a una pensione complementare e che si sposta tra Stati membri dell’Unione europea

L’interessato a quel punto potrà scegliere tra:

  • trasformare interamente la propria posizione individuale in rendita;
  • ottenere fino a un massimo del 50% del capitale accumulato in un’unica soluzione ed il restante in rendita;
  • liquidare tutta la posizione individuale in capitale.

Durante il periodo di iscrizione al fondo, in alcune specifiche situazioni previste dalla legge o dal fondo pensione, è possibile prelevare dalla propria posizione individuale una parte del risparmio previdenziale, a titolo di riscatto o di anticipazione.

La somma che viene prelevata concorre a ridurre la posizione individuale e, di conseguenza, l’importo di quanto si disporrà al momento del pensionamento.

5.4.1. La rendita

Nel momento in cui matura il diritto alla prestazione pensionistica complementare, il capitale accantonato viene convertito in rendita, mediante l’utilizzo di coefficienti di conversione determinati con riferimento alle tavole di mortalità o sopravvivenza predisposte e periodicamente aggiornate dall’ISTAT.

I fondi pensione provvedono alle prestazioni sotto forma di rendita direttamente o mediante convenzione con determinate imprese assicurative.

In qualunque caso la responsabilità per il pagamento dell’obbligazione permane esclusivamente in capo al fondo pensione; è quest’ultimo infatti a svolgere comunque le funzioni di sostituto d’imposta in relazione alle rendite erogate.

Le principali tipologie di rendita sono le seguenti:

  • rendita vitalizia, ovvero la rendita che, a partire dal momento del pensionamento, viene ricevuta dal beneficiario fino al decesso;
  • rendita vitalizia reversibile, la rendita che viene erogata al beneficiario, o, in caso di decesso di quest’ultimo, ad un soggetto dallo stesso indicato purché rientrante tra i possibili destinatari della pensione per superstiti;
  • rendita certa e successivamente vitalizia, quella rendita che assicura in ogni caso all’interessato un importo predeterminato per un preciso lasso temporale, indipendentemente dall’esistenza in vita del beneficiario diretto.

Decorso il periodo “certo” la rendita viene erogata esclusivamente in caso di esistenza in vita del beneficiario e fino al suo decesso.

  • rendita differita, ovvero la rendita che non viene pagata al momento del pensionamento ma da un preciso e diverso momento preventivamente individuato e fino al decesso del beneficiario;
  • rendita associata ad una c.d. copertura di lungo termine, ovvero una rendita che può essere aumentata nel caso si verifichino eventi che comportino la perdita di autosufficienza del beneficiario.

In caso di decesso dell’iscritto prima dell’avvenuto pensionamento, la posizione individuale dello stesso può essere riscattata dai beneficiari appositamente designati dall’iscritto oppure, in assenza, dai suoi eredi.

Infine, occorre sottolineare che la rendita, al contrario del montante in unica soluzione che vedremo tra poco, tutale l’interessato contro il c.d. rischio di longevità, ovvero il rischio di vivere più a lungo di quanto ci si possa attendere, anche in considerazione del notevole incremento della speranza di vita riscontrato negli ultimi anni.

5.4.2. Il capitale

In alternativa alla rendita, l’iscritto può richiedere la liquidazione in capitale – secondo il valore attuale – dell’importo maturato.

Non sempre è tuttavia possibile richiedere l’intera liquidazione in capitale: infatti, si applica il limite del 50% alla quota liquidabile in capitale, conservando la percentuale residua per l’erogazione sotto forma di rendita, a meno che:

  • si tratti di iscritti alla data del 28 aprile 1993 ad un fondo istituito in data precedente rispetto al 15 novembre 1992;
  • l’importo annuo della prestazione pensionistica complementare risulti inferiore al 50% del valore dell’assegno sociale.

Sono comunque sempre previste apposite forme di anticipazione del capitale per il lavoratore in caso di necessità dello stesso, con successiva facoltà di reintegrazione delle somme.

Nel caso le somme anticipate non vengano reintegrate, le stesse verranno detratte dal computo dell’importo complessivo erogabile in capitale.

5.4.3. Le anticipazioni

Ai sensi dell’art. 11 comma 7 del D.Lgs. n. 252/2005 gli aderenti alle forme pensionistiche complementari possono richiedere un’anticipazione della posizione individuale maturata nei seguenti casi:

  1. in qualsiasi momento, per un importo non superiore al 75 per cento, per spese sanitarie a seguito di gravissime situazioni relative a sé, al coniuge e ai figli per terapie e interventi straordinari riconosciuti dalle competenti strutture pubbliche.

Sull’importo erogato, al netto dei redditi già assoggettati ad imposta, è applicata una ritenuta a titolo d’imposta con l’aliquota del 15 per cento ridotta di una quota pari a 0,30 punti percentuali per ogni anno eccedente il quindicesimo anno di partecipazione a forme pensionistiche complementari con un limite massimo di riduzione pari a 6 punti percentuali;

  1. decorsi otto anni di iscrizione al fondo, per un importo non superiore al 75 per cento, per l’acquisto della prima casa di abitazione per sé o per i figli, documentato con atto notarile, o per la realizzazione degli interventi di cui alle lettere a), b), c), e d) del comma 1 dell’articolo 3 del Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, relativamente alla prima casa di abitazione (importanti interventi di manutenzione, restauro, ristrutturazione), documentati come previsto dalla normativa stabilita ai sensi dell’articolo 1, comma 3, della legge 27 dicembre 1997, n. 449.

Sull’importo erogato, al netto dei redditi già assoggettati ad imposta, si applica una ritenuta a titolo di imposta del 23 per cento;

  1. decorsi otto anni di iscrizione al fondo, per un importo non superiore al 30 per cento, per ulteriori esigenze degli aderenti.

Sull’importo erogato, al netto dei redditi già assoggettati ad imposta, si applica una ritenuta a titolo di imposta del 23 per cento;

Le ritenute di cui alle precedenti lettere sono applicate dalla forma pensionistica che eroga le anticipazioni.

In ogni caso, a mente del successivo comma 8 dell’art. 11 D.Lgs. n. 252/2005, le somme percepite a titolo di anticipazione non possono mai eccedere, complessivamente, il 75 per cento del totale dei versamenti, comprese le quote del TFR, maggiorati delle plusvalenze tempo per tempo realizzate, effettuati alle forme pensionistiche complementari a decorrere dal primo momento di iscrizione alle predette forme.

Inoltre, le eventuali anticipazioni possono essere reintegrate, a scelta dell’aderente, in qualsiasi momento anche mediante contribuzioni annuali eccedenti il limite di 5.164,57 euro.

Sulle somme eccedenti il citato limite, corrispondenti alle anticipazioni reintegrate, è riconosciuto al contribuente un credito d’imposta pari all’imposta pagata al momento della fruizione dell’anticipazione, proporzionalmente riferibile all’importo reintegrato.

Ancora, ai fini della determinazione dell’anzianità necessaria per la richiesta delle anticipazioni e delle prestazioni pensionistiche sono considerati utili tutti i periodi di partecipazione alle forme pensionistiche complementari maturati dall’aderente per i quali lo stesso non abbia esercitato il riscatto totale della posizione individua

5.4.4. I riscatti

Sono previsti alcuni casi in cui è possibile chiedere il riscatto della posizione previdenziale.

Maggiormente nel dettaglio, il riscatto prevede il rimborso all’iscritto del capitale maturato fino a quel momento.

Al contrario dell’anticipazione, il riscatto non fornisce la possibilità di reintegrare la propria posizione previdenziale.

Il riscatto può essere richiesto nei seguenti casi, come meglio precisato dall’art. 14 del D.Lgs. n. 252/2005 a seguito delle modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 147/2018:

  • In caso di cessazione dell’attività lavorativa o di procedure di mobilità e cassa integrazione ordinaria o straordinaria che comportino inoccupazione per periodi superiori a 12 mesi. Decorso tale termine, può essere richiesto il riscatto parziale pari al 50% del capitale maturato; qualora siano passati 48 mesi è possibile richiedere il riscatto totale.

Per gli iscritti a forme individuali, in caso di perdita del lavoro, per dimissioni o licenziamento, il riscatto può essere richiesto senza attendere i termini indicati;

  • Per gli iscritti a forme previdenziali complementari collettive, in caso di perdita dei requisiti di permanenza.

Nel caso infatti il lavoratore perda i requisiti di partecipazione previsti dal contratto o dall’accordo collettivo, ad esempio perché perde il lavoro o cambia settore lavorativo e non può continuare a versare nel fondo pensione di categoria, è sua facoltà chiedere il riscatto totale della posizione.

In ogni caso l’iscritto può comunque optare invece per il mantenimento della posizione individuale in gestione presso la forma pensionistica complementare anche in assenza di ulteriore contribuzione.

La COVIP, nel marzo 2019, ha risposto ad un quesito relativo ai lavoratori coinvolti in una specifica operazione di fusione per incorporazione in relazione alle quale con apposito accordo sindacale, sottoscritto a latere, era stato pattuito che la contribuzione dei lavoratori dell’azienda fusa per incorporazione venisse versata, successivamente alla fusione, al fondo pensione di riferimento del gruppo cui apparteneva l’azienda incorporante, anziché al fondo pensione preesistente, al quale i lavoratori avevano aderito.

Viene osservato dalla COVIP che la perdita dei requisiti di partecipazione a un fondo pensione non si ha solo nell’ipotesi in cui intervenga una cessazione del rapporto di lavoro, ovvero un cambiamento dell’attività lavorativa che collochi il lavoratore nell’ambito di una diversa categoria contrattuale, alla quale non trovi applicazione la fonte istitutiva della forma cui aderiva in precedenza, ma anche nell’ipotesi in cui trovino successivamente applicazione al medesimo lavoratore accordi collettivi che dispongano la destinazione ad un’altra forma pensionistica complementare dei flussi contributivi datoriali futuri.

Viene riconosciuta poi anche la possibilità di mantenere la posizione attivando una contribuzione volontaria ed individuale al medesimo fondo di originaria iscrizione.

Tale adesione, viene sottolineato, si trasforma da collettiva ad individuale e la facoltà di riscatto per perdita requisiti dovrà seguire le regole previste per il riscatto delle posizioni individuali, essendo dunque necessaria quindi l’attestazione della cessazione dell’attività e dello status di inoccupato al momento della domanda di riscatto così come previsto dalla Circolare COVIP n. 5027 del 2017.

  • In caso di accertata invalidità permanente che riduca la capacità lavorativa ad un livello inferiore ad un terzo e a seguito di cessazione dell’attività lavorativa che comporti l’inoccupazione per un periodo di tempo superiore a 48 mesi (cfr. legge di Bilancio 2018, n. 205/2017, art. 1 comma 168 lettera b) è prevista la possibilità per l’interessato di richiedere il riscatto totale;
  • In caso di morte del lavoratore prima che abbia maturato il diritto alla pensione, sono gli eredi o i beneficiari eventualmente indicati dal lavoratore stesso a poter chiedere il riscatto, siano essi persone fisiche o giuridiche.

In mancanza di tali soggetti, la posizione, limitatamente alle forme pensionistiche complementari individuali, viene devoluta a finalità sociali secondo le modalità stabilite con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali.

Nelle forme pensionistiche complementari collettive, la suddetta posizione resta invece acquisita al fondo pensione stesso;

5.4.5. La portabilità

Come già anticipato, l’iscritto ha la possibilità di trasferire l’intera posizione individuale maturata ad altra forma pensionistica, purché siano decorsi due anni dalla data di partecipazione ad una forma pensionistica complementare (in merito, art. 14 comma 6 D.Lgs. n. 252/2005).

Le operazioni di trasferimento delle posizioni pensionistiche sono esenti da ogni onere fiscale, all’unica condizione che avvengano a favore di forme pensionistiche disciplinate dal D.Lgs. n. 252/2005.

Sono altresì esenti da ogni onere fiscale i trasferimenti delle risorse o delle riserve matematiche da un fondo pensione o da una forma pensionistica individuale ad altro fondo pensione o ad altra forma pensionistica individuale.

Gli adempimenti a carico delle forme pensionistiche complementari conseguenti all’esercizio delle facoltà di cui al presente articolo devono essere effettuati entro il termine massimo di sei mesi dalla data di esercizio stesso (art. 14 comma 8 D.Lgs. n. 252/2005).

In questi casi di trasferimento si parla di c.d. portabilità.

Occorre precisare che la portabilità incontra un limite, di fatto, in quanto se è sempre possibile il trasferimento da un fondo pensione chiuso ad uno aperto o ad un PIP, al contrario il trasferimento da un fondo chiuso ad un ulteriore fondo chiuso risulta possibile esclusivamente nel caso il lavoratore sia in possesso dei requisiti di partecipazione al fondo espressamente stabiliti nel contratto o nell’accordo collettivo.

Nel caso invece di trasferimento d’azienda ex art. 2112 c.c. con contestuale modifica del CCNL di riferimento applicato dal cessionario rispetto a quello del cedente, il lavoratore trasferito si vede costretto ad abbandonare il fondo chiuso previsto dal precedente contratto applicato dal cedente ed aderire al fondo chiuso previsto dal CCNL del cessionario.

Ovviamente, è sempre fatta salva la possibilità per il lavoratore di aderire ad un diverso fondo individuale o a un PIP.

 

5.5. La RITA (Rendita integrativa temporanea anticipata)

La legge di Bilancio 2017, legge n. 232/2016, ha introdotto la possibilità di richiedere l’anticipazione – in tutto o in parte – delle prestazioni della previdenza complementare (c.d. RITA, Rendita Integrativa Temporanea Anticipata).

5.5.1. Requisiti

L’art. 1, commi da 188 a 192, della legge n. 232/2016 ha dunque, in via sperimentale e per il periodo dal 1º maggio 2017 al 31 dicembre 2018, previsto la possibilità, per i lavoratori iscritti alle forme a contribuzione definita, che su richiesta dell’aderente le prestazioni delle forme pensionistiche complementari venissero erogate sotto forma di rendita temporanea, denominata RITA, decorrente dal momento dell’accettazione della richiesta fino al conseguimento dei requisiti di accesso alle prestazioni nel regime obbligatorio e consistente nell’erogazione frazionata, per il periodo considerato, del montante accumulato richiesto.

Successivamente, l’art. 1 della legge n. 205/2017 (legge di Bilancio 2018), al comma 169, ha abrogato i commi 188-191 dell’art. 1 della legge n. 232/2016 e, al comma 168, ha dettato la nuova disciplina della RITA a regime, che pertanto risulta ora contenuta nei commi da 4 a 4-quinquies dell’art. 11 del D.Lgs.  n. 252/2005.

A far data dal 1° gennaio 2018 dunque la RITA non è più prevista in via sperimentale ma è stata stabilizzata e resa più agevole.

Dunque, risultano potenziali beneficiari:

  1. I lavoratori che:
  • maturino l’età anagrafica per la pensione di vecchiaia nel regime obbligatorio di appartenenza entro i cinque anni successivi;
  • abbiano maturato alla data di presentazione della domanda di accesso alla rendita integrativa un requisito contributivo complessivo di almeno venti anni nei regimi obbligatori di appartenenza.
  1. I lavoratori che:
  • risultino inoccupati per un periodo di tempo superiore a ventiquattro mesi
  • maturino l’età anagrafica per la pensione di vecchiaia nel regime obbligatorio di appartenenza entro i dieci anni successivi.

Costoro potranno richiedere alle prestazioni delle forme pensionistiche complementari, con esclusione di quelle in regime di prestazione definita, l’erogazione della RITA, decorrente dal momento dell’accettazione della richiesta e fino al conseguimento dell’età anagrafica prevista per la pensione di vecchiaia.

La RITA consistente nell’erogazione frazionata di un capitale, per il periodo considerato, pari al montante accumulato richiesto.

Ai fini della richiesta in rendita e in capitale del montante residuo non rileva la parte di prestazione richiesta a titolo di rendita integrativa temporanea anticipata.

La RITA ha carattere generale e si applica a tutti i lavoratori (inclusi i dipendenti pubblici) che abbiano aderito a una forma di previdenza complementare a contribuzione definita.

Come precisato dalla Circolare COVIP n. 888/2018, la nuova disciplina in materia di RITA non prevede la necessità del rilascio di una preventiva ed apposita attestazione da parte dell’INPS.

Generalmente i fondi pensioni prevedono un apposito modulo da compilare da parte dell’interessato per inoltrare la richiesta e per scegliere specificamente la percentuale di capitale maturato da destinare all’erogazione della RITA e il comparto di investimento del capitale destinato alla RITA. Nel caso non sia indicato il comparto di investimento, solitamente i fondi pensione investono il montante nel fondo garantito.

Occorre inoltre segnalare come la Rendita Integrativa Anticipata sia oggi cumulabile sia con l’APE volontario sia con l’APE sociale consentendo, pertanto, al lavoratore di usufruire contemporaneamente di entrambi i benefici, potendo inoltre modularli a seconda delle proprie esigenze.

5.5.2. Fruizione

Nello specifico, le prestazioni della previdenza complementare vengono dunque anticipate in forma di rendita – temporanea – decorrente dal momento dell’accettazione del fondo della richiesta formulata dal lavoratore e fino al conseguimento dell’età anagrafica prevista per la pensione di vecchiaia nel regime obbligatorio.

La rendita temporanea è quindi una erogazione frazionata di capitale, per il periodo richiesto dall’interessato, pari al montante accumulato anch’esso richiesto: spetta infatti all’iscritto al fondo stabilire quanta parte del montante accumulato impegnare a titolo di RITA e quanto invece mantenere all’interno del fondo pensione stesso.

Al contrario, la cadenza temporale del frazionamento della rendita viene invece spesso stabilito dal fondo pensione (ma vi sono fondi pensione che permettono anche in questo caso la scelta all’interessato). Il fondo pensione non può comunque stabilire un frazionamento di periodicità superiore ai tre mesi.

Va notato che, a mente dell’art. 4-ter del D.Lgs. n. 252/2005, il ricorso alla RITA viene incentivato fiscalmente.

Infatti, la parte imponibile della rendita anticipata, determinata secondo le disposizioni vigenti nei periodi di maturazione della prestazione pensionistica complementare, è assoggettata alla ritenuta a titolo d’imposta con l’aliquota del 15%, ridotta di una quota pari a 0,30 punti percentuali per ogni anno eccedente il quindicesimo anno di partecipazione a forme pensionistiche complementari con un limite massimo di riduzione di 6 punti percentuali.

A tal fine, se la data di iscrizione alla forma di previdenza complementare è anteriore al 1º gennaio 2007, gli anni di iscrizione anteriori al 2007 sono computati fino a un massimo di quindici.

Il percettore della rendita anticipata ha facoltà di non avvalersi della tassazione sostitutiva facendolo constare espressamente nella dichiarazione dei redditi; in tal caso la rendita anticipata è assoggettata a tassazione ordinaria.

Le somme erogate a titolo di RITA sono imputate, ai fini della determinazione del relativo imponibile, prioritariamente agli importi della prestazione medesima maturati fino al 31 dicembre 2000 e, per la parte eccedente, prima a quelli maturati dal 1º gennaio 2001 al 31 dicembre 2006 e successivamente a quelli maturati dal 1º gennaio 2007.

Come precisato dall’art. 4-quinquies del D.Lgs. n. 252/2005, anche le disposizioni fiscali di maggior favore trovano applicazione ai dipendenti pubblici che aderiscono alle forme pensionistiche complementari loro destinate.

La COVIP, nella circolare n. 888/2018, ha precisato che l’iscritto alla previdenza complementare possa in ogni momento esercitare la facoltà di interrompere e revocare l’erogazione della RITA, purché nel rispetto delle modalità stabilite da ciascuna forma pensionistica.

Nel caso in cui non venga utilizzata l’intera posizione individuale accantonata presso il fondo pensionistico a titolo di RITA, sulla porzione che residua, che rimane in gestione alla forma pensionistica complementare, l’iscritto può comunque chiedere anticipazioni e riscatti nei casi previsti e sopra già esaminati.

Restano altresì ed in ogni caso ferme le prerogative degli iscritti in tema di trasferimento della posizione individuale.

Tuttavia, in caso di richiesta di trasferimento, lo stesso dovrà riguardare l’intera posizione individuale e, quindi, anche la parte impegnata a titolo di RITA, con conseguente revoca della stessa.

Fabio Petracci
Alberto Tarlao
Centro Studi Corrado Rossitto di UNIONQUADRI

CASSAZIONE – Contenzioso di Lavoro e competenza del Giudice Fallimentare

Competono al Giudice Fallimentare le controversie che interessano in primo luogo un diritto patrimoniale del lavoratore.

Nel riparto di competenza tra il giudice del lavoro e quello del fallimento il discrimine va individuato nelle rispettive speciali prerogative, spettando al primo, quale giudice del rapporto, le controversie riguardanti lo “status” del lavoratore, in riferimento ai diritti di corretta instaurazione, vigenza e cessazione del rapporto, della sua qualificazione e qualità, volte ad ottenere pronunce di mero accertamento oppure costitutive, come quelle di annullamento del licenziamento e di reintegrazione nel posto di lavoro; rientrano, viceversa, nella cognizione del giudice del fallimento, al fine di garantire la parità tra i creditori, le controversie relative all’accertamento ed alla qualificazione dei diritti di credito dipendenti dal rapporto di lavoro in funzione della partecipazione al concorso e con effetti esclusivamente endoconcorsuali, ovvero destinate comunque ad incidere nella procedura concorsuale.

Lo ha ribadito il giudice di legittimità in una recente ordinanza. (Cass. civ. Sez. L, Ord. 22 agosto 2022, n. 25055)

Obblighi di informazione e non solo, nei confronti dei lavoratori di nuova assunzione

Seguendo le impostazioni della direttiva UE 20191152 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019, lo Stato italiano emana il DLGS 27 giugno 2022 n.104 che impone condizioni trasparenti al rapporto di lavoro.

La disposizione di legge in esame, va ad innovare il precedente DLGS 26 maggio 1997 n.152 emanato sulla base di precedenti direttive comunitarie che disciplinavano la materia.

Il provvedimento amplia e specifica gli obblighi di informazione dei datori di lavoro nei confronti dei loro dipendenti, stabilisce i termini di durata massima del patto di prova, i principi generali dello svolgimento da parte del lavoratore di molteplici prestazioni in parallelo.

A chi si applica questa normativa?

La normativa si applica a tutti i lavoratori subordinati del settore privato e pubblico, nonché a tutti quei rapporti di lavoro che normalmente si definiscono para–subordinati.

In cosa consiste?

Si impone così nell’ambito della gran parte dei rapporti di lavoro l’obbligo di una comunicazione chiara, trasparente e preventiva, di informazioni in forma cartacea oppure informatica accessibili al lavoratore ed al datore di lavoro, che dovranno essere conservate per almeno cinque anni dalla conclusione del rapporto di lavoro.

E nello specifico?

L’obbligo riguarda genericamente le condizioni di lavoro e nello specifico l’identità delle parti che instaurano il rapporto, il luogo di occupazione, la sede ed il domicilio del datore di lavoro, inquadramento, livello, qualifica del lavoratore, nel caso di rapporti a termine, la loro durata, nel caso di lavoratori somministrati, l’identità delle imprese utilizzatrici, la durata del periodo di prova, il diritto a ricevere la formazione erogata dal datore di lavoro, se prevista; la durata delle ferie e degli altri congedi retribuiti, le modalità di determinazione e di fruizione degli stessi, la procedura ed i termini del preavviso, l’importo iniziale della retribuzione con l’indicazione del periodo e delle modalità di erogazione, la programmazione dell’orario normale di lavoro, eventuali obblighi di prestazione dello straordinario e la sua retribuzione, informando il lavoratore di eventuali elementi di variabilità dell’orario, il contratto collettivo anche aziendale, applicato al rapporto con l’indicazione delle parti che lo hanno sottoscritto, il sistema previdenziale applicato al rapporto di lavoro, le modalità della prestazione qualora la stessa sia organizzata mediante sistemi decisionali o di monitoraggio autorizzate (cd piattaforme).

Le modalità dell’informazione.

Per quanto riguarda le modalità di informazione, la legge stabilisce che l’obbligo è assolto mediante la consegna al lavoratore, all’atto dell’instaurazione del rapporto di lavoro e prima dell’inizio dell’attività lavorativa, alternativamente:

  1. del contratto individuale di lavoro redatto per iscritto;
  2. della copia della comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro di cui all’articolo 9-bis del decreto-legge 1° ottobre 1996, n. 510, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 novembre 1996, n. 608. Quindi della comunicazione dell’instaurazione del rapporto di lavoro che viene comunicata all’Autorità competente.

Precisa la norma che, in ogni caso, le informazioni di cui al comma 1 eventualmente non contenute nei documenti di cui al comma 2, lettere a) e b), sono in ogni caso fornite per iscritto al lavoratore entro i sette giorni successivi all’inizio della prestazione lavorativa.

Altri obblighi di comunicazione incombono sul datore di lavoro in caso di risoluzione del rapporto. In tal caso, le informazioni citate, qualora non fornite all’atto dell’instaurazione del rapporto, vanno consegnate al lavoratore all’atto della cessazione del rapporto.

Ulteriori informazioni in merito alle informazioni da fornire sono accessibili per il tramite del sito internet del Ministero del Lavoro e per le pubbliche amministrazioni tramite il sito della funzione pubblica.

In caso di uso di sistemi e piattaforme informatiche

Per quanto attiene l’utilizzo di sistemi e piattaforme informatiche, è prevista una specifica informativa atta a comprendere le caratteristiche gli scopi e le finalità dei sistemi in relazione alle modalità del rapporto di lavoro, i criteri di programmazione e quelli usati per valutare le prestazioni, le misure di controllo adottate per le decisioni automatizzate, gli eventuali processi di correzione ed il responsabile del sistema di gestione della qualità.

Eventuali modificazioni delle condizioni oggetto di informazione vanno comunicate al lavoratore entro 24 ore.

A fronte di queste informazioni, il lavoratore, direttamente, o per il tramite delle rappresentanze sindacali, ha il diritto di accedere ai dati e di richiedere ulteriori informazioni.

Lavoratori distaccati all’estero.

Specifiche previsioni normative sono previste per i lavoratori che effettuano la loro prestazione all’estero in qualità di distaccati.

In quest’ultimo caso, alle informazioni già indicate ne vanno aggiunte ulteriori che riguardano:

  1. a) il paese o i paesi in cui deve essere svolto il lavoro all’estero e la durata prevista;
  2. b) la valuta in cui verrà corrisposta la retribuzione;
  3. c) le eventuali prestazioni ulteriori in denaro o in natura inerenti agli incarichi svolti;
  4. d) ove sia previsto il rimpatrio, le condizioni che lo disciplinano;
  5. e) la retribuzione cui ha diritto il lavoratore conformemente al diritto applicabile dello Stato membro ospitante;
  6. f) le eventuali indennità specifiche per il distacco e le modalità di rimborso delle spese di viaggio, vitto e alloggio;
  7. g) l’indirizzo del sito internet istituzionale dello Stato membro ospitante in cui sono pubblicate le informazioni sul distacco.

Tale normativa non si applica ai pubblici dipendenti operanti all’estero, al personale addetto alla pesca ed alla navigazione.

Sanzioni per mancato adempimento.

Competente in tema di sanzioni per la violazione delle norme sull’informativa è l’ispettorato del lavoro cui vanno inviate eventuali denunce.

Sono previste sanzioni pecuniarie in base alle vigenti disposizioni di legge, nonché ipotesi di responsabilità dirigenziale nell’ambito del pubblico impiego e penalizzazioni, in tale ambito, della misurazione della performance.

Il decreto legislativo in esame tocca inoltre, sempre su delega della normativa comunitaria, ulteriori aspetti del rapporto di lavoro, imponendo limiti anche alla contrattazione collettiva.

Il decreto legislativo interviene anche sul patto di prova.

E’ stabilito in primo luogo come il periodo di prova non possa superare la durata di 6 mesi.

E’ previsto inoltre che, in caso di sopravvenienza di eventi, quali malattia, infortunio, congedo di maternità o paternità obbligatori, il periodo di prova è prolungato in misura corrispondente alla durata dell’assenza.

Rimangono invece invariate le norme concernenti le assunzioni nel pubblico impiego che continuano ad essere disciplinate dall’articolo 17 del  DPR 487/1994.

Cumulo di impieghi.

Un altro tema importante ed influente sul nostro diritto del lavoro è contenuto nell’articolo 8 “cumulo di impieghi” laddove è sancito come il datore di lavoro non possa vietare al lavoratore lo svolgimento di altra attività lavorativa fuori orario, a meno che non sussistano ragioni concernenti la salute del lavoratore o ragioni concernenti conflitti di interessi anche non in violazione dell’articolo 2105 del codice civile.

La direttiva di cui riportiamo l’articolo 5 si profila meno restrittiva in quanto così sancisce:

Articolo 9

Impiego in parallelo

  1. Gli Stati membri provvedono affinché il datore di lavoro non vieti a un lavoratore di accettare impieghi presso altri datori di lavoro al di fuori della programmazione del lavoro stabilita con il primo né gli riservi un trattamento sfavorevole sulla base di tale motivo.
  2. Gli Stati membri possono stabilire condizioni per il ricorso a restrizioni di incompatibilità da parte dei datori di lavoro sulla base di motivi oggettivi quali la salute e la sicurezza, la protezione della riservatezza degli affari, l’integrità del servizio pubblico e la prevenzione dei conflitti di interessi.

Notoriamente, la giurisprudenza anche di legittimità sul punto è alquanto restrittiva arrivando ad elaborare un concetto di concorrenzialità potenziale ed ipotetico che comporta il licenziamento.

Ne deriva che l’introduzione di questa nuova disposizione di legge potrebbe comportare nuovi indirizzi giurisprudenziali sul punto.

Lavori con tempistiche variabili.

A seguito dei maggiori doveri di informazione che incombono sul datore di lavoro, il decreto legislativo in questione impone un dovere di informazione e predeterminazione, almeno di massima, dei termini temporali della prestazione. Diversamente, stabilisce la norma come il lavoratore possa lecitamente rifiutare la prestazione.

Il datore di lavoro inoltre deve in questi casi, informare il lavoratore dell’ammontare delle ore minime garantite, su base settimanale, stabilite dal contratto collettivo.

Ulteriore normativa impone al datore di lavoro in caso di revoca le prestazioni già fissate e comunicate al lavoratore di riconoscere in ogni caso al lavoratore il pattuito.

E ribadito inoltre il ruolo della formazione, dal momento che essa se prevista dalla legge o dalla contrattazione, deve essere garantita a tutti i lavoratori in maniera gratuita e svolgersi durante l’orario di lavoro.

Fabio Petracci

Lvoro precario

In vigore il nuovo codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (d.lgs. n. 83/2022)

1. Premessa; 2. Procedure di insolvenza e PNRR; 3. Struttura del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza mediante l’approfondimento del decreto legislativo n. 83/2022.

  1. PREMESSA

Il nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (CCII), ovvero il D.lgs. n.14/2019, è entrato in vigore il 15 luglio 2022 mediante il D.Lgs. n. 83/2022, recante “modifiche al codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza”.

Il governo italiano, sempre mediante il decreto legislativo sopracitato, ha inserito all’interno del CCII le disposizioni del D.L. 118/2021 in materia di composizione negoziata della crisi e ha dato attuazione alla direttiva (UE) 2019/1023 (Direttiva Insolvency) del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019 – riguardante i quadri di ristrutturazione preventiva, l’esdebitazione e le interdizioni, e le misure volte ad aumentare l’efficacia delle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione – e che modifica la direttiva (UE) 2017/1132 (direttiva sulla ristrutturazione e sull’insolvenza).

La modifica più rilevante riguarda gli “adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili”, i quali acquistano un ruolo più significativo rispetto al passato. Inoltre, la composizione negoziata sostituisce definitivamente l’OCRI (organismi di composizione della crisi d’impresa).  Ancora, tra gli obblighi dei creditori qualificati, viene aggiornata la “transazione fiscale”. Rientra tra le novità più importanti l’accantonamento del sistema di allerta, il quale era previsto nella stesura originaria del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (D.lgs. n. 14/2019).

  1. PROCEDURE DI INSOLVENZA E PNRR

La crisi dovuta all’emergenza pandemica ha provocato lo slittamento di quasi due anni dalla data originariamente prevista (15 agosto 2020) per l’entrata in vigore del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza. Dall’altra parte però, tale ritardo ha consentito di allineare il CCII alle modifiche introdotte in sede di attuazione della sopraccitata Direttiva comunitaria del 2019.

Tra gli obiettivi prioritari del PNRR (il piano nazionale di ripresa e resilienza) vi sono gli interventi di modifica al Codice dell’insolvenza di cui al decreto legislativo n. 14 del 2019.

“In merito, negli allegati al PNRR il Governo prevede di apportare modifiche al c.d. Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza:

  • Attuando la direttiva UE n. 1023/2019, relativa alle procedure di ristrutturazione, insolvenza ed esdebitazione;
  • Rivedendo gli accordi di risoluzione extragiudiziale al fine di incentivare le parti a farne un maggior uso; potenziando i meccanismi di allerta;
  • Specializzando gli uffici giudiziari e le autorità amministrative competenti per le procedure concorsuali;
  • Implementando la digitalizzazione delle procedure anche attraverso la creazione di una apposita piattaforma online.

Il Piano prevede che la riforma possa essere attuata entro il quarto trimestre 2022”.

  1. STRUTTURA DEL CODICE DELLA CRISI D’IMPRESA E DELL’INSOLVENZA MEDIANTE L’APPROFONDIMENTO DEL DECRETO LEGISLATIVO N. 83/2022

Come ben esplicitato dal dossier di documentazione della Camera dei deputati – Servizi Studi, di cui si riporta qui di seguito, “il decreto legislativo n. 83 del 2022, che è stato emanato dopo aver acquisito i pareri favorevoli delle Commissioni Giustizia di Camera e Senato sullo schema di decreto A.G. 374, si compone di due capi.

Il Capo I (articoli da 1 a 45) provvede ad attuare la Direttiva n. 2019/1023 attraverso modifiche al Codice della crisi e dell’insolvenza, di cui al decreto legislativo n. 14 del 2019.

Alcune modifiche sono di coordinamento, in quanto conseguono a soppressioni, modifiche o introduzione di alcuni istituti del Codice, come la soppressione degli organismi di composizione della crisi di impresa (OCRI) e l’introduzione dei quadri di ristrutturazione preventiva.

Numerose sono le modifiche di carattere sostanziale.

Gli articoli da 1 a 5 del decreto legislativo n. 83 del 2022 apportano alcune modificazioni alle disposizioni generali, di cui al Titolo I del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in particolare:

  • La definizione di quadri di ristrutturazione preventiva, intesi come strumenti finalizzati a permettere la ristrutturazione in una fase precoce, prevenire l’insolvenza ed evitare la liquidazione;
  • La necessità che l’imprenditore predisponga un assetto organizzativo, amministrativo e contabile idoneo a rilevare tempestivamente e ad affrontare lo stato di crisi, con l’indicazione dei segnali d’allarme che vanno considerati indice di una possibile crisi;
  • La procedura di informazione e consultazione dei sindacati nell’ambito di un quadro di ristrutturazione preventiva;
  • La creazione di un’apposita sezione dedicata alla crisi d’impresa sui siti internet dei Ministeri della giustizia e dello sviluppo economico per favorire l’accesso degli utenti, in particolare debitori, rappresentanti dei lavoratori e PMI, alle informazioni su strumenti e procedure per la soluzione delle crisi.

L’articolo 6 sostituisce integralmente il Titolo II, originariamente dedicato alle procedure di allerta e di composizione assistita della crisi, per inserirvi le disposizioni già in vigore a seguito degli interventi d’urgenza operati nel corso del 2021 (i già citati d.l. n. 118/2021 e d.l. n. 152/2021) per la realizzazione degli obiettivi del PNRR.

Il nuovo Titolo II disciplina l’istituto della composizione negoziata per la soluzione della crisi d’impresa, il cui obiettivo è superare la situazione di squilibrio dell’impresa prima che si arrivi all’insolvenza. Viene quindi disciplinata una procedura stragiudiziale, da attivare presso la Camera di commercio, che prevede il coinvolgimento di un esperto che affianca l’imprenditore commerciale (o agricolo), a garanzia dei creditori e delle altre parti interessate. L’esperto, nominato da una apposita commissione, è una figura professionale (si tratta prevalentemente di commercialisti, avvocati e consulenti del lavoro) dotata di precedenti esperienze nel campo della soluzione di crisi d’impresa, incaricata di valutare le ipotesi di risanamento, individuare entro 180 giorni una soluzione adeguata e redigere, al termine dell’incarico, una relazione che verrà inserita nella piattaforma unica nazionale e comunicata all’imprenditore. Nel corso della procedura è prevista l’applicazione di agevolazioni fiscali e di misure protettive a favore dell’imprenditore per limitare le possibilità di azione nei suoi confronti da parte dei creditori e precludere il pronunciamento di sentenze di fallimento o di stato di insolvenza.

Una specifica disciplina è inoltre dettata per l’applicazione del nuovo istituto ai gruppi di imprese e alle imprese di minori dimensioni.

Gli articoli da 7 a 13 intervengono sul Titolo III al fine di recepire la direttiva con riferimento al procedimento unitario per l’accesso ai quadri di ristrutturazione preventiva. In particolare, vengono regolati i rapporti tra procedure pendenti nei confronti del medesimo debitore e domande di accesso ai diversi strumenti di composizione della crisi.

Altri interventi di recepimento della direttiva riguardano:

  • La disciplina dell’apertura del concordato preventivo, con particolare riferimento al giudizio di ammissibilità del tribunale, che viene differenziato a seconda che si tratti di concordato liquidatorio o di concordato in continuità aziendale, e ponendo limiti più stringenti nel primo caso;
  • La semplificazione delle procedure di verifica giudiziale che portano alla sentenza di omologazione del concordato e alla sentenza di omologazione degli accordi di ristrutturazione;
  • Gli effetti della revoca dell’omologazione del concordato preventivo in continuità aziendale, prevedendosi che in caso di accoglimento del reclamo proposto avverso la sentenza di omologazione la corte d’appello possa confermare la sentenza di omologazione se l’interesse generale dei creditori e dei lavoratori prevale rispetto al pregiudizio subito dal reclamante;
  • La concessione di misure cautelari e protettive, che possono essere richieste anche nel corso delle trattative e prima del deposito della domanda di omologazione ma dalle quali sono sempre esclusi i diritti di credito dei lavoratori; vengono inoltre dettate norme in ordine alla durata, alla proroga o alla revoca delle misure stesse.

Gli articoli da 19 a 25 del decreto legislativo modificano il Titolo IV del Codice, in materia di strumenti di regolazione della crisi. Le principali disposizioni a carattere innovativo sono volte a:

  • Predisporre un nuovo strumento (piano di ristrutturazione soggetto a omologazione) per il debitore che si trovi in stato di crisi o di insolvenza, prevedendo che lo stesso debitore possa prevedere il soddisfacimento dei creditori, previa suddivisione in classi degli stessi secondo posizione giuridica e interessi economici omogenei;
  • Prevedere sia la possibilità di conversione del piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione in concordato preventivo, che l’ipotesi inversa;
  • Adeguare alle disposizioni della Direttiva la disciplina del concordato preventivo, sia in continuità aziendale – attraverso la gestione diretta dell’imprenditore o indiretta, secondo quanto previsto dal piano di ristrutturazione, nell’interesse dei creditori e a tutela dei lavoratori – sia di liquidazione – conformando la relativa procedura ai principi di efficienza, pubblicità, trasparenza e celerità;
  • Sancire il principio generale della facoltatività della suddivisione in classi;
    modificare la disciplina della moratoria dei creditori privilegiati nel concordato in continuità aziendale, al fine di limitare a 6 mesi la possibilità di dilazionare il pagamento dei crediti di lavoro;
  • Prevedere, in caso di concordato in continuità, l’omologazione anche in assenza di adesione dell’amministrazione finanziaria o degli enti gestori di forme di previdenza o assistenza obbligatorie;
  • Disciplinare i rapporti esistenti tra i creditori ed il debitore nei contratti pendenti e in corso di esecuzione durante le trattative del concordato in continuità aziendale;
  • Inserire nella disciplina sulla convocazione dei creditori anche il piano di concordato tra i documenti da comunicare ai creditori prima delle operazioni di voto;
  • Introdurre specifiche disposizioni sul concordato in continuità aziendale, con le quali si dispone che quest’ultimo sia approvato se tutte le classi votano a favore;
  • Precisare il contenuto delle verifiche compiute dal tribunale nell’ambito del giudizio di omologazione, nonché le regole dell’omologazione tramite ristrutturazione trasversale e le regole del giudizio di convenienza;
  • Stabilire il termine di dodici mesi dalla presentazione della domanda per la conclusione del giudizio di omologazione;
  • Estendere al commissario giudiziale e al liquidatore giudiziale, analogamente a quanto disposto per il curatore, la possibilità di revoca e sostituzione;
  • Sospendere il diritto di recesso dei soci fino all’attuazione del piano nel caso in cui il piano preveda il compimento di operazioni di trasformazione, fusione e scissione;
  • Introdurre nel Codice una nuova Sezione VI-bis contenente disposizioni specifiche sui quadri di ristrutturazione preventiva da parte delle società, recependo i principi di cui all’articolo 12 della Direttiva, al fine di favorire la continuità delle attività aziendali.

Gli articoli da 26 a 34 apportano limitate modifiche nel Titolo V relativo alla liquidazione giudiziale, riguardanti:

  • La possibilità per ciascun creditore di chiedere la sostituzione del curatore e la liberazione del debitore da qualsivoglia causa di ineleggibilità o decadenza a seguito di esdebitazione;
  • L’efficientamento delle procedure di insolvenza e la riduzione della loro durata;
  • La liquidazione controllata del debitore sovraindebitato solo a fronte di debiti scaduti pari ad almeno 50 mila euro.

Gli articoli 35 e 36 intervengono sulle disposizioni relative ai gruppi di imprese, di cui al Titolo VI, allo scopo di rafforzare la già prevista prevalenza della continuità aziendale sulla liquidazione dell’impresa, purché risulti che in tal modo venga maggiormente soddisfatto l’interesse dei creditori. Quando sia accertata tale circostanza, è infatti prevista la limitazione per i creditori dissenzienti della possibilità di opporsi e si dispone che il piano venga omologa dal tribunale. Acquistano inoltre rilievo nella procedura i vantaggi compensativi che derivano alle singole imprese dalla presentazione di un piano unico per l’intero gruppo di imprese.

Le modifiche recate dagli articoli 37 e 38 al Titolo VII, in materia di liquidazione coatta amministrativa, riguardano in particolare:

  • la figura del commissario liquidatore, che viene maggiormente uniformata a quella del curatore, sia sotto il profilo professionale, sia avendo riguardo al procedimento da osservare per una sua eventuale revoca;
  • l’eliminazione dei creditori pubblici qualificati dai soggetti che devono riferire all’autorità di vigilanza circa l’esistenza di segnali di allarme.

Gli articoli 39 e 40 e gli articoli da 41 a 44 apportano modifiche di coordinamento, rispettivamente, al Titolo IX (disposizioni penali) e al Titolo X (disposizioni di attuazione), motivate dall’esigenza di correggere i riferimenti alle procedure di allerta di cui al Titolo II, che è stato integralmente riscritto dal decreto in esame. In particolare, viene eliminato il reato di falso nelle attestazioni dei componenti dell’OCRI, organismo soppresso a seguito della suddetta riscrittura.

Infine, il Capo II dello schema di decreto legislativo (articoli da 46 a 51) con finalità di coordinamento:

  • abroga alcune disposizioni contenute nei decreti – legge n. 118 e n. 152 del 2021, in conseguenza dell’inserimento nel corpo del Codice delle corrispondenti norme;
  • abroga parzialmente il decreto legislativo n. 147 del 2020, correttivo del Codice, le cui modifiche, che non sono mai entrate in vigore, risultano ora superate dall’attuazione della direttiva e dall’intervento in commento;
  • coordina il contenuto del decreto legislativo n. 270 del 1999, relativo all’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, operando un aggiornamento dei richiami normativi interni;
  • prevede l’entrata in vigore del decreto legislativo il giorno dell’entrata in vigore del Codice ossia il 15 luglio 2022;
  • afferma l’invarianza finanziaria del provvedimento, con l’unica eccezione dei costi connessi all’istituzione della piattaforma telematica nazionale per la composizione negoziata della crisi d’impresa, peraltro già coperti in base alla normativa vigente”.

A cura della Sig.na Lili Liu, studentessa di Giurisprudenza presso l’Università di Trieste
Centro Studi Corrado Rossitto di CIU UNIONQUADRI

SENTENZA CASSAZIONE – La prescrizione decorre dalla cessazione del rapporto di lavoro per tutti i rapporti non dotati di stabilità reale.

Un importante sentenza della Corte di Cassazione allunga i termini di prescrizione anche nelle grandi aziende che superano il numero di dipendenti per l’applicazione dell’articolo 18 legge 300/70.

Un importante sentenza della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro 6.9.2022 n.26246 in riforma a sentenza della Corte d’Appello di Brescia ha statuito come dopo le riforme che hanno reso solo eventuale il reintegro del lavoratore licenziato illegittimamente anche nelle aziende che superano le dimensioni previste dall’articolo 18 legge 300/70, abbiano comportato l’estensione a queste ultime del regime di decorrenza della prescrizione dalla cessazione del rapporto di lavoro.

Ai crediti retributivi di lavoro si applica la prescrizione quinquennale siccome disposto dagli articoli 2948 n.4, 2955 n.2, 2956 n.1, del codice civile.

Nel 1966, la Corte Costituzionale( Corte Cost. 10 giugno 1966, n. 63),  dichiarava l’illegittimità di questi articoli nella parte in cui prevedevano il decorrere della prescrizione in costanza del rapporto di lavoro.

La Corte anche tenendo in considerazione il principio di irrinunciabilità della retribuzione in forza dell’articolo 36 della Costituzione e del fondato dubbio che il lavoratore fosse spinto a non agire contro il proprio datore di lavoro neppure inviando una lettera per l’interruzione della prescrizione, ebbe a ritenere la permanenza del rapporto di lavoro come ragione ostativa al decorrere della prescrizione.

Allorquando entrò in vigore lo statuto dei lavoratori , legge 300/70 che all’articolo 18 garantiva la reintegra nel caso di licenziamento illegittimo nelle aziende di maggiori dimensioni, venne in parte meno questa ragione.

In tal modo, la permanenza del rapporto permaneva come ragione ostativa al decorrere della prescrizione soltanto per i rapporti che l’articolo 18 della legge 300/70 escludeva dalla reintegra nel caso di licenziamento illegittimo. (Corte Costituzionale n. 174/1972).

Con l’entrata in vigore della legge n.92/2012 (legge Fornero) e del DLGS 23/2015 (Jobs Act) la stabilità reale del rapporto di lavoro con la conseguente reintegra in caso di licenziamento illegittimo divenne l’eccezione e non la regola.

Tornavano quindi attuali i dubbi sollevati dalla Corte Costituzionale nel 1966 che i lavoratori in assenza di una tutela reale, potessero essere indotti a non interrompere la prescrizione.

La sentenza oggi in esame ritiene come la mutata situazione renda attuale la situazione paventata a suo tempo dalla Corte Costituzionale e ritiene quindi che la prescrizione dei crediti di lavoro debba sempre decorrere dalla cessazione del rapporto.

Resta fermo come nei rapporti dotati di stabilità reale, come nel caso del pubblico impiego, la prescrizione continui a decorrere anche in costanza di rapporto.

Fabio Petracci

Di seguito, la motivazione della cennata decisione della Corte di Cassazione:

Motivi della decisione

  1. Con unico motivo, le ricorrenti deducono violazione degli artt. 29352948c.c., n. 4 L. n. 300 del 1970art. 18art. 36 Cost., per avere la Corte territoriale errato, alla luce dell’insegnamento della Corte costituzionale (sentenze n. 62 del 1966, n. 143 del 1969, n. 174 del 1972) e della giurisprudenza di legittimità, nel ritenere, anche dopo la novellazione del L. n. 300 del 1970 art. 18, con le riforme della L. n. 92 del 2012 e del D.Lgs. n. 23 del 2015, la vigenza del regime di stabilità del rapporto di lavoro: tale essendo un rapporto che abbia come forma ordinaria di tutela quella reale, in tutte le ipotesi di licenziamento non sorretto da giusta causa o giustificato motivo, o comunque illegittimo. Esse stimano pertanto irrilevante, a tal fine, il diritto alla reintegrazione, nelle ipotesi di nullità o di inefficacia del licenziamento, in quanto previste anche nell’area di applicabilità della L. n. 604 del 1966 (di tutela obbligatoria), incontestabilmente riconosciuta come non assistita da un regime di stabilità.

In via subordinata, le lavoratrici prospettano una questione di illegittimità costituzionale degli artt. 2935 e 2948, n. 4 c.c., con riferimento all’art. 36 Cost., qualora interpretati nel senso dell’integrazione di un regime di stabilità del rapporto di lavoro, idoneo ad impedire il timore del prestatore alla tutela dei propri diritti, assistito da un dispositivo sanzionatorio che preveda la tutela reintegratoria per la sola ipotesi di licenziamento ritorsivo e, più in generale, così come realizzato dalle modifiche apportate al L. n. 300 del 1970 art. 18, dal L. n. 92 del 2012 art. 1, comma 42 e dagli D.Lgs. n. 23 del 2015 artt. 23 e 4.

  1. Esso è fondato.
  2. La questione devoluta, per la prima volta, a questa Corte è scolpita nella formulazione, in via subordinata, del quesito relativo al dubbio di incostituzionalità, in ordine alla permanenza (tuttora) della garanzia, nel rapporto di lavoro degli occupati in imprese aventi i requisiti dimensionali stabiliti dal L. n. 300 del 1970art. 18, a seguito delle modifiche apportate dall’art. 1comma 42 della L. n. 92 del 2012 e dagli artt. 3 e 4 del D.Lgs. n. 23 del 2015, di quel regime di stabilità in presenza del quale l’art. 2948, n. 4 c.c., cosi come risultante a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 63 del 1966 e delle successive (in particolare: Corte Cost. n. 143 del 1969n. 86 del 1971 e n. 174 del 1972), consenta il decorso della prescrizione in costanza di rapporto di lavoro.

Ed è questione che, senza accedere alla Corte costituzionale, ben può essere affrontata e risolta in continuità sostanziale con l’insegnamento di oltre un cinquantennio di elaborazione giurisprudenziale (il cd. “diritto vivente”), nella responsabile consapevolezza dell’indubbio e significativo cambiamento operato dalle riforme intervenute sul sistema introdotto dalla L. n. 300 del 1970, cui non si può semplicemente replicare con argomenti che non tengano di ciò conto.

Se quella suindicata è la questione in esame, il suo focus è costituito dalla individuazione del termine di decorrenza della prescrizione quinquennale, ai sensi dell’art. 2948, n. 4 c.c., in relazione all’art. 2935 c.c. (momento dal quale il diritto possa essere fatto valere), per i crediti retributivi del lavoratore in ragione del regime di (“adeguata”) stabilità o meno del rapporto di lavoro.

  1. Ebbene, l’art. 2948, n. 4 c.c. deve essere letto (così come gli artt. 2955, n. 2 e 2956, n. 1 c.c.) nella sua accezione costituzionalmente legittima, in esito ai noti interventi evolutivi della Corte costituzionale:
  2. a) dapprima, di illegittimità costituzionale, in riferimento all’ 36Cost., limitatamente alla parte che consente la decorrenza della prescrizione del diritto alla retribuzione durante il rapporto di lavoro (Corte Cost. 10 giugno 1966, n. 63), sulla base dell’esistenza di “ostacoli materiali”, individuati nel”la situazione psicologica del lavoratore, che può essere indotto a non esercitare il proprio diritto… per timore del licenziamento; cosicchè la prescrizione, decorrendo durante il rapporto di lavoro, produce proprio quell’effetto che l’art. 36 ha inteso precludere vietando qualunque tipo di rinuncia: anche quella che, in particolari situazioni, può essere implicita nel mancato esercizio del proprio diritto e pertanto nel fatto che si lasci decorrere la prescrizione” (sub p.to 3 del Considerato in diritto);
  3. b) successivamente, di delimitazione del perimetro della suddetta pronuncia, nel senso di non estensibilità ai rapporti di pubblico impiego (sia con lo Stato, sia con altri enti pubblici), per avere questi una particolare forza di resistenza, data da una disciplina che normalmente assicura la stabilità del rapporto, o dalle garanzie di rimedi giurisdizionali avverso la sua illegittima risoluzione, tali da escludere che il timore del licenziamento possa indurre l’impiegato a rinunziare ai propri diritti (Corte Cost. 20 novembre 1969, n. 143, Considerato in diritto, p.to 1);
  4. c) quindi, in coerente sviluppo interpretativo del principio (di stabilità del rapporto) affermato da quest’ultima sentenza, fatto allora “valere per i rapporti di pubblico impiego statali, anche se di carattere temporaneo”, di “applicazione in tutti i casi di sussistenza di garanzie che si possano ritenere equivalenti a quelle disposte per i rapporti medesimi”: e pertanto, verificandosi una siffatta analogia, a quei rapporti di lavoro, ai quali siano applicabili le leggi n. 604 del 15 luglio 1966,  n. 300 del 20 maggio 1970, “di cui la seconda deve considerarsi necessaria integrazione della prima, dato che una vera stabilità non si assicura se all’annullamento dell’avvenuto licenziamento non si faccia seguire la completa reintegrazione nella posizione giuridica preesistente fatta illegittimamente cessare” (Corte Cost. 12 dicembre 1972, n. 174, Considerato in diritto, p.to 3).

4.1. Nel solco dell’indirizzo della giurisprudenza costituzionale, si è posta anche questa Corte di legittimità, che, con un noto arresto nella sua più autorevole composizione, ha ben chiarito la distinzione del doppio regime di (decorrenza della) prescrizione, a seconda della stabilità o meno del rapporto di lavoro. Essa ha così enunciato il principio, poi costantemente seguito, di non decorrenza della prescrizione dei crediti di lavoro durante il rapporto di lavoro solo per quei rapporti non assistiti dalla garanzia della stabilità: dovendosi ritenere stabile ogni rapporto che, indipendentemente dal carattere pubblico o privato del datore di lavoro, sia regolato da una disciplina la quale, sul piano sostanziale, subordini la legittimità e l’efficacia della risoluzione alla sussistenza di circostanze obbiettive e predeterminate e, sul piano processuale, affidi al giudice il sindacato su tali circostanze e la possibilità di rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo. Il che, se per la generalità dei casi coincide(va) attualmente con l’ambito di operatività della L. n. 300 del 20 maggio 1970, (dati gli effetti attribuiti dall’art. 18 all’ordine di riassunzione, ben più incisivi di quelli previsti dal L. n. 604 del 15 luglio 1966art. 8), può anche realizzarsi ogni qual volta siano applicabili le norme del pubblico impiego o leggi speciali o specifiche pattuizioni che diano al prestatore d’opera una tutela di pari intensità (Cass. s.u. 12 aprile 1976, n. 1268).

  1. Appare evidente che la stabilità del rapporto di lavoro si fondi su una disciplina che, sul piano sostanziale, subordini la legittimità e l’efficacia della risoluzione alla sussistenza di circostanze obbiettive e predeterminate e, sul piano processuale, affidi al giudice il sindacato su tali circostanze e la possibilità di rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo. Al tempo stesso, come essa si saldi con la decorrenza della prescrizione, ai sensi del combinato disposto degli artt. 2935 e (in particolare) 2948, n. 4 c.c. (nella sua lettura costituzionalmente legittima), nel corso del rapporto, mano a mano che maturino i diritti che il lavoratore possa far valere; essa decorrendo invece dalla sua cessazione, qualora non vi sia stabilità del rapporto.

5.1. E’ risaputo che la prescrizione, in quanto modalità generale di estinzione (per non esercizio per un tempo determinato dalla legge) dei diritti, sia istituto che invera il principio di certezza del diritto, in riferimento particolare alla sua decorrenza, ossia al momento in cui il diritto medesimo possa essere fatto valere. Giova qui sottolinearne la fondamentale importanza, prima ancora che sul piano normativo ordinamentale, sul piano della stessa civiltà giuridica di un Paese, quale principio di affidabilità per tutti: sull’effettività dei diritti e sulla loro tutela, sulle relazioni familiari e sociali, sulle transazioni economiche e finanziarie. E come esso si rifletta sulla stessa attrattività di uno Stato, per investimenti e iniziative di intrapresa economica in senso lato, in un sistema di relazioni e di scambi internazionali da tempo strettamente interconnesso, nella crescente contendibilità tra ordinamenti, soprattutto nel mondo del lavoro e delle imprese.

Se questo è allora il tema, occorre che sia garantita una conoscenza, in termini di generalità e di sicura predeterminazione, di quali siano le regole che presiedono all’accesso dei diritti, alla loro tutela e alla loro estinzione.

Pertanto, dovendo ora tali regole essere conformate ad una disciplina dei rapporti di lavoro (instaurati con datori in possesso dei requisiti dimensionali prescritti dal L. n. 300 del 1970 art. 18, comma ottavo e 9, nel testo novellato dal L. n. 92 del 2012 art. 1, comma 42, lett. b) e pure richiamato dall’art. 1, comma 3 D.Lgs. n. 23/2015) più flessibilmente modulata in ordine alle tutele previste, a seconda delle vari ipotesi di licenziamento (queste pure suscettibili di una diversa qualificazione, rispetto alla domanda, in sede giurisdizionale), il criterio di individuazione del dies a quo di decorrenza della prescrizione dei diritti del lavoratore deve soddisfare un’esigenza di conoscibilità chiara predeterminata e di semplice identificazione.

Ciò presuppone che, fin dall’instaurazione del rapporto, ognuna delle parti sappia quali siano i diritti e soprattutto, per quanto qui rileva, quando e “fino a quando” possano essere esercitati: nel rispetto e nell’interesse del lavoratore, destinatario della previsione in quanto soggetto titolare dei diritti; ma parimenti del datore di lavoro, che pure deve conoscere quali siano i tempi di possibili rivendicazioni dei propri dipendenti, per programmare una prudente, e soprattutto informata, organizzazione della propria attività d’impresa e della sua prevedibile capacità di sostenere il rischio di costi e di oneri, che quei tempi comportino.

In realtà, si tratta di interessi (sia pure espressione di posizioni soggettive diversamente collocate nell’organizzazione dell’impresa, rette da un rapporto di subordinazione e tuttavia non antagoniste) largamente convergenti, in una prospettiva più ampia, che sempre andrebbe considerata nell’interpretazione e nella prassi operativa: perchè i rapporti di lavoro sono intimamente implicati nella vita dell’impresa, di cui costituiscono componente intrinseca costituendo essi stessi impresa. E si tratta di un’implicazione tale da modularne la disciplina, siccome decisivamente condizionata dal dato obiettivo dell’andamento dell’impresa medesima, in una sorta di comunione di destino.

Al riguardo, merita avere chiara la distinzione tra il diritto al lavoro, riconosciuto a tutti i cittadini dalla Repubblica, la quale ne promuove (secondo un’evidente declinazione non già descrittiva, ma imperativa del verbo) le condizioni che lo rendano effettivo (art. 4, comma 1 Cost.), dal diritto al posto di lavoro, invece oggetto di una regolamentazione specifica di tutela nelle relazioni interne all’impresa. Essa si constata con la massima evidenza nelle situazioni di crisi, nelle quali i due diritti si misurano in una naturale frizione, dovendo quasi sempre la tutela del posto di lavoro cedere a quella, di interesse più generale, del diritto al lavoro, inteso come compatibilità del più ampio mantenimento dell’occupazione possibile con la condizione di crisi data.

Ebbene, da tempo la Corte costituzionale ha letto in questa prospettiva l’art. 4, comma 1 Cost.:

ossia, nel senso che il diritto al lavoro riconosciuto ad ogni cittadino (pur non implicando un immediato diritto al conseguimento di un’occupazione nè, per coloro che siano già occupati, un diritto alla conservazione del posto) debba essere considerato un diritto fondamentale di libertà, che lo Stato necessariamente riscontri con l’obbligo di indirizzo dell’attività dei pubblici poteri alla creazione di condizioni che consentano il lavoro a tutti i cittadini, onde l’esigenza che il legislatore, per quanto di sua competenza, introduca garanzie adeguate e temperamenti opportuni nei casi in cui si renda necessario far luogo a licenziamenti (Corte Cost. 26 maggio 1965, n. 45, Considerato in diritto, p.to 4). E questo insegnamento, secondo cui, non essendo il diritto al lavoro assistito dalla garanzia di stabilità dell’occupazione, spetta al legislatore, “nel quadro della politica prescritta dalla norma costituzionale”, adeguare le tutele in caso di licenziamenti illegittimi, mantiene tutta la sua attualità nella sua recente ripresa da parte della stessa Corte costituzionale (sentenza 22 luglio 2022, n. 183, Considerato in diritto, p.to 4.2.).

  1. Ora, perchè del regime di stabilità o meno del rapporto lavorativo, ai fini di immediata e semplice individuazione del termine di decorrenza della prescrizione (in costanza di rapporto, nel primo caso; ovvero soltanto dalla sua cessazione, nel secondo), si abbia una chiara conoscibilità, in via di generale predeterminazione, occorre che esso risulti:
  2. a) fin dal momento della sua istituzione, qualora si tratti di un rapporto esplicitamente di lavoro subordinato a tempo tanto indeterminato, quanto determinato (in caso di successione di due o più contratti di lavoro a termine legittimi, per la decorrenza del termine di prescrizione dei crediti retributivi previsto dagli artt. 2948, n. 4, 2955, n. 2 e 2956, n. 1 c.c. dal giorno della loro insorgenza, nel corso del rapporto lavorativo e alla cessazione del rapporto, per quelli che maturino da tale momento, in ragione dell’autonoma e distinta considerazione dei crediti originati da ogni contratto, senza alcuna sospensione della prescrizione negli intervalli di tempo tra l’uno e l’altro, per la tassatività delle cause sospensive previste dagli  29412942c.c.; non sussistendo in tali casi il metus del lavoratore verso il datore, siccome presupposto da un rapporto a tempo indeterminato non assistito da alcuna garanzia di continuità: Cass. s.u. 16 gennaio 2003, n. 575Cass. 5 agosto 2019, n. 20918Cass. 19 novembre 2021, n. 35676);
  3. b) parimenti, qualora il rapporto sia stato stipulato tra le parti con una qualificazione non rappresentativa della sua effettività, priva di garanzia di stabilità, la quale sia poi accertata dal giudice, in relazione al concreto atteggiarsi del rapporto stesso nel corso del suo svolgimento, non già alla stregua di quella ad esso attribuita dal giudice all’esito del processo, con un giudizio necessariamente ex post ( s.u. 28 marzo 2012, n. 4942Cass. 12 dicembre 2017, n. 29774).

Infatti, l’individuazione del regime di stabilità (o meno) del rapporto lavorativo, ai fini qui d’interesse, in base alla qualificazione ad esso attribuita dal giudice, con un giudizio necessariamente ex post, contraddice radicalmente quei requisiti di chiara e predeterminata conoscibilità ex ante, coerente con l’esigenza di certezza sopra illustrata, per l’affidamento di una tale selezione, delicata e fondamentale, al pernicioso criterio del “caso per caso”, rimesso di volta in volta al singolo accertamento giudiziale, fonte di massima incertezza e di destabilizzazione del sistema.

  1. A questo punto, occorre allora verificare quale sia il regime attuale di stabilità del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, oggetto dell’odierna controversia, una volta che si dia atto del superamento, per effetto delle significative riforme sopravvenute, della esclusività della tutela reintegratoria dell’originario testo del L. n. 300 del 1970art. 18, che detta stabilità ha garantito con la rimozione degli effetti di un’illegittima risoluzione del rapporto (come illustrato al superiore p.to 4).

7.1. Non è dubbio che le modifiche apportate dal L. n. 92 del 2012 art. 1 comma 42, e poi dagli artt. 3 e 4 del D.Lgs. n. 23 del 2015, al L. n. 300 del 1970 art. 18 abbiano comportato il passaggio da un’automatica applicazione, nel vigore del suo precedente testo, ad ogni ipotesi di illegittimità del licenziamento della tutela reintegratoria e risarcitoria in misura predeterminabile con certezza (pari al periodo di maturazione dalla data di licenziamento a quella di effettiva reintegrazione dell’ultima retribuzione globale di fatto) ad un’ applicazione selettiva delle tutele, in esito alla scansione delle due diverse fasi di qualificazione della fattispecie (di accertamento di legittimità o illegittimità del licenziamento intimato e della sua natura) e di scelta della sanzione applicabile (reintegratoria e risarcitoria ovvero soltanto risarcitoria), con una sua diversa commisurazione (se in misura cd. “piena” o “forte”, ovvero “attenuata” o “debole”) assolutamente inedita (ex plurimis: Cass. 21 giugno 2018, n. 16443, in motivazione, p.to 9.2).

Sicchè, a seguito del modificato regime sanzionatorio, il giudice deve, come è noto secondo il consolidato insegnamento di questa Corte (bene esemplificato, in particolare da: Cass. 9 maggio 2019, n. 12365, in motivazione, al p.to 5, con ampio richiamo di precedenti), procedere ad una valutazione più articolata in ordine alla legittimità dei licenziamenti disciplinari (o per giustificato motivo oggettivo), rispetto al periodo precedente; specialmente, accertando se sussistano o meno la giusta causa ed il giustificato motivo di recesso, secondo le previgenti nozioni fissate dalla legge, non avendo la riforma del 2012 “modificato le norme sui licenziamenti individuali, di cui alla L. n. 604 del 1966, laddove stabiliscono che il licenziamento del prestatore non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell’art. 2119 c.c. o per giustificato motivo” (così: Cass. s.u. 27 dicembre 2017, n. 30985, in motivazione, p.to 8). Nel caso in cui escluda la ricorrenza di una giustificazione della sanzione espulsiva, il giudice deve quindi svolgere, al fine di individuare la tutela applicabile, una ulteriore disamina sulla sussistenza o meno di una delle due condizioni previste dall’art. 18, comma 4 per accedere alla tutela reintegratoria (“insussistenza del fatto contestato” ovvero fatto rientrante “tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili”): dovendo, in assenza, applicare il regime dettato dal comma 5 dell’art. 18, “da ritenersi espressione della volontà del legislatore di attribuire alla cd. tutela indennitaria forte una valenza di carattere generale” (ancora Cass. s.u. 27 dicembre 2017, n. 30985, in motivazione, p.to 10.).

7.2. Al di là della natura eccezionale o meno della tutela reintegratoria, non è seriamente controvertibile che essa, rispetto alla tutela indennitaria e tanto più per effetto degli D.Lgs. n. 23 del 2015 artt. 3 e 4, abbia ormai un carattere recessivo.

Nè tale quadro normativo si è qualitativamente modificato a seguito delle recenti pronunce della Corte Costituzionale, con le quali è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale del novellato testo del L. n. 300 del 1970 art. 18 comma 7, nelle parti in cui prevedeva, ai fini di reintegrazione del lavoratore licenziato per giustificato motivo oggettivo, l’insussistenza “manifesta” del fatto posto alla base del recesso (Corte Cost. 7 aprile 2022, n. 125) e che il giudice potesse, ma non dovesse (dovendosi leggere “può” come “deve”), disporre la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro (Corte Cost. 24 febbraio 2021, n. 59).

Infatti, tali pronunce hanno certamente esteso le ipotesi in cui può essere disposta la reintegrazione, ma non hanno reso quest’ultima la forma ordinaria di tutela “contro ogni forma illegittima di risoluzione”.

7.3. Neppure si traggono argomenti significati ai fini qui in esame, dall’avere la Corte costituzionale ritenuto che anche l’indennità risarcitoria, prevista dal D.Lgs. n. 23 del 2015 art. 3, comma 1, sia idonea “a costituire un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore a causa del licenziamento illegittimo e un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare illegittimamente” (Corte Cost. 26 settembre 2018, n. 194, Considerato in diritto, p.to 12.3).

Per una sua corretta comprensione in via interpretativa, tale affermazione deve essere evidentemente collocata nel contesto del percorso argomentativo seguito dalla Corte, per fondare la pronuncia di illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 23 del 2015 art. 3, comma 1 (sia nel testo originario sia in quello modificato dal D.L. 78 del 2018 art. 3, comma 1, conv. con mod. nella 1. 96/2018), limitatamente alle parole “di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”.

Ebbene, il contesto è quello di un ripristino dell’indennità forfettizzata stabilita dalla disposizione normativa denunciata, stimata quale irragionevole rimedio, così come in essa prevista, “rispetto alla sua primaria funzione riparatorio-compensativa del danno sofferto dal lavoratore ingiustamente licenziato… suscettibile di minare, in tutta evidenza, anche la funzione dissuasiva della stessa nei confronti del datore di lavoro, allontanandolo dall’intento di licenziare senza valida giustificazione e di compromettere l’equilibrio degli obblighi assunti nel contratto” (Corte Cost. 26 settembre 2018, n. 194, Considerato in diritto, p.to 12.2), proprio in quella funzione di adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore e di adeguata dissuasione del datore.

Sul presupposto dell’espressa negazione, da parte della medesima Corte, “che il bilanciamento dei valori sottesi agli artt. 4 e 41 Cost., terreno su cui non può non esercitarsi la discrezionalità del legislatore, imponga un determinato regime di tutela (sentenza n. 46 del 2000, punto 5. del Considerato in diritto)’, essa ha pertanto ribadito come ben possa “il legislatore… nell’esercizio della sua discrezionalità, prevedere un meccanismo di tutela anche solo risarcitorio-monetario (sentenza n. 303 del 2011), purchè un tale meccanismo si articoli nel rispetto del principio di ragionevolezza. Il diritto alla stabilità del posto, infatti, “non ha una propria autonomia concettuale, ma è nient’altro che una sintesi terminologica dei limiti del potere di licenziamento sanzionati dall’invalidità dell’atto non conforme” (sentenza n. 268 del 1994, punto 5. del Considerato in diritto)” (Corte Cost. 26 settembre 2018, n. 194, Considerato in diritto, p.to 9.2).

Sicchè, appare evidente come nemmeno la sentenza ora scrutinata, così come le altre più recenti della Corte costituzionale prima richiamate, modifichi il quadro normativo attuale, anzi confermandolo nell’adeguatezza dell’indennità risarcitoria, come resa costituzionalmente legittima, quale legittimo ed efficace rimedio a protezione del lavoratore nelle ipotesi di illegittimità del licenziamento previste dal legislatore, accanto alla reintegrazione, pertanto non più forma di tutela ordinariamente affidata al giudice per rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo “contro ogni forma illegittima di risoluzione”.

  1. Ebbene, così ricostruito il quadro normativo, significativamente modificato rispetto all’epoca in cui la giurisprudenza costituzionale e di legittimità ha individuato (ai superiori p.ti 4 e 4.1.) l’essenziale dato di stabilità del rapporto nella tutela reintegratoria esclusiva del L. n. 300 del 1970art. 18, non pare che esso assicuri, sulla base delle necessarie caratteristiche scrutinate, una altrettanto adeguata stabilità del rapporto di lavoro.

Sicchè, deve essere ribadito che la prescrizione decorra, in corso di rapporto, esclusivamente quando la reintegrazione, non soltanto sia, ma appaia la sanzione “contro ogni illegittima risoluzione” nel corso dello svolgimento in fatto del rapporto stesso: così come accade per i lavoratori pubblici e come era nel vigore del testo dell’art. 18, anteriore alla L. n. 92 del 2012, per quei lavoratori cui la norma si applicava. A questa oggettiva precognizione si collega l’assenza di metus del lavoratore per la sorte del rapporto di lavoro ove egli intenda far valere un proprio credito, nel corso di esso: caratterizzato dal regime di stabilità comportato da quella resistenza che assiste, appunto, il rapporto d’impiego pubblico.

Non costituisce, infatti, garanzia sufficiente, come invece ritenuto dalla Corte d’appello di Brescia (dal secondo capoverso di pg. 5 al terz’ultimo di pg. 6 della sentenza), il mantenimento della tutela reintegratoria, tanto con la L. n. 92 del 2012 (art. 18, comma 1), tanto con il D.Lgs. n. 23 del 2015 (art. 2, comma 1), per il licenziamento (non tanto discriminatorio, impropriamente richiamato in proposito, oltre che non correttamente equiparato al licenziamento intimato “per ritorsione, e dunque discriminatorio”: al sesto alinea del secondo capoverso di pg. 5 della sentenza; ma soprattutto) ritorsivo, sul presupposto di un motivo illecito determinante ai sensi dell’art. 1345 c.c. (non necessario per il licenziamento discriminatorio: Cass. 5 aprile 2016, n. 6575Cass. 7 novembre 2018, n. 28453).

Non si tratta, infatti, di enucleare una condizione non meramente psicologica (siccome dipendente da una percezione soggettiva), ma obiettiva di metus del dipendente nei confronti del datore di lavoro, per effetto di un’immediata e diretta correlazione eziologica tra l’esercizio obiettivamente inibito) di una rivendicazione retributiva del lavoratore e la reazione datoriale di licenziamento in ragione esclusiva di essa: come sottende la Corte bresciana, laddove argomenta (al penultimo capoverso di pg. 5 della sentenza) con la possibilità per il lavoratore (in “riferimento alla facoltà… di impugnare… un licenziamento che abbia, in concreto e al di là delle ragioni apparenti addotte dal datore di lavoro, quale unica ragione quella di reagire alle rivendicazioni avanzate dal dipendente in pendenza del rapporto di lavoro”) di ottenere “una tutela ripristinatoria piena (certo essendo che se il licenziamento è invece fondato su giusta causa o giustificato motivo, oggettivi e insussistenti, e dunque su ragioni – veritiere – del tutto estranee alle rivendicazioni retributive avanzate dal dipendente, non si può configurare la situazione psicologica in questione).

Un tale ragionamento reputa dotato di stabilità adeguata un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, in assenza di una tutela reintegratoria nelle ipotesi diverse (“del tutto estranee alle rivendicazioni retributive avanzate dal dipendente”: secondo l’espressione della Corte lombarda) di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in ragione di effettive ragioni organizzative e produttive dell’impresa, ovvero di licenziamento disciplinare, per grave inadempimento degli obblighi di diligenza e fedeltà del lavoratore, fino alla rottura irreversibile del rapporto di fiducia tra le parti. Ma il procedimento argomentativo si fonda sul presupposto (chiaramente esplicitato) che tali ragioni non mascherino in realtà ragioni ritorsive (eventualmente per rivendicazioni retributive in corso di rapporto), comportanti il ripristino della tutela reintegratoria, secondo l’insegnamento di questa Corte (Cass. 4 aprile 2019, n. 9468, in riferimento ad un’ipotesi di licenziamento intimato per giustificato motivo, in realtà per motivo illecito ai sensi dell’art. 1345 c.c.; Cass. 22 giugno 2016, n. 12898, in riferimento ad ipotesi di licenziamento intimato per giusta causa).

Ebbene, esso rivela come l’individuazione del regime di stabilità sopravvenga ad una qualificazione definitiva del rapporto per attribuzione del giudice, all’esito di un accertamento in giudizio, e quindi necessariamente ex post: così affidandone l’identificazione, o meno, al criterio del “caso per caso”, rimesso di volta in volta al singolo accertamento giudiziale (stigmatizzato al superiore p.to 6, in fine, per essere fonte di massima incertezza e di destabilizzazione del sistema).

  1. In via conclusiva, deve allora essere escluso, per la mancanza dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e soprattutto di una loro tutela adeguata, che il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della L. n. 92 del 2012e del D.Lgs. n. 23 del 2015, sia assistito da un regime di stabilità.

Da ciò consegue, non già la sospensione, a norma dell’art. 2941 c.c. (per la tassatività delle ipotesi ivi previste e soprattutto per essere presupposto della sospensione la preesistenza di un termine di decorrenza della prescrizione che, esaurita la ragione di sospensione, possa riprendere a maturare), bensì la decorrenza originaria del termine di prescrizione, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della L. n. 92 del 2012.

  1. Dalle superiori argomentazioni discende allora l’accoglimento del ricorso, con la cassazione della sentenza impugnata e rinvio, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità al Tribunale di Brescia in diversa composizione, sulla base del seguente principio di diritto:

“Il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della L. n. 92 del 2012 e del D.Lgs. n. 23 del 2015, mancando dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, non è assistito da un regime di stabilità. Sicchè, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della L. n. 92 del 2012, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro”.

P.Q.M.

La Corte:
accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità, al Tribunale di Brescia in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 6 luglio 2022.

Depositato in Cancelleria il 6 settembre 2022

Coronavirus

Lavoro agile nella PA, primi risultati e indicazioni sulla gestione post – pandemia

Come è accaduto nel settore privato, così anche nel pubblico impiego si è assistito, durante l’emergenza pandemica, ad un ricorso massiccio allo smart working come modalità di esecuzione della prestazione di lavoro, che garantisse continuità del servizio salvaguardando la sicurezza dei cittadini.

Sul piano normativo, la disciplina applicata è la legge 81/2017, in quanto compatibile e fatta salva l’applicazione delle diverse disposizioni specificamente previste, in accordo con le direttive per la promozione della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, adottate in base all’art. 14 della L. 124/2015.

Si è altresì previsto (art. 263 del D.L. 34/2020) che le pubbliche amministrazioni elaborassero entro il 31 gennaio di ciascun anno, il Piano organizzativo del lavoro agile (POLA), e che almeno il 15 per cento del personale potesse avvalersi della modalità agile per lo svolgimento della prestazione lavorativa[1].

A tal fine, il Ministro per la pubblica amministrazione ha approvato, con decreto del 9 dicembre 2020 le Linee guida che indirizzano le pubbliche amministrazioni nella redazione del suddetto Piano. I contenuti minimi richiesti sono “I) Livello di attuazione e di sviluppo del lavoro agile (da dove si parte?); II) Modalità attuative (come attuare il lavoro agile?); III) Soggetti, processi e strumenti del lavoro agile (chi fa, che cosa, quando e come per attuare e sviluppare il lavoro agile?); IV) Programma di sviluppo del lavoro agile (come sviluppare il lavoro agile?) “[2]

Quanto ai soggetti coinvolti, un ruolo fondamentale nella definizione dei contenuti del POLA è svolto dai dirigenti come promotori dell’innovazione organizzativa. Questa richiede un importante cambiamento di stile manageriale e di leadership, caratterizzato dalla capacità di lavorare e far lavorare per obiettivi, spostando l’attenzione dal controllo alla responsabilità per i risultati.

I dirigenti sono chiamati altresì a operare un monitoraggio mirato e costante, in itinere ed ex-post, basato sul raggiungimento degli obiettivi fissati e alla verifica del riflesso sull’efficacia e sull’efficienza dell’azione amministrativa.

Com’è andata

Per valutare il fenomeno sul piano quantitativo, il Dipartimento della funzione pubblica ha avviato il monitoraggio dello stato di attuazione del lavoro agile nelle pubbliche amministrazioni, e a tal fine sono stati istituiti l’Osservatorio nazionale del lavoro agile nelle pubbliche amministrazioni (art. 263, co. 3-bis, del D.L. 34/2020) e una Commissione tecnica di supporto (DM del 20 gennaio 2021).

L’ultimo monitoraggio disponibile risale ad aprile 2020 e costituisce una rilevazione dell’ampio utilizzo della modalità di lavoro agile durante il periodo pandemico.

L’ISTAT invece, in tempi più recenti, ha effettuato una valutazione dell’impatto della modalità di lavoro agile sulla qualità del servizio reso, misurato sulla base del grado di soddisfazione degli utenti nel periodo maggio 2020 – gennaio 2022[3].

Stando alla rilevazione, la maggioranza delle persone che si è rivolta ad un ufficio pubblico (65,2%) nel periodo preso in considerazione, non ha ravvisato cambiamenti nella qualità di almeno uno dei servizi ricevuti rispetto al periodo pre-pandemico, mentre un cittadino su quattro (25,6%), ha lamentato un peggioramento in almeno una delle circostanze in cui si è rivolto alla PA. Una quota più bassa (13%) ha notato invece un miglioramento.

Focalizzando l’attenzione su quanti si sono rivolti ad un solo ufficio pubblico, il 20,9% ha riscontrato un peggioramento, il 9,8% un miglioramento, e resta fortemente maggioritaria la quota di quanti non rilevano cambiamenti (64,8%). Il 4,5% ha avuto difficoltà a esprimere un giudizio. Tuttavia, tra quanti hanno lamentato un peggioramento, il 62,1% si è dichiarato comunque soddisfatto (a fronte del 37,9% di non soddisfatti), quindi si è tratto di un peggioramento che nella maggior parte dei casi non ha inficiato la soddisfazione degli utenti.

Ai cittadini che si sono dichiarati complessivamente insoddisfatti o hanno riscontrato un peggioramento nel servizio, sono stati proposti anche quesiti mirati a capire se le criticità riscontrate dipendessero, a loro parere, dall’adozione del lavoro a distanza e, dunque, dalla minore presenza di dipendenti negli uffici di interesse.

I rispondenti si sono distribuiti in maniera omogenea tra le opzioni date: per il 31,4% i problemi c’erano anche prima dell’adozione del lavoro a distanza, per il 31,2% il lavoro a distanza è una concausa, per il 28,6% invece il disservizio è causato esclusivamente dal lavoro a distanza. L’8,8% non è stato in grado di esprimere un’opinione in merito.

Non sono emerse differenze significative in base alle variabili socio-demografiche né in base ai canali di accesso ai servizi.

Rientro in presenza dei dipendenti pubblici

Un anno fa, con il DPCM del 23 settembre 2021, è stato sancito che, a decorrere dal 15 ottobre 2021, la modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa nelle amministrazioni pubbliche sarebbe tornata ad essere quella svolta in presenza. Le amministrazioni sarebbero comunque state chiamate ad assicurare il rispetto delle misure sanitarie di contenimento del rischio di contagio da Covid-19.

Il rientro in presenza del personale delle pubbliche amministrazioni è stato disciplinato con il decreto del Ministro per la pubblica amministrazione 8 ottobre 2021, che ha individuato le condizionalità ed i requisiti necessari per utilizzare il lavoro agile, e dalle “linee guida” che hanno ad oggetto l’obbligo di esibizione del Green pass e le modalità di controllo del rispetto di esso.

Il quadro regolatorio è stato completato dal Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale siglato a Palazzo Chigi il 10 marzo 2021, dal Contratto collettivo sottoscritto tra Aran e parti sociali il 21 dicembre 2021, che del lavoro agile nel pubblico impiego ha individuato caratteristiche, modalità, limiti e tutele.

Ai sensi della definizione data dal contratto collettivo, “Il lavoro agile di cui alla legge n. 81/2017 è una delle possibili modalità di effettuazione della prestazione lavorativa per processi e attività di lavoro, previamente individuati dalle amministrazioni, per i quali sussistano i necessari requisiti organizzativi e tecnologici per operare con tale modalità.”[4] conseguentemente, la disciplina della modalità lavorativa contiene i tratti salienti di quella applicata nel settore privato.

L’adesione al lavoro agile ha natura consensuale e volontaria ed è consentita a tutti i lavoratori, fermo restando che l’amministrazione individua le attività che possono essere effettuate in modalità agile. L’amministrazione, altresì, “avrà cura di facilitare l’accesso al lavoro agile ai lavoratori che si trovino in condizioni di particolare necessità, non coperte da altre misure.”[5]

L’accordo individuale, stipulato per iscritto ai fini della regolarità amministrativa e della prova, disciplina l’esecuzione della prestazione lavorativa svolta all’esterno dei locali dell’amministrazione, anche con riguardo alle forme di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro e agli strumenti utilizzati dal lavoratore, che di norma vengono forniti dall’amministrazione.

Quanto all’orario di lavoro, e al diritto alla disconnessione, si prevede che la prestazione lavorativa in modalità agile si articoli in due fasce temporali:

  1. a) fascia di contattabilità – nella quale il lavoratore è contattabile sia telefonicamente che via mail o con altre modalità similari, la cui durata non può essere superiore all’orario medio giornaliero di lavoro;
  2. b) fascia di inoperabilità – nella quale il lavoratore non può erogare alcuna prestazione lavorativa. Tale fascia comprende il periodo di 11 ore di riposo consecutivo di cui all’art. 17, comma 6, del CCNL 12 febbraio 2018 a cui il lavoratore è tenuto nonchè il periodo di lavoro notturno tra le ore 22:00 e le ore 6:00 del giorno successivo.

Viene sancito il diritto alla disconnessione; pertanto, negli orari al di fuori della fascia a), egli non è tenuto ad avere contatti con i colleghi o con il dirigente per lo svolgimento della prestazione lavorativa, a leggere e rispondere a e-mail e messaggi, a rispondere alle chiamate, ad accedere al sistema informativo dell’Amministrazione.

Per quanto riguarda i lavoratori fragili, invece, il Dipartimento della Funzione pubblica ha precisato che la flessibilità per l’utilizzo del lavoro agile per il pubblico impiego, già presente all’interno della circolare del 5 gennaio 2022, sarà disponibile anche dopo il 30 giugno 2022, per garantire ai lavoratori fragili della PA la più ampia fruibilità di questa modalità di svolgimento della prestazione lavorativa. Sarà quindi il dirigente responsabile a individuare le misure organizzative che si rendono necessarie, anche derogando, ancorché temporaneamente, al criterio della prevalenza dello svolgimento della prestazione lavorativa in presenza.

A cura della dott.ssa Laura Angeletti
Centro Studi Corrado Rossitto di UNIONQUADRI

[1] percentuale così ridotta dall’art. 11-bis del D.L. 52/2021, in luogo dell’originario 60 per cento

[2] LINEE GUIDA SUL PIANO ORGANIZZATIVO DEL LAVORO AGILE (POLA) E INDICATORI DI PERFORMANCE (Art. 14, comma 1, legge 7 agosto 2015, n. 124, come modificato dall’articolo 263, comma 4 bis, del decreto legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77)

[3] Rapporto ISTAT  “CITTADINI E LAVORO A DISTANZA NELLA PA DURANTE LA PANDEMIA | MAGGIO 2020 – GENNAIO 2022”

[4] CONTRATTO COLLETTIVO NAZIONALE DI LAVORO DEL PERSONALE DEL COMPARTO FUNZIONI CENTRALI TRIENNIO 2019 – 2021, Art. 36, comma 1

[5] CONTRATTO COLLETTIVO NAZIONALE DI LAVORO DEL PERSONALE DEL COMPARTO FUNZIONI CENTRALI TRIENNIO 2019 – 2021, Art. 37, comma 3

2] LINEE GUIDA SUL PIANO ORGANIZZATIVO DEL LAVORO AGILE (POLA) E INDICATORI DI PERFORMANCE (Art. 14, comma 1, legge 7 agosto 2015, n. 124, come modificato dall’articolo 263, comma 4 bis, del decreto legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77)

[3] Rapporto ISTAT  “CITTADINI E LAVORO A DISTANZA NELLA PA DURANTE LA PANDEMIA | MAGGIO 2020 – GENNAIO 2022”

[4] CONTRATTO COLLETTIVO NAZIONALE DI LAVORO DEL PERSONALE DEL COMPARTO FUNZIONI CENTRALI TRIENNIO 2019 – 2021, Art. 36, comma 1

[5] CONTRATTO COLLETTIVO NAZIONALE DI LAVORO DEL PERSONALE DEL COMPARTO FUNZIONI CENTRALI TRIENNIO 2019 – 2021, Art. 37, comma 3