Insegnanti

I rischi che corre l’insegnante a tempo indeterminato che trova una nuova occupazione.

Scuola – Dimissioni – Decadenza dall’impiego – pregiudizi.

  1. Le dimissioni principi generali.

Le dimissioni nell’ambito del rapporto di lavoro sono contemplate in un quadro normativo abbastanza scarno.

Il riferimento va all’articolo 2118 del codice civile laddove si legge che “Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato [c.c. 1373], dando il preavviso nel termine e nei modi stabiliti [dalle norme corporative] (1), dagli usi o secondo equità (4)(2).

In mancanza di preavviso, il recedente è tenuto verso l’altra parte a un’indennità equivalente all’importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso [c.c. 1750, 2948, n. 5].

La stessa indennità è dovuta dal datore di lavoro nel caso di cessazione del rapporto per morte del prestatore di lavoro.”

Il principio compendiato in maniera chiara è quello dell’esercizio di un diritto potestativo che prescinde dalla volontà del soggetto del destinatario dell’atto a cui occorre solo far pervenire la relativa comunicazione.

Diverse sono poi le norme che tutelano il receduto allorquando esso è rappresentato dal lavoratore. 

La sostanziale libertà di recesso che poi ha trovato consistenti limiti nei confronti del datore di lavoro, rappresenta per quanto riguarda il prestatore di lavoro, una forma di rispetto nei confronti dell’articolo 4 della Carta Costituzionale che vuole consentire al lavoratore con contratto indeterminato di autodeterminare il proprio futuro professionale nell’ambito delle limitate occasioni di occupazione soddisfacente, offerte dall’attuale mercato del lavoro.

Il principio affermato in termini costituzionali della libera volontà del prestatore di lavoro si manifesta in primo luogo nella possibilità per le parti di negoziare limiti ragionevoli a tale potestà in ogni caso basati su principi di natura risarcitoria, potendo così legittimamente stipulare delle clausole di durata minima garantita garantite da una penale.

Ne discende, ad avviso chi scrive, un immanente e costituzionalmente garantito principio di libertà per il recesso del lavoratore che, sempre nel rispetto del dettato di cui all’articolo 4 della Carta Costituzionale ammette talune clausole di natura meramente risarcitoria.

  • Le dimissioni nel pubblico impiego contrattualizzato dopo la riforma avviata con il DLGS 29/93.
  1. La disciplina generale della materia (articolo 2, comma 2 del DLGS 165/2001, Testo Unico del Pubblico Impiego) stabilisce che i rapporti di lavoro delle amministrazioni pubbliche (il cui personale non permane in regime di diritto pubblico come nel caso di Forze Armate, Magistratura , corpo docente universitario) sono disciplinati dalle disposizioni del Capo I, Titolo II, del Libro V del codice Civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro nell’impresa, consentendo la deroga da parte della contrattazione collettiva alle norme di legge e di regolamento o statuto, che introducano specifiche discipline dei rapporti di lavoro.Il precedente testo unico degli impiegati civili dello Stato prevedeva oltre alla risoluzione del rapporto di lavoro per varie fattispecie tra cui quella disciplinare, anche un’ulteriore ipotesi dove concorreva anche la volontà del dipendente.Era infatti prevista la decadenza dall’impiego in diverse ipotesi tra cui quella che si verificava nel caso in cui il dipendente senza giustificato motivo, non assumesse o non riassumesse servizio entro il termine prefissogli, ovvero fosse rimasto assente dall’ufficio per un periodo non inferiore a quindici giorni ove gli ordinamenti particolari delle singole amministrazioni non stabiliscano un termine più breve.Detta norma, secondo recente giurisprudenza della Suprema Corte n.20555 del 6.8.2018, è ancora vigente per quanto attiene l’ipotesi dell’incompatibilità che si verifica in forza dell’articolo 53 comma primo del DLGS 165/2001 laddove l’impiegato si trovi in condizione di incompatibilità e, diffidato dal cessare tale situazione, trascorsi 15 giorni dalla diffida, permanendo nella posizione incompatibile venga dichiarato decaduto.Dunque un ipotesi di cessazione per fatto concludente che non assume valenza disciplinare, ma da cui consegue l’istituto della decadenza dall’impiego.Secondo quanto motivato nella sentenza della Suprema Corte cui si è fatto cenno, tale ipotesi risolutiva continuerebbe ad esistere laddove la risoluzione del rapporto non consegua ad un fatto disciplinare il cui ambito di operatività normativa sarebbe invece il citato DLGS 165/2001 dagli articoli 55 e seguenti. (impianto disciplinare del pubblico impiego contrattualizzato).

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b. La normativa legale specifica della scuola il DLGS n.297/1994, articolo 510.

Il settore della Scuola pubblica è integralmente destinatario della normativa di cui al testo unico del pubblico impiego contrattualizzato e quindi dal DLGS 165/2001.

Quindi il rapporto di lavoro è integralmente contrattualizzato ed opera il complesso di norme in tema di risoluzione del rapporto di cui al codice civile ed alla contrattazione collettiva di comparto.

Sussistono comunque delle particolarità che nel caso in esame assumono rilevanza.

Trattasi in primo luogo del decreto legislativo 297 del 1994 che prevede specifiche normative in materia di istruzione scolastica e di personale insegnante. In proposito, l’articolo 510 (dimissioni) prevedeva per le dimissioni un termine in base al quale, le dimissioni presentate avevano efficacia esclusivamente dal 1° settembre successivo alla data in cui sono state presentate. Stabilisce inoltre la medesima norma che le dimissioni presentate dopo tale data, ma prima dell’inizio dell’anno scolastico successivo, hanno effetto dal 1° settembre dell’anno che segue il suddetto anno scolastico. Conclude l’articolo medesimo che il personale è tenuto a prestare servizio fino a quando non gli venga comunicata l’accettazione delle dimissioni.

La norma risulta abrogata dall’articolo 4, comma 1, DPR 28 aprile 1998 n.351.

Contestualmente, sulla base della legge 15.3.1997 n.59 articolo 20, comma 8, era emanato il DPR 28.4.1998 n.351 all’articolo 1 (cessazione dal servizio) dove era stabilito che i collocamenti a riposo a domanda per compimento del quarantesimo anno di servizio utile al pensionamento e le dimissioni dall’impiego del personale del comparto «Scuola» con rapporto di lavoro a tempo indeterminato decorrono dall’inizio dell’anno scolastico o accademico successivo alla data in cui la domanda è stata presentata.

Era quindi aggiunto al comma 2 che con decreto del Ministro della pubblica istruzione è stabilito il termine entro il quale, annualmente, il personale di cui al comma 1 può presentare o ritirare la domanda di collocamento a riposo o di dimissioni.

Nel contempo, il contratto collettivo di comparto (Scuola) all’articolo 23 (termini di preavviso) stabilisce in caso di risoluzione del rapporto di lavoro dei termini di preavviso che vanno da 2 mesi a 4 mesi a seconda dell’anzianità di servizio.

Il problema aperto.

Ne deriva una situazione alquanto incongrua, in quanto, il dipendente che, ad esempio ha trovato un nuovo lavoro, si trova a dover rispettare il preavviso contrattuale cui abbiamo appena fatto cenno oltre al “preavviso” legale previsto dall’articolo 1 del DPR 28.4.1998 n.351 dove è stabilito che i collocamenti a riposo a domanda per compimento del quarantesimo anno di servizio utile al pensionamento e le dimissioni dall’impiego del personale del comparto «Scuola» con rapporto di lavoro a tempo indeterminato decorrono dall’inizio dell’anno scolastico o accademico successivo alla data in cui la domanda è stata presentata.

Le dimissioni che non rispettano questi ultimi termini si appalesano inefficaci. In tal modo, il dipendente sarà tenuto a rendere la prestazione e due sono le ipotesi cui egli può andare incontro.

Da un lato, egli assumendo un nuovo lavoro si pone in posizione di incompatibilità con l’impiego in essere e rischia la decadenza, diversamente, gli potrà essere contestata l’assenza ingiustificata e comminato quindi il licenziamento disciplinare.

Trattasi di due ipotesi entrambi pregiudizievoli qualora il dipendente dimissionario debba affrontare un concorso pubblico.

Inoltre, secondo quanto previsto dall’articolo 55 bis del DLGS 165/2001 ai commi 8 e 9 prevede che in caso di trasferimento del dipendente, a qualunque titolo, in un’altra amministrazione pubblica, il procedimento disciplinare è avviato o concluso e la sanzione è applicata presso quest’ultima.

Il successivo comma 9 prevede inoltre che la cessazione del rapporto di lavoro estingue il procedimento disciplinare salvo che per l’infrazione commessa sia prevista la sanzione del licenziamento.

Va anche notato che il medesimo contratto della scuola consente all’articolo 18 un’apposita fattispecie di aspettativa per avviare una nuova esperienza lavorativa e superare il periodo di prova presso un nuovo datore di lavoro.

Si giunge così al paradosso, dove il dipendente che ha ottenuto l’aspettativa per testare un nuovo rapporto di lavoro e si decida per quest’ultimo, sia costretto a riprendere il precedente impiego a pena di decadenza o di sanzione disciplinare.

Alcune soluzioni giurisprudenziali e la soluzione auspicata.

Casi del genere sono pervenuti all’attenzione della giurisprudenza anche della Suprema Corte la quale con sentenza del 12.2.2015 n.2795 proprio nello specifico caso delle dimissioni rese nell’ambito della scuola ha ritenuto che l’atto di recesso unilaterale è idoneo a determinare la risoluzione del rapporto, a prescindere dall’accettazione del datore di lavoro, va contemperato con le esigenze di natura organizzativa collegate al buon andamento dell’attività scolastica, che impongono che i termini per la presentazione delle domande siano individuati dalla normativa di riferimento, e che, ai sensi dell’art. 10 del d.l. 6 novembre 1989, n. 357, convertito con modificazioni nella legge 27 dicembre 1989, n. 417, ne individuano la decorrenza dal 1 settembre di ogni anno. (Nella specie, la Suprema Corte ha ritenuto inefficaci le dimissioni di un collaboratore scolastico, presentate in data 26 marzo 2006, in relazione all’anno scolastico 2006-2007, in quanto presentate oltre il termine previsto dal d.m. 18 novembre 2005, n. 87, restando suscettibili di efficacia per la prima successiva data utile del 1° settembre 2007).

Di fronte all’inefficacia delle dimissioni, va approfondita la posizione del dipendente che le ha rassegnate.

Si ipotizza infatti a fronte della mancata presenza in servizio l’ipotesi della decadenza o del licenziamento per assenza ingiustificata.

Entrambi provvedimenti possono influire nel caso di partecipazione a concorso per l’assunzione nella pubblica amministrazione.

In primo luogo, ci si chiede se l’istituto della decadenza abbia ancora diritto di cittadinanza nell’ambito del pubblico impiego contrattualizzato.

La Corte di Cassazione con la pronuncia n.20555 del 6.8.2018 ha ribadito come l’istituto della decadenza dal rapporto di impiego, come disciplinato dagli articoli 60 e seguenti del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, sia applicabile ai dipendenti di cui all’art. 2, commi secondo e terzo, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, in forza dell’espressa previsione contenuta nell’art. 53, comma primo, dello stesso decreto, e, siccome detta forma di decadenza costituita dall’aver assunto altro impiego incompatibile, attiene alla materia delle incompatibilità, essa è estranea all’ambito delle sanzioni e della responsabilità disciplinare di cui all’art. 55 dello stesso testo normativo.

Dunque continua ad applicarsi l’istituto della decadenza laddove il dipendente che assuma una posizione di impiego incompatibile non aderisca alla diffida dell’amministrazione a riprendere servizio.

La gran parte dei bandi di concorso per le pubbliche amministrazioni considera come causa di esclusione dalla partecipazione al concorso l’essere incorsi nella decadenza dall’impiego prevista dall’articolo 127 del DPR n.3 del 1957 Testo Unico del Pubblico Impiego considerato ancora vigente.

Esso prevede che l’impiegato incorre nella decadenza dall’impiego:

a) quando perda la cittadinanza italiana;

b) quando accetti una missione o altro incarico da una autorità straniera senza autorizzazione del Ministro competente;

c) quando, senza giustificato motivo, non assuma o non riassuma servizio entro il termine prefissogli, ovvero rimanga assente dall’ufficio per un periodo non inferiore a quindici giorni ove gli ordinamenti particolari delle singole amministrazioni non stabiliscano un termine più breve (161);

d) quando sia accertato che l’impiego fu conseguito mediante la produzione di documenti falsi o viziati da invalidità non sanabile.

La decadenza di cui alle lettere c) e d) è disposta sentito il consiglio di amministrazione.

Va poi detto a completamento di quanto sopra che Va infine detto che a norma dell’ art. 128, comma 2 del D.P.R. n. 3/1957, l’impiegato decaduto ai sensi della lettera d) dell’art. 127, comma 1 dello stesso D.P.R. (quando cioè l’impiego fu conseguito mediante la produzione di documenti falsi o viziati da invalidità non sanabile) non può concorrere ad altro impiego nella Amministrazione dello Stato.

In realtà, molti bandi di concorso parlano tout court di decadenza ed in tali casi la conseguenza per il decaduto potrebbe essere sempre l’esclusione, a meno che non impugni il bando.

Sul punto è intervenuto la Corte Costituzionale con la sentenza del 27 luglio 2007 n.329 proprio nel caso specifico di un concorso per l’assunzione nella scuola, dove la concorrente era in precedenza stata dichiarata decaduta dall’impiego per aver reso false dichiarazioni sul proprio stato di salute, la Corte ha ritenuto che, in forza dell’articolo 3 della Costituzione e della razionalità che deve governare il principio di eguaglianza, deve escludersi l’automatismo che determina l’esclusione dal concorso,

Ne discende afferma la Consulta,  la necessità che l’amministrazione valuti il provvedimento di decadenza emesso ai sensi dell’art. 127, primo comma, lettera d), dello stesso decreto, per ponderare la proporzione tra la gravità del comportamento presupposto e il divieto di concorrere ad altro impiego; potere di valutazione analogo a quello riconosciuto da questa Corte ai fini dell’ammissione al concorso, con riferimento alla riabilitazione ottenuta dal candidato (sentenza n. 408 del 1993).

La discrezionalità che l’amministrazione pubblica eserciterà in tal modo sarà limitata dall’obbligo di tenere conto dei presupposti e della motivazione del provvedimento di decadenza, ai fini della decisione circa l’ammissione a concorrere ad altro impiego nell’amministrazione.

A maggior ragione deve ritenersi priva di alcuna ragione ed in palese violazione del diritto al lavoro l’esclusione di chi dopo un periodo di aspettativa decida di optare per il nuovo impiego e non sta in grado di rispettare il termine per lasciare il precedente impiego imposto dalla legislazione scolastica.

In casi del genere, il potenziale escluso, dovrà impugnare il bando che contempli una simile clausola di decadenza o comunque una clausola di decadenza generica che non specifichi l’ipotesi di cui all’articolo 128 punto 3 del DPR 3/1957.

Ancora più opportuna e consona all’evoluzione del rapporto di lavoro, una soluzione data dalla contrattazione collettiva che rispetti le esigenza della scuola e quelle della legittima ricerca di un nuovo posto di lavoro.

Fabio Petracci.