Pubblico impiego area quadri.

PUBBLICO IMPIEGO

Dipendente di categoria C4 – Comparto Amministrazioni Centrali –

Privazione della Posizione Organizzativa alla scadenza – dequalificazione insussistenza.

Privazione di compiti di coordinamento, direzione – tipici del livello C- 4 , dequalificazione sussiste.

Sussistenza di predisposizione alla malattia psichica – nesso causale e sussistenza del danno compatibilità.

La sentenza in oggetto, conferma indirizzi giurisprudenziali abbastanza consolidati.

In primo luogo, l’attribuzione di una posizione organizzativa non costituisce una modifica all’inquadramento, ma più semplicemente un’attribuzione di incarico avente natura contrattuale che può venir meno alla scadenza dello stesso.

Diverso invece è il discorso per la corrispondenza delle mansioni alla declaratoria di inquadramento.

L’articolo 52 del DLGS 165/2001 (Testo Unico del Pubblico Impiego) stabilisce che il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni equivalenti nell’ambito dell’area di inquadramento.

La norma risulta così congegnata dopo l’entrata in vigore del DLGS 150/2009 in precedenza stabiliva invece che il dipendente pubblico deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni considerate equivalenti nell’ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi.

Come dato a vedere dalla successione normativa in esame il limite per la dequalificazione è dato dall’area di inquadramento e non rilevano più le eventuali suddivisioni interne all’area o la qualità delle mansioni affidate.

Con il DLGS 81/2015 (Jobs Act), il limite alla dequalificazione è fatto coincidere con tutte le mansioni della categoria di inquadramento.

In tal modo, nell’ambito privato e pubblico lo Jus variandi è ampliato all’intera area di inquadramento.

Per quanto riguarda l’area C del pubblico Impiego, essa coincide in qualche modo a quella che è nel privato l’area quadri.

Diversi sono nell’ambito del pubblico i tentativi di introdurre nel sistema di classificazione del personale l’area dei quadri.

L’iniziativa patrocinata anche da questo studio anche con fasi alterne ha infine avuto esito negativo innanzi alla Corte di Cassazione (Sezione Lavoro 19.12.2008 n.29829 e prima Cassazione Civile Sezione Lavoro 5.7.2005 n.14193.

Di seguito con la legge n.145 del 15 luglio 2002 grazie all’intensa attività in favore svolta da UNIONQUADRI nei confronti del Governo allora in carica era introdotto al DLGS 165/2001 l’articolo 17 che prevedeva l’istituzione della vicedirigenza attingendo ai livelli apicali dell’area C.

La norma non fu mai attivata a causa di una netta opposizione dei sindacati confederali ed alla fine venne abrogata.

Fabio Petracci.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 10/01/2018) 26-04-2018, n. 10138

LAVORO (CONTRATTO COLLETTIVO DI)

Fatto Diritto P.Q.M.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 20860-2012 proposto da:

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE, C.F. (OMISSIS), in persona del Presidente e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dall’Avvocato PAOLA MASSAFRA, che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

G.U.;

– intimato –

avverso la sentenza definitiva n. 868/2011 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 27/03/2012 R.G.N. 317/2008;

avverso la sentenza non definitiva n. 427/2011 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 03/08/2011 R.G.N. 317/2008;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/01/2018 dal Consigliere Dott. ROBERTO BELLE’;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MASTROBERARDINO Paola, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato LUCIA POLICASTRO per delega verbale Avvocato PAOLA MASSAFRA.

Svolgimento del processo

1. La Corte d’Appello di Venezia, con sentenza non definitiva n. 427/2011, poi seguita da sentenza definitiva n. 868/2011, ha confermato la pronuncia del Tribunale di Treviso con cui era stato riconosciuto che l’I.N.P.D.A.P. aveva demansionato G.U., con condanna dell’ente al risarcimento del danno biologico cagionato al ricorrente, in misura di Euro 13.560,90, nonchè al pagamento di 160 ore di lavoro straordinario prestate dal lavoratore.

Avverso la sentenza l’I.N.P.S,. ente in cui è medio tempore confluito l’I.N.P.D.A.P., ha proposto ricorso per cassazione, affidandosi a due motivi, per le sole questioni attinenti al demansionamento e non quindi rispetto al riconoscimento dello straordinario. Il G. è rimasto intimato.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo, riguardante la sentenza non definitiva, l’I.N.P.S. lamenta la violazione degli artt. 1362 ss. c.c., anche in relazione al CCNL 19982001 e CCIE 1999-2001 e del D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 2 e 52, in relazione ai principi di cui all’art. 111 Cost. ed in particolare del comma 7, in una lettura integrata con l’art. 6 CEDU. Il ricorrente premette che l’attribuzione dell’incarico di posizione organizzativa, già conferito al G., non incide sul livello di inquadramento del dipendente, il quale durante e dopo lo stesso mantiene il livello posseduto precedentemente.

Sostiene quindi che le attività cui il G. era stato adibito dopo la cessazione dell’incarico di posizione organizzativa non determinavano la violazione della normativa collettiva di definizione dell’area C e della posizione C4 di appartenenza del ricorrente, anche sulla base delle risultanze dell’istruttoria svolta.

2. Il motivo non merita accoglimento.

2.1 Va intanto rilevato che l’oggetto del contendere, almeno per come definito nella sentenza di secondo grado e sul punto non contestato, non riguarda la legittimità della revoca della posizione organizzativa in sè considerata, quanto il comportamento datoriale tenuto dopo tale revoca, in quanto tale da avere comportato una variazione peggiorativa delle attività fatte svolgere al G. rispetto al profilo (C4 del C.C.N.L. enti pubblici economici 1998-2001) di inquadramento.

2.2 La Corte d’Appello di Venezia, nel ricostruire gli esiti istruttori, ha ritenuto che le mansioni successivamente assegnate al G. fossero nettamente inferiori a quelle di inquadramento, sottolineando come esse avessero carattere meramente impiegatizio, da svolgersi alle dipendenze di un responsabile di area di livello inferiore e fossero prive di qualsiasi profilo di responsabilità e quindi in contrasto con la declaratoria contrattuale propria del profilo C4 di appartenenza.

Rispetto a tale apprezzamento, fondato su risultanze testimoniali che sono state espressamente richiamate nella motivazione della sentenza impugnata, l’I.N.P.S. adduce altre emergenze istruttorie che però non inficiano le conclusioni della Corte distrettuale.

La circostanza infatti che i diversi impiegati inquadrati in Area C, come il G., svolgessero, nell’occuparsi di una pratica, un pò tutte le mansioni rientranti nell’ambito di tale Area, se può giustificare che anche il G. all’occorrenza dovesse fare altrettanto, non significa che egli potesse, come emerso dall’istruttoria così come valorizzata dalla Corte veneziana, essere privato di qualsiasi profilo di responsabilità.

La posizione C4 in cui il G. pacificamente è ed ha diritto ad essere inquadrato, prevede invece la responsabilità come tratto caratterizzante, sia dal punto di vista formale (“assunzione di responsabilità formale” si legge nella declaratoria del C.C.N.L. richiamata dalle parti) sia dal punto vista sostanziale (richiedendo ad esempio la “capacità di assumere decisioni anche in situazioni di criticità”).

La Corte d’Appello non ha quindi violato alcuna norma sull’interpretazione dei contratti (qui, collettivi) ed il motivo risulta palesemente inidoneo ad inficiare in alcun modo la motivazione addotta, in stretta coerenza tra declaratoria e risultanze istruttorie, nella sentenza impugnata.

3. Infondato è anche il secondo motivo, che concerne gli apprezzamenti della sentenza definitiva in ordine al nesso causale tra il comportamento illegittimo e il danno biologico accertato, nonchè la quantificazione del risarcimento posto a carico dell’ente.

L’I.N.P.S. sostiene che vi sarebbe stata la violazione, rilevante ex art. 360 c.p.c., n. 3, dell’art. 41 c.p., ovverosia della regola sull’equivalenza delle concause. Sul presupposto che il lavoratore avesse, come accertato dal c.t.u., una naturale predisposizione alla malattia psichica poi sviluppatasi, l’ente ritiene che la medesima condizione andasse intanto considerata anch’essa come causa del danno ed inoltre, mancando prova “del nesso di causalità tra i comportamenti datoriali ed il danno patito dal lavoratore”, essa dovesse essere intesa quale unica “determinante dell’evento”.

Non appare tuttavia corretto l’assunto secondo cui la predisposizione personale sarebbe da intendere quale concausa del manifestarsi del danno, in quanto nulla autorizza ad affermare che la situazione di latenza della patologia accertata dal c.t.u. si sarebbe conclamata in danno, senza il ricorrente dei fattori scatenanti afferenti alla vicenda penalistica e lavorativa apprezzati dal c.t.u. e puntualmente valorizzati dalla Corte d’Appello. Ciò manifesta l’inconsistenza di quanto sostenuto con il motivo in esame, attraverso cui si sottopone alla Corte un’apodittica ed inammissibile (Cass., S.U., 25 ottobre 2013, n. 24148) rilettura dei dati di merito.

Si deve poi osservare che la sentenza definitiva di appello si fonda su chiarimenti resi del c.t.u. in cui quest’ultimo, secondo quanto riportato espressamente nello stesso ricorso per cassazione, afferma che il danno manifestatosi era da riportare non solo alla vicenda penalistica, ma anche al “vissuto persecutorio” in sede di lavoro.

Vissuto che il c.t.u. riconosceva in nesso causale con il pregiudizio alla salute, a condizione che “la ricostruzione giudiziaria della vicenda fosse risultata conforme alle dichiarazioni del periziato”.

Da ciò la Corte, avendo con la sentenza non definitiva già accertato il comportamento dequalificante, ha ovviamente tratto la conclusione della ricorrenza del nesso concausale, tra le vicende penalistiche/lavoristiche e la manifestazione del danno, concludendo poi in termini giuridici per la piena responsabilità datoriale verso il G., secondo il principio di equivalenza delle concause.

E’ quindi palese che, da quest’ultimo punto di vista, il motivo di ricorso per cassazione si basa su un presupposto, ovverosia il mancato accertamento di nesso causale tra comportamento datoriale e danno, che è erroneo, in quanto l’accertamento di quel nesso vi è stato e neppure sono stati spesi effettivi argomenti logici atti a porne in dubbio la fondatezza.

4. In definitiva il ricorso va integralmente rigettato.

5. Nulla va disposto sulle spese, stante il fatto che la parte vincitrice è rimasta intimata.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 10 gennaio 2018.

Depositato in Cancelleria il 26 aprile 2018