Il lavoro intermittente e l’obbligo della comunicazione precedente alla prestazione

  1. Il lavoro intermittente, caratteri distintivi

Il lavoro intermittente rientra nella categoria delle tipologie di lavoro flessibile previste dalla Sezione II del Capo II, rubricato “Lavoro ridotto e flessibile” del D.lgs. 81/2015, il quale contiene una disciplina organica dei contratti di lavoro.

Si tratta del contratto, a tempo determinato o indeterminato, in forza del quale il datore di lavoro “chiama” il lavoratore ad effettuare la prestazione pattuita quando lo ritiene opportuno sulla base delle proprie esigenze. Proprio per questo motivo il contratto viene anche definito “a chiamata”.

La prestazione lavorativa viene, pertanto, svolta in modo discontinuo o intermittente.

Vi è un limite massimo di fruizione rappresentato da quattrocento giornate di effettivo lavoro con il medesimo datore di lavoro, nell’arco di tre anni solari. In caso di superamento è prevista la “sanzione” per il datore della trasformazione del rapporto a tempo pieno e indeterminato.

Tale limite orario non si applica ai settori del turismo, dei pubblici esercizi e dello spettacolo.

In forza del principio di non discriminazione, <<il lavoratore intermittente non deve ricevere, per i periodi lavorati e a parità di mansioni svolte, un trattamento economico e normativo complessivamente meno favorevole rispetto al lavoratore di pari livello>> (art. 17).

Si sottolinea che il lavoratore intermittente matura il trattamento economico e normativo solo con riferimento alle giornate in cui svolge effettivamente la prestazione lavorativa.

Nei periodi, però, di sua reperibilità, nei quali, cioè, egli garantisce la propria disponibilità a rispondere alle chiamate ma non è detto che lavori, gli spetta l’indennità di disponibilità (art. 13, comma 4), come prevista dai contratti collettivi o dall’accordo delle parti.

  1. L’ obbligo di comunicazione ex art. 15, comma 3 Dlgs. 81/2015

Il presente punto intende rappresentare una guida all’ottemperanza dell’obbligo previsto dal comma 3 dell’art. 15 del D.lgs. 81/2015, il quale costituisce un onere ulteriore in capo al datore di lavoro, rispetto a quello di comunicazione obbligatoria di assunzione, cessazione e trasformazione del rapporto (UNILAV), previsto per qualsiasi tipologia di lavoro subordinato.

Oltre all’UNILAV il datore deve, infatti, provvedere alla comunicazione alla Direzione territoriale del lavoro competente per territorio, prima dell’inizio della prestazione lavorativa intermittente o di un ciclo integrato di prestazioni intermittenti di durata non superiore a 30 giorni (art. 15, comma 3).

  • Le modalità di trasmissione della comunicazione

Le modalità operative, attualmente in vigore, per eseguire tale comunicazione sono state definite dal Decreto Interministeriale del 27 marzo 2013 e dalla Circolare MLPS n. 27/2013.

La Circolare MLPS del 12 febbraio 2020 fornisce, inoltre, alcuni chiarimenti sulle modalità di comunicazione con riferimento ai lavoratori dello spettacolo.

Si riportano di seguente le modalità e i contenuti di tale ulteriore comunicazione, come individuate dai sopra menzionati decreto interministeriale e circolare esplicativa.

Dal punto di vista soggettivo, i soggetti abilitati ad effettuare la comunicazione sono il datore di lavoro o i “soggetti obbligati”, ossia coloro i quali, ai sensi della normativa vigente possono effettuare le comunicazioni in loro nome e per conto, come, per esempio, i consulenti del lavoro.

Le modalità di trasmissione della comunicazione sono esclusivamente le seguenti:

  1. a) via email all’indirizzo di posta certificata intermittenti@mailcert.lavoro.gov.it;
  2. b) per il tramite del servizio informatico attraverso il portale cliclavoro (www.cliclavoro.gov.it).
  3. c) via sms al numero 339-9942256.

Per quanto concerne la modalità sub a), per utilizzare tale canale, dovrà essere inviato in allegato alla mail, il modello “UNI_Intermittente” compilato in ogni sua parte.

Ai fini dell’adempimento dell’obbligo verranno prese in considerazione esclusivamente le e-mail contenenti il modello “UNI-Intermittente” debitamente compilato.

Tale modello richiede l’inserimento dei seguenti dati:

– codice fiscale e indirizzo di posta elettronica del datore di lavoro;

– codice fiscale del lavoratore interessato;

– codice di comunicazione del modello UNILAV cui la chiamata si riferisce (campo non obbligatorio);

– data inizio e data fine della prestazione per la quale si sta effettuando la comunicazione.

Non sono previste mail di conferma di ricezione e, ai fini di dimostrare l’esatto adempimento dell’obbligo, il datore di lavoro dovrà consegnare copia del modello compilato e allegato alla e-mail inviata. A tal fine il modello contiene in basso due opzioni: una di “stampa” che permette di stampare il modello e una “Genera xml e invia via e-mail” necessaria per adempiere all’obbligo, inviando il modello così generato all’indirizzo di posta elettronica certificata già indicata.

Si evidenzia che per utilizzare tale modalità di comunicazione non è necessario che l’indirizzo e-mail del mittente sia un indirizzo di posta elettronica certificata. La casella intermittenti@mailcert.lavoro.gov.it è infatti abilitata a ricevere comunicazioni anche da indirizzi di posta non certificata.

La modalità sub b), si attua mediante la registrazione e poi l’accesso al portale “cliclavoro” (www.cliclavoro.gov.it).

Anche in questo caso, il portale richiede la compilazione di un apposito modulo, con le modalità evidenziate nell’apposita sezione.

Per facilitare l’inserimento delle informazioni, non appena indicato il codice fiscale del lavoratore interessato alla chiamata, saranno proposte, se presenti, l’elenco delle comunicazioni obbligatorie di tipo intermittente aperte e il datore di lavoro dovrà semplicemente indicare il relativo codice di comunicazione.

Circa l’opzione sub c), questa è una modalità eccezionale prevista dall’articolo 4, comma 2 del decreto ministeriale del 27 marzo 2013.

Essa va utilizzata, infatti, esclusivamente per le prestazioni che hanno inizio non oltre le 12 ore dal momento della comunicazione (e che quindi possono terminare anche dopo le 12 ore dalla comunicazione), avendo cura di indicare almeno il codice fiscale del lavoratore utilizzato.

Al fine di identificare il datore di lavoro che sta inviando l’SMS è necessario che lo stesso si sia precedentemente registrato al portale cliclavoro, avendo cura di indicare nel form di registrazione il numero di telefono cellulare che sarà utilizzato per l’invio del modello. Solo in questo modo gli organi di vigilanza potranno verificare l’esatto adempimento dell’obbligo.

Non verranno prese in considerazione le comunicazioni inviate con un SMS che non contiene le informazioni sopra indicate ovvero provenienti da un numero di cellulare non registrato.

Come sopra accennato, le modalità appena delineate sono esclusive, pertanto non vengono prese in considerazione dagli organi ispettivi comunicazioni effettuate per vie diverse.

  • Cosa succede in caso di malfunzionamento del servizio informatico?

Il Decreto Ministeriale 27 marzo 2013 al comma 6 dell’articolo 4 prevede che in caso di malfunzionamento del servizio informatico di cui alla precedente lettera c), i soggetti abilitati possano adempiere agli obblighi inviando, nei termini previsti dalla legge, il Modello “UNI-intermittente” al numero di fax della competente Direzione territoriale del lavoro.

In tal caso, il datore di lavoro dovrà conservare la copia del fax unitamente alla ricevuta di malfunzionamento rilasciata direttamente dal servizio informatico.

Questa comunicazione serve esclusivamente per attestare agli organi di vigilanza la buona fede del datore di lavoro e la circostanza che l’inosservanza dei termini è stata determinata da un oggettivo impedimento.

  • È possibile annullare la comunicazione?

Le comunicazioni effettuate con le modalità precedentemente descritte possono essere annullate secondo quanto chiarito con circ. n. 20/2012.

L’annullamento può essere effettuato esclusivamente tramite e-mail da indirizzare all’indirizzo PEC di cui alla precedente lettera a) ovvero riprendendo il modello on line precedentemente inviato, avendo cura di selezionare le prestazioni già comunicate da annullare nonché il tasto “annullamento”.

  • Disciplina speciale per i lavoratori dello spettacolo

Le aziende che intendono utilizzare con contratto di lavoro intermittente i lavoratori di cui al Decreto Legislativo del Capo provvisorio dello Stato 16 luglio 1947, n. 708 adempiono all’obbligo in esame con la presentazione del c.d. “certificato di agibilità” di cui all’articolo 10 dello stesso decreto provvisorio del capo dello stato del 1947. Utilizzando la cooperazione applicativa già funzionante tra Enpals e il Ministero del lavoro tali comunicazioni vengono rese disponibili altresì agli uffici del predetto Ministero.

  • Trasferimento dei dati

Il Ministero riceve la comunicazione e mette a disposizione le informazioni relative alle chiamate di lavoro intermittente, effettuate con le modalità descritte nei paragrafi precedenti, alle Direzioni territoriali del lavoro attraverso i propri servizi di rete interna nonché agli ispettorati del lavoro ubicati presso le Regioni e Province Autonome che hanno “regionalizzato” tali funzioni, attraverso il sistema di cooperazione applicativa.

  • Sanzioni

In caso di violazione dell’obbligo di comunicazione si applica la sanzione amministrativa da euro 400 ad euro 2.400 in relazione a ciascun lavoratore per cui è stata omessa la comunicazione.

Si tenga presente che non si applica la procedura di diffida di cui all’articolo 13 del decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124.

Sul punto va altresì evidenziato che il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, con la circolare del 22 aprile 2013, ha chiarito che “la sanzione in esame trova applicazione con riferimento ad ogni lavoratore e non invece per ciascuna giornata di lavoro per la quale risulti inadempiuto l’obbligo comunicazionale. In sostanza, per ogni ciclo di 30 giornate che individuano la condotta del trasgressore, trova applicazione una sola sanzione per ciascun lavoratore”.

Dottoressa Anna Chiara Monti

CASSAZIONE – Superamento del comporto e discriminatorietà del licenziamento

Con la pronuncia n. 2414/2022 la Corte di Cassazione precisa come sia comunque possibile ravvisare una finalità discriminatoria anche nel caso di un licenziamento basato su quello che a tutti gli effetti può essere considerato un motivo legittimo (come l’effettivo e non contestato superamento del periodo di comporto).

Nel dettaglio, si tratta di una pronuncia resa in un giudizio nel quale il lavoratore aveva dedotto l’illegittimità del licenziamento, formalmente intimato per superamento del periodo di comporto, argomentando dal fatto che la malattia era causalmente da collegare alla illegittima condotta datoriale, che il recesso era stato determinato da un intento ritorsivo e che era discriminatorio in quanto collegato all’attività sindacale svolta.

Secondo consolidata giurisprudenza della Suprema Corte, la prova della unicità e determinatezza del motivo non rileva nel caso di licenziamento discriminatorio, che ben può accompagnarsi ad altro motivo legittimo ed essere comunque nullo (Cass. n. 28453 del 2018, Cass. n. 6575 del 2016).

Devono quindi essere tenuti il profilo in cui si assuma un motivo ritorsivo e quello in cui si denunzi il carattere discriminatorio del licenziamento, in relazione al quale l’esistenza di un motivo legittimo alla base del recesso datoriale non esclude la nullità del provvedimento ove venga accertata la finalità discriminatoria dello stesso.

Invero, solo nel caso di allegazione da parte del lavoratore del carattere ritorsivo del licenziamento e quindi di una domanda di accertamento della nullità del provvedimento datoriale per motivo illecito ai sensi dell’articolo 1345 c.c., occorre che l’intento ritorsivo del datore di lavoro, la cui prova è a carico del lavoratore, sia determinante, cioè tale costituire l’unica effettiva ragione di recesso, ed esclusivo, nel senso che il motivo lecito formalmente addotto risulti insussistente nel riscontro giudiziale.

CASSAZIONE – Non è sempre nullo il patto di non concorrenza con corrispettivo variabile

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 33424/2022, interviene in merito alla previsione di un patto di non concorrenza con un importo variabile a seconda della durata del rapporto di lavoro.

Nel dettaglio, l’importo era pari a € 10.000 all’anno per 3 anni, a fronte di un impegno di non concorrenza per 20 mesi dalla cessazione del rapporto; in caso di cessazione del rapporto di lavoro prima della scadenza del triennio, al dipendente non sarebbe spettato l’intero importo di € 30.000, bensì un importo collegato alla durata del rapporto di lavoro.

La Cassazione ricorda come il corrispettivo stabilito con il patto di non concorrenza, essendo diverso e distinto dalla retribuzione, deve possedere soltanto i requisiti previsti in generale per l’oggetto della prestazione dall’art. 1346 c.c. e, quindi, deve essere “determinato o determinabile”.

La variabilità del corrispettivo rispetto alla durata del rapporto di lavoro non significa che esso non sia determinabile in base a parametri oggettivi: devono quindi essere valutate distintamente la questione della nullità per mancanza del requisito di determinatezza o determinabilità del corrispettivo pattuito tra le parti e, poi, la verifica che il compenso, come determinato o determinabile, non sia simbolico o manifestamente iniquo o sproporzionato, in rapporto al sacrificio richiesto al lavoratore ed alla riduzione delle sue possibilità di guadagno.

La tutela dei lavoratori negli appalti di logistica

Il contratto di appalto è molto usato dalle imprese, specialmente nella forma dell’appalto di servizi. Nell’ordinamento italiano si è scelto di tutelare i crediti – compresi TFR, contributi previdenziali e premi assicurativi – dei lavoratori impiegati nell’appalto attraverso il meccanismo della responsabilità solidale tra appaltante e appaltatore.

In effetti, l’art. 29, comma 2 del d.lgs. 276/2003 stabilisce proprio come “in caso di appalto di opere o di servizi, il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l’appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione dell’appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto, nonché i contributi previdenziali e i premi assicurativi”.

Nel corso degli anni si sono sempre più sviluppati, assumendo particolare importanza, gli appalti nel settore della logistica.

Preso atto del fenomeno, il legislatore è intervenuto con una specifica norma, l’art. 1677 bis c.c., in base al quale: “Se l’appalto ha per oggetto, congiuntamente, la prestazione di due o più servizi di logistica relativi alle attività di ricezione, trasformazione, deposito, custodia, spedizione, trasferimento e distribuzione di beni di un altro soggetto, alle attività di trasferimento di cose da un luogo a un altro si applicano le norme relative al contratto di trasporto, in quanto compatibili”.

Nella pratica era tuttavia sorto il dubbio se detta responsabilità solidale potesse operare con riferimento alle prestazioni lavorative relative alle attività di semplice trasporto di cose, in quanto al contratto di trasporto non trova applicazione la norma sulla responsabilità solidale negli appalti.

Il Ministero del Lavoro è quindi intervenuto con un interpello, il n.1/2022, chiarendo che anche nel caso di appalti di più servizi di logistica come descritti nell’art. 1677-bis c.c. trova applicazione la disciplina della responsabilità solidale prevista dall’art. 29 del d.lgs. 276/2003.

Tale conclusione deriva dalla considerazione secondo la quale la logistica rappresenta una peculiare ipotesi di contratto di appalto di servizi e perciò non risulta possibile escludere il regime di solidarietà sia perché l’esclusione sarebbe incoerente con la disciplina generale dell’appalto, sia perché introdurrebbe una irragionevole riduzione di tutela per il lavoratore impegnato nelle sole attività di trasferimento di cose dedotte in un contratto di appalto.

Sul punto va ricordato come era già intervenuta la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 254/2017, che aveva affermato la necessità di un’interpretazione estensiva e costituzionalmente orientata dell’art. 29, comma 2, d.lgs. 276/2003, con la finalità di garantire ai lavoratori una tutela adeguata, evitando che i meccanismi di decentramento produttivo e di dissociazione fra titolarità del contratto di lavoro e utilizzazione della prestazione vadano a danno dei lavoratori.

CASSAZIONE – La decadenza nel caso dell’azione di accertamento del rapporto di lavoro

La sentenza n. 40652/2021 della Suprema Corte di Cassazione ha statuito che nel caso di azione di accertamento di un rapporto di lavoro alle dipendenze di un soggetto diverso dal datore di lavoro formale non è prevista alcuna decadenza fino al momento in cui il lavoratore non riceve un provvedimento scritto che nega la titolarità del rapporto.

Il caso oggetto della pronuncia è quello relativo ad alcuni dipendenti che avevano agito giudizialmente per ottenere l’accertamento di un rapporto di lavoro alle dipendenze di un soggetto diverso da quello che risultava formalmente titolare del contratto.

Le Corti di merito avevano rigettato le domande dei lavoratori, ritenendole presentate oltre i termini previsti a pena di decadenza dall’art. 32, c. 4, lett. d), l.183/2010.

La Corte di Cassazione rileva come in un’ottica di bilanciamento di interessi costituzionalmente rilevanti, tanto nei casi di richiesta di costituzione (in cui è manifesta la volontà dell’istante di ripristino immediato e/o di stabilizzazione), quanto nei casi di richiesta di accertamento (ove l’azione dichiarativa richieda un accertamento “ora per allora”) dei rapporto di lavoro alle dipendenze di un soggetto diverso dal titolare del contratto, è sempre necessario “un atto o un provvedimento datoriale che renda operativo e certo il termine di decorrenza della decadenza”.

Ne consegue che viene evidenziata la necessità, ai fini della operatività della decadenza, di un provvedimento o di un atto da impugnare ovvero di un tipizzato fatto (scadenza del contratto a tempo determinato).

La Suprema Corte di Cassazione ha quindi enucleato il seguente principio di diritto: “La disposizione di cui alla legge. n. 183/ 2010, art. 32, co. 4, lett. d), relativa al regime di decadenza ivi previsto, non si applica alle ipotesi – in tema di richiesta di costituzione o di accertamento di un rapporto di lavoro, ormai risolto, in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto – nelle quali manchi un provvedimento in forma scritta o un atto equipollente che neghi la titolarità del rapporto stesso”.

Legittimo il divieto di cumulo tra pensione e redditi da lavoro dipendente previsto da quota 100

La Corte Costituzionale, con sentenza n. 234/2022, ha ritenuto costituzionalmente legittimo il divieto di cumulo tra pensione c.d. quota 100 e i redditi da lavoro dipendente previsto dal d.l. n. 4/2019.

In particolare, la questione di legittimità costituzionale era sollevata in ragione del fatto che la norma prevede la non cumulabilità della pensione anticipata maturata per aver raggiunto la cosiddetta “quota 100” con i redditi da lavoro dipendente, qualunque sia il relativo ammontare, mentre consente il cumulo con i redditi da lavoro autonomo occasionale entro il limite di 5.000 euro lordi annui.

La Corte Costituzionale sottolinea come il divieto di cumulo risponde a più ampie esigenze di razionalità del sistema pensionistico, all’interno del quale il regime derogatorio introdotto dal legislatore del 2019 con una misura sperimentale e temporalmente limitata, risulta particolarmente vantaggioso per chi scelga di farvi ricorso.

Ancora, la prevista sospensione del trattamento di quiescenza in caso di violazione del divieto di cumulo è, per l’appunto, rivolta a garantire un’effettiva uscita del pensionato che ha raggiunto la cosiddetta “quota 100” dal mercato del lavoro, anche al fine di creare nuova occupazione e favorire il ricambio generazionale, all’interno di un sistema previdenziale sostenibile.

Peraltro, il lavoro autonomo occasionale costituisce, infatti, un’area residuale del lavoro autonomo, riconducibile alla definizione contenuta nell’art. 2222 del codice civile. L’occasionalità caratterizza una prestazione non abituale, sottratta a qualunque vincolo di subordinazione.

In ogni caso, osserva la Corte, il lavoro autonomo occasionale, per la sua natura residuale, non incide in modo diretto e significativo sulle dinamiche occupazionali, né su quelle previdenziali e si differenzia per questo dal lavoro subordinato, sia pure nella modalità flessibile del lavoro intermittente.