I Quadri nel Pubblico Impiego. Un’occasione mancata ma non persa…

a. Breve cronistoria.

Con il DLGS 165/2001 il rapporto di lavoro del personale delle pubbliche amministrazioni è per la gran parte ricondotto alle regole del codice civile e della ordinaria normativa in tema di lavoro.
Si poneva da subito il problema della operatività in tale ambito dell’articolo 2095 dell’articolo 2095 del codice civile che suddivide i lavoratori nell’ambito delle categorie dei dirigenti, dei quadri, degli impiegati e degli operai.

Il DLGS 165/2001 evidenziava invece esclusivamente la categoria dei dirigenti e quindi del restante personale non dirigenziale, pur sottolineando nell’allora articolo 40, comma 2 la presenza di spazi contrattuali per specifiche elevate professionalità. In particolare rilevava per questa organizzazione il tema dell’inquadramento delle professionalità medio –
alte e quindi dei quadri.

b. La lunga strada del contenzioso.

Ne seguiva una lunga e fitta interlocuzione con la funzione pubblica. Erano quindi avviate numerose cause per il riconoscimento della categoria di quadro nell’ambito del comparto pubblico. Alcune sortivano esito positivo altre no.

Nel 2008, la Corte di Cassazione (Cassazione, Sezione lavoro, sentenza 6 marzo 2008 n. 6063) riteneva definitivamente che l’articolo 2095 del codice civile che prevede anche la categoria dei quadri non doveva trovare attuazione nell’ambito dell’impiego pubblico dove invece, a detta della Suprema Corte esistevano specifiche normative a tutela della professionalità
apicali. La Corte si riferiva all’articolo 40 comma 2 del DLGS 165/2001 che prevede nell’ambito della contrattazione collettiva apposita disciplina per le figure professionali che “che in posizione di elevata responsabilità svolgono compiti di direzione” e che, sempre in tale posizione, svolgono compiti che “comportano iscrizione ad albi oppure tecnicoscientifici
e di ricerca”. La Corte in sostanza riteneva questa una specifica disciplina di settore che impediva la trasposizione della categoria dei quadri dal codice civile alla disciplina del pubblico impiego. Va rilevato che ad oggi l’articolo 40 comma 2 del DLGS 165/2001 non ha trovato attuazione.
Particolare di rilievo, il Tribunale di Treviso, rinviava dapprima all’ARAN il contratto del comparto Ministeri laddove non contemplava la figura dei quadri, per verificare se le parti intendevano trovare una soluzione in merito. Ciò non solo non accadeva, ma ARAN e sindacati firmatari del Comparto Pubblico mandavano risposta al giudice escludendo tale soluzione.
Lo stesso magistrato riteneva il dover affidare la questione alle sole parti stipulanti, di rilevante incostituzionalità e quindi la questione era avviata alla Corte Costituzionale che però non la riteneva tale.

c. L’esperienza della Vice dirigenza mai attuata.

Di seguito anche grazie alle numerose insistenze dell’Organizzazione, la legge 145 /2002 (Legge Frattini) istituiva mediante l’articolo 17 bis la vice dirigenza la cui attuazione era poi affidata alla contrattazione collettiva di comparto.
Un tanto non avveniva e dopo alterne vicissitudini giudiziarie che vedevano anche l’intervento della Corte Costituzionale, l’articolo 17 bis era abrogato. Di seguito minore era l’interesse della Associazione per l’argomento.
Attualmente è pendente un ricorso innanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

Va ricordato inoltre che nel 2001, il Parlamento Europeo – Ufficio Petizioni, dopo l’audizione del sindacato DIRSTAT a Bruxelles aveva ritenuto il governo e il parlamento italiano inadempienti perché dopo la cosiddetta privatizzazione del pubblico impiego non aveva istituito un’area quadri per il personale ex direttivo relegandolo nei livelli funzionali.

Per quanto riguarda la legge di abrogazione della vice dirigenza, essa era intervenuta dopo che erano passate
in giudicato alcune pronunce che su diversi versanti ritenevano la sussistenza del diritto.
Si riteneva in tal modo, che si fosse verificata un’indebita ingerenza del potere legislativo nell’ambito di una statuizione consolidata del potere giudiziario.

d. Prospettive

Con la legge 124/2015, erano poste le basi per la riforma della dirigenza (legge Madia). Non seguiva però nei tempi debiti la legge di attuazione e quindi ad oggi, la riforma è ancora in totale attesa di attuazione. Va notato come la legge delega 124/2015 non accenni né alla vice dirigenza, né all’introduzione della categoria dei quadri.
Un aspetto interessante è dato invece dalla riduzione del numero dei dirigenti e dalla prevista istituzione del ruolo unico della dirigenza.

Si potrebbe porre l’opportunità di seguire una nuova strada.
Fondamentalmente, l’istituzione della vice dirigenza è stata bollata come corporativa e costosa e quindi come un arretramento dell’organizzazione amministrativa. In realtà essa ha trovato una forte opposizione da parte del sindacato confederale (CISL in primis) che non ne ha permesso l’avvio.
Se questa ormai è storia, dobbiamo ora esaminare allo stato quali sono le possibilità di introdurre un’area dei quadri o della vice dirigenza nell’ambito del pubblico impiego percorrendo una nuova strada anche alla luce dei nuovi assetti che hanno interessato il settore.
Si propone innanzitutto di inserirsi nel solco della riforma della dirigenza che dovrà di seguito essere nuovamente avviata per sviluppare i temi della riduzione dei costi, della conseguente riduzione dei dirigenti e della costituzione di un ruolo unico che consenta alla Pubblica Amministrazione non solo di ridurre il numero dei dirigenti, ma di disporre anche di un nucleo di personale non dirigente, ma altamente qualificato cui attribuire compiti di sostituzione, di consulenza e di elevata specializzazione.

e. Partendo dalle criticità della legge abrogata.

L’introduzione della vice dirigenza avvenuta con la legge 145/2002 prevedeva una complessa architettura legale collegata alle categorie esistenti, alla delega di funzioni e ad un riconoscimento contrattuale.
Inoltre l’incarico del vice – dirigente presentava delle criticità in riferimento alle modalità di assegnazione degli incarichi al vice dirigente. Questa carenza costituiva un elemento di notevole e notata rigidità organizzativa. In tal modo infatti, i dipendenti assurti alla qualifica di vice – dirigente acquisivano una posizione sostanzialmente irremovibile con una totale
coincidenza tra rapporto di servizio e rapporto organico. In sostanza, i vice dirigenti avrebbero un incarico fisso a differenza dai dirigenti, soggetti, invece, alle valutazioni ed a possibili modifiche degli incarichi dirigenziali.
La sostanziale inamovibilità dall’incarico avrebbe potuto dar luogo ad un effetto perverso nella dinamica del rapporto tra gli organi di governo e la dirigenza, dove quest’ultima presentava un elemento di debolezza costituito dalla potestà di nomina e revoca da parte degli organi di governo a fronte di una sostanziale inamovibilità dei sottoposti vice dirigenti, mettendo così in pericolo il principio di separazione delle funzioni dirigenziali da quelle politiche, conferendo una maggior forza ai cosiddetti funzionari rispetto alla dirigenza.

Inoltre l’accesso alla vice dirigenza previsto dalla legge 145/2002 era pressochè automatico per i livelli più elevati dell’area C con adeguato titolo di studio. Mancava in effetti, una procedura selettiva nei confronti di un’area apicale C abbastanza generalizzata ed inflazionata e nessun criterio di valutazione per l’attribuzione dell’incarico.
Per contro, il sistema oggi vigente delle posizioni organizzative è tutto incentrato sul conferimento di un incarico nella quasi totale discrezionalità della pubblica amministrazione e sull’inesistenza di una base di dipendenti titolari di un diritto ad essere selezionati.
Si poneva così, almeno per i più critici, come una nuova forma di irrigidimento delle strutture dell’impiego pubblico, cui si preferirono le posizioni organizzative che da una parte salvaguardavano l’uniformità dell’inquadramento del personale non dirigenziale e dall’altra garantivano alle amministrazioni una notevole discrezionalità. Essa inoltre era particolarmente invisa ai sindacati tradizionali, in quanto prevedeva la creazione di una specifica e separata area anche contrattuale della vice dirigenza che avrebbe fatto di quadri e vice dirigenti e quindi delle specifiche organizzazioni di categoria dei soggetti della contrattazione collettiva.

f. L’emergere di nuove e attuali esigenze

– Il caso delle Agenzie Fiscali
Sulla base di tali considerazioni, si sarebbe dovuto puntare alla costituzione di un’area quadri anche nel pubblico impiego cui poi conferire appositi incarichi e deleghe su valutazione dei dirigenti.
Fatte queste debite precisazioni, si riscontrano elementi del tutto oggettivi che rendono necessaria ed attuale la costituzione di questa area professionale.

Va ricordato che con sentenza del 25 febbraio 2015, la Corte Costituzionale censurava le Agenzie Fiscali che nella mancanza di quadri intermedi in grado di coprire determinate posizioni, aveva attribuito incarichi dirigenziali a propri funzionari pe assicurare la funzionalità operativa delle proprie strutture e l’attuazione delle misure di contrasto all’evasione.
Ne traeva lo spunto la finanziaria per il 2018 legge 27.12.2017 n.205 che prevedeva all’articolo 1, comma 93 la possibilità per le agenzie fiscali di istituire posizioni organizzative per lo svolgimento di incarichi di elevata professionalità o particolare specializzazione ivi compresa la responsabilità di uffici operativi di livello non dirigenziale nei limiti del risparmio di spesa conseguente alla riduzione di posizioni dirigenziali, conferendo dette posizioni a funzionari con almeno cinque anni di
esperienza nella terza area mediante una selezione interna in base alle conoscenze professionali ed alle capacità tecniche ed alle valutazioni conseguite negli anni precedenti, attribuendo agli stessi il potere di adottare atti amministrativi anche a rilevanza esterna con poteri di spesa e di organizzazione delle risorse umane, articolando dette posizioni in relazione ai poteri conferiti, favorendo quindi detto personale nell’accesso alla dirigenza tramite concorso facilitato.

La norma citata in maniera settoriale e non sempre chiara e coordinata istituisce di fatto una categoria molto affine alla vice dirigenza, attribuendo delle posizioni organizzative, termine che appartiene alla contrattazione collettiva e non alla legge, a determinati soggetti predeterminati con ampi poteri.
La norma così emanata rivela da un lato un indicibile elemento di confusione e di cattivo coordinamento con il testo unico del pubblico impiego e con la contrattazione collettiva, introducendo così anche elementi di dubbia costituzionalità.
Essa però appare come sintomatica della necessità di un’area professionale intermedia tra la dirigenza ed il resto del personale anche in considerazione di esigenze di risparmio.
Essa per quanto infelicemente formulata, potrebbe dare lo spunto per un ripensamento generale e di ampio respiro per l’introduzione definitiva della vice dirigenza nell’impiego pubblico in termini mutati rispetto alla disciplina abrogata.

– La riforma Madia nella parte non attuata.
Un ulteriore cenno va alla legge delega 124/2015 Riforma Madia nella parte concernente la dirigenza che però non ha trovato attuazione, essendo scaduti i termini per la decretazione.
L’articolo 11 della previsione di legge si occupa della dirigenza pubblica ed in particolare al punto c) dell’accesso alla dirigenza, stabilendo l’immissione dei vincitori del corso concorso in fase iniziale quali funzionari, senza tener conto che il testo unico sul pubblico impiego non prevede né tali figure né un loro equivalente, prevedendo inoltre per i dirigenti privi di incarico la possibilità di avanzare istanza per passare alla carriera di funzionario.
Non si tratta davvero di un semplice lapsus del legislatore, ma ancora una volta di una sensazione di necessità di un’area di quadri – vicedirigenti – funzionari.

– Il piano triennale dei fabbisogni del personale e l’emergere della professionalità.
Va ricordato ancora il recente DLGS 75/2017 che ha modificato l’articolo 6 del DLGS 165/2001 introducendo il piano triennale dei fabbisogni del personale consentendo alle pubbliche amministrazioni di superare il concetto obsoleto di organico intervenendo sull’assetto non solo quantitativo, ma anche e soprattutto qualitativo delle risorse, del livello di inquadramento e della loro specializzazione.
Si assiste quindi ad un rovesciamento del concetto numerico e qualitativo delle risorse che non dovrà essere più adeguato
esclusivamente alla pianta organica in essere, ma alle reali esigenze della struttura.
Questo primo riconoscimento alla qualità ed alla professionalità del personale ben può dar luogo all’introduzione di un’area di professionisti e specialisti nella pubblica amministrazione.

Fabio Petracci

Orario di lavoro libertà o rigidità – il problema dei quadri e delle alte professionalità

Un intervento del Ministro del Lavoro Poletti apparentemente non collegato a tematiche indifferibili, ha suscitato numerose polemiche sul fronte sindacale. Esso lascia ampi interrogativi anche per gli addetti alla materia i quali, lungi da posizioni preconcette, cercano di collocare l’intervento in un quadro logico. Da un lato si tocca il delicato tema dell’orario di lavoro, dall’altro si ipotizza una diversa struttura della prestazione e quindi del contratto e della retribuzione.

Per tale motivo, l’intervento ha suscitato qualche interesse, qualche polemica, ma al di là di questo potrebbe anticipare qualche cambiamento anche a lungo termine nell’ambito del lavoro.

Le dichiarazioni del ministro se lette attentamente paiono anticipare l’introduzione di forme di lavoro definite subordinate o a cui si applica la normativa del lavoro subordinato, ma che si differenziano dal lavoro tradizionale per il contenuto di autonomia da cui sono caratterizzate.

Mi riferisco alle recenti riforme del lavoro concretizzatesi nel jobs act che trovano attuazione nel DLGS 81/2015 nel cui ambito prestazioni professionali al limite della subordinazione, ma che non sempre sono destinate a dissimulare la stessa, saranno trasformate in rapporti di lavoro subordinato o comunque disciplinate dalla normativa del lavoro.

Il forte contenuto di autonomia di alcune prestazioni potrebbe far venir meno la stretta correlazione ore di lavoro e retribuzione, a favore di quella retribuzione e qualità o retribuzione e prodotto.

Già per quanto riguarda dirigenti e quadri, l’orario di lavoro appare una variabile non sempre correlata alla retribuzione.

Sappiamo che per queste categorie non valgono i limiti di legge all’orario di lavoro, e non dovrebbero valere, anche se ciò non accade i corrispettivi obblighi di orario.

Torniamo per il momento alle opinioni espresse dal Ministro per valutarle ormai “a freddo” dopo un certo lasso di tempo e dopo l’intervento di un ulteriore riforma del lavoro. .

1.L’opinione espressa dal ministro.

Il 27 novembre il Ministro Poletti, intervenendo all’Università LUISS, ha dichiarato che sarebbe necessario immaginare un contratto che non abbia come unico riferimento l’ora-lavoro, ma la misurazione dell’apporto dell’opera. La misurazione ora-lavoro è un attrezzo vecchio, aggiunge il ministro, e frena rispetto ad elementi di innovazione. La reazione, soprattutto da parte dei sindacati, è stata immediata: in particolare, il segretario generale della Cgil Susanna Camusso ha obiettato che molte persone svolgono dei lavori faticosi, per cui l’orario di lavoro è una garanzia fondamentale per la salvaguardia della loro salute.

l 2 dicembre il Ministro Poletti è tornato sulla questione, affermando che la riflessione su un’eventuale modifica dell’orario di lavoro non è meramente personale o di livello nazionale, ma si tratta invece di un argomento allo studio affrontato sia a livello europeo che mondiale. Il Ministro ha proseguito dicendo che forme e modalità di un’eventuale riforma devono essere studiate e discusse; ha successivamente negato di aver fatto riferimento al cottimo, sottolineando invece il suo riferimento ad una partecipazione attiva e responsabile del lavoratore alla propria attività di lavoro.(Fonte: http://video.repubblica.it/economia-e-finanza/poletti-e-le-polemiche-sull-orario-di-lavoro-mai-pensato-di-tornare-al-cottimo/220648/219847 ). Partiremo dall’attuale disciplina dell’orario di lavoro che già è stata in tempi non lontani, oggetto di interventi legislativi comunitari e nazionali.

Non vi è dubbio che allo stato, l’elemento di misurazione della prestazione subordinata è ancora il tempo. Aggiungo che ciò appare naturale dal momento che è insito nel concetto di subordinazione, mettere a disposizione del datore di lavoro le proprie capacità psicofisiche.

Ne risulta che, la misurazione della prestazione in un ambito temporaneo appare quella contrattualmente più coerente. Da un lato, il lavoratore non potrebbe mettere a disposizione forze ed energie per un tempo indefinito, se non violando i canoni della nostra Costituzione, dall’altro, la direzione dell’attività che compete al datore di lavoro pone a carico di quest’ultimo l’organizzazione dei tempi di prestazione, così come pure del luogo.

La normativa comunitaria pone regole abbastanza precise in tema di orario di lavoro e di distribuzione della prestazione nell’ambito temporale. La Direttiva 93/104/CE del Consiglio, concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro, all’articolo 2 prevede che per “orario di lavoro” si intende: qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni, conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali.

L’articolo 6 dispone che, in funzione degli imperativi di protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori, la durata settimanale del lavoro sia limitata mediante disposizioni legislative, regolamentari o amministrative oppure contratti collettivi o accordi conclusi fra le parti sociali.

Tuttavia, a ben osservare, essa in diversi punti in qualche modo contiene il germe per il superamento del rigido computo dell’orario giornaliero come base della prestazione.

La direttiva CE infatti, come pure la legge nazionale che fa seguito con il DLGS 66/2003 introduce un computo multi periodale dell’orario di lavoro in base alla durata media dello stesso.

In sostanza, la legge pone dei limiti di durata dei tempi di lavoro che si traducono in 48 ore settimanali, e in 11 ore di sosta tra una prestazione giornaliera e l’altra.

Ne permette però, tramite la contrattazione collettiva, il superamento qualora in un periodo massimo di tempo che può arrivare sino a 12 mesi, tramite una sorta di media, i limiti possano dirsi rispettati.

Vi è un ulteriore aspetto del rapporto di lavoro, laddove la rigida bilateralità orario e retribuzione, viene almeno in parte meno.

Mi riferisco all’orario dei dirigenti, dei quadri e del personale direttivo. Già l’articolo 3 del RD n.1955 del 1923 all’articolo 3 escludeva i dirigenti ed il personale direttivo tutto dall’applicazione della normativa in tema di limitazione all’orario di lavoro.

Di seguito, la legge 22.2.1934 n.370 escludeva i preposti dalla normativa in tema di riposo settimanale.

Quindi era emanato il DLGS 66/2003 cui abbiamo accennato ed esso è la normativa attualmente in vigore in materia di orario di lavoro.

Leggiamo quindi all’articolo 17 comma 5 del DLGS che le disposizioni in materia di limitazione dell’orario di lavoro non si applicano ai lavoratori la cui durata dell’orario di lavoro , a causa delle caratteristiche dell’attività esercitata, non è misurata o predeterminata o può essere determinata dai lavoratori stessi e in particolare quando si tratta: a) di dirigenti, di personale direttivo delle aziende o di altre persone aventi potere di decisione autonomo.

Leggendo il dato testuale, sarei portato a concludere che l’elemento necessario e sufficiente per l’applicazione della deroga sia la possibilità per il lavoratore di poter determinare il proprio orario di lavoro. Nella pratica quotidiana, ciò non accade spesso e quindi, a differenza che per il dirigente, soprattutto di livello elevato, il quadro o il direttivo finisce per avere un orario rigido o quasi e a non vedersi retribuito lo straordinario.

E’ interessante richiamare una non lontana sentenza della Corte di Cassazione (Sezione Lavoro 13.6.2008 n.16041) la quale intervenendo in materia, chiamata a decidere in merito all’orario di lavoro di un quadro dipendente da una casa automobilistica che regolarmente partecipava a fiere nonostante ciò non rientrasse nei suoi compiti, come per tali prestazioni allo stesso spettassero gli straordinari.

La Corte nel riconoscergli il diritto allo straordinario, testualmente così afferma: Non gli applica perciò la norma del R.D.L. 15 marzo 1923, n. 692, art. 23, convertito in L. 17 aprile 1925, n. 473 , secondo cui la normativa sui limiti dell’orario normale di lavoro non si applica al personale direttivo delle aziende.Nè gli si applica la L. 22 febbraio 1934, n. 370, art. 1, n. 4, che menziona, tra le singole ipotesi di esenzione dal riposo settimanale, il “personale preposto alla direzione tecnica od amministrativa di una azienda ed avente diretta responsabilità nell’andamento dei servizi”: il signor E. non era preposto alla direzione dell’azienda, e non aveva responsabilità diretta nell’andamento dei servizi, considerati nella loro globalità.

Dunque una pronuncia non eccessivamente datata non successivamente emendata da altre decisioni dello stesso livello pone rilevanti limiti all’eccezione per i quadri dall’applicazione della normativa in tema di orario massimo di lavoro.

Il rapporto stretto ore di lavoro e retribuzione non trova neppure applicazione in un’altra fattispecie che potremmo definire a subordinazione attenuata come nel caso del lavoro a domicilio.

Dunque dove vengono meno i riferimenti di luogo e di tempo della prestazione, è quanto mai difficile ancorarvi l’assetto retributivo. Da qui il sorgere di numerose problematiche cui solo la contrattazione collettiva dedicata a specifiche professionalità potrà porre rimedio.

Con l’emergere della possibilità di superare il binomio orario – retribuzione,, si salda in qualche modo un progetto di legge destinato a diventare legge tra breve tempo.

Trattasi del disegno di legge 2233 del 2016 che oltre ad introdurre una disciplina innovativa per quanto attiene al lavoro autonomo e parasubordinato, tocca anche l’ambito del lavoro dipendente, con una fattispecie di prestazione (lavoro agile) caratterizzata da connotati di ampia autonomia soprattutto sotto l’aspetto del tempo e del luogo della prestazione.

Ci riferiamo al cosiddetto lavoro agile del quale indicheremo alcuni tratti. La disciplina del lavoro agile – secondo quanto si legge nella relativa proposta di legge , ha lo scopo di incrementare la produttività del lavoro e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. Il progetto di legge identifica le caratteristiche del c.d. “lavoro agile”, la prestazione che deve essere svolta in parte all’interno dei locali aziendali e con i soliti vincoli di massima che derivano dalla legge e dalla contrattazione collettiva.

Ciò significa in pratica che, una volta uscito dall’ambiente di lavoro, il lavoratore non è tenuto a rispettare non solo l’orario, ma neppure l’organizzazione dei tempi di lavoro per cui in qualche modo, egli si vincola, almeno in parte e principalmente al risultato della prestazione. Di norma, si tratterà di lavori svolti per il tramite di postazioni tecnologiche e ad ampia autonomia.

Di massima si intendono prestazioni dovute da personale con inquadramento medio alto.

E’ questa una tipologia di lavoro che può ampiamente interessare l’area dei quadri.

La disciplina di legge appare forse volutamente generica a favore probabilmente di una definizione contrattuale in sede collettiva, ma in parte anche collettivo – aziendale e pure individuale.

Il tutto potrebbe trovare risposta in un contratto collettivo nazionale o aziendale ideato per le alte professionalità.

Le parti sarebbero così indotte se non costrette a ricercare altri indici misuratori della prestazione, così valorizzando la professionalità richiesta e le caratteristiche della prestazione.

In tale ambito potrebbe trovare una concreta definizione anche il tema dell’orario di lavoro delle categorie direttive e ad elevata professionalità. Trattasi infatti di una disciplina che facilmente si presta ad interpretazioni del tutto equivoche che da un lato finiscono per imporre comunque un rigido orario di lavoro anche ai capi e d’altro canto non garantisce loro lo straordinario.

Una simile situazione potrebbe trovare definizione contrattuale nei casi di prestazioni ad ampia autonomia dove la contrattazione potrebbe definire delle fattispecie più o meno avanzate di lavoro agile e nel contempo stabilire una disciplina dell’orario e della sua retribuzione per il restante personale direttive cui risulta difficile l’applicazione di un contratto di lavoro anche in parte legato al risultato.

Fabio Petracci.

Quadri, Ricercatori e Alte professionalità: un percorso comune

L’elaborato partirà dalla legge 190/1985 che modificava l’articolo 2095 del codice civile

Seguirà quindi da una parte gli effetti pratici di un simile intervento legislativo e d’altro canto la graduale trasformazione del ruolo dei quadri.

Ne trarrà come conseguenza il sorgere di un’area più vasta di lavoratori della conoscenza dove si manifestano punti di rilevante convergenza tra il ruolo professionale del quadro ed altri ruoli caratterizzati da elevata professionalità.

Vengono quindi evidenziati talune contaminazioni e parallelismi tra l’evoluzione del ruolo del quadro e quello del ricercatore industriale.

Di seguito un breve esame delle questioni poste:

A. La legge 190/1985 che modificava l’articolo 2095 del codice civile.

Già agli inizi degli anni ‘80 le dinamiche e le innovazioni che pervadevano il mondo del lavoro e l’organizzazione della produzione finivano per sconvolgere l’assetto tendenzialmente piatto del mondo impiegatizio ed imponevano il riconoscimento di figure professionali e sociali che acquisivano importanza.

La crisi della contrattazione e della rappresentanza del sindacato, l’irrompere della microelettronica e dell’automazione diffusa, portavano in primo piano il tema della professionalità e della sua differenziazione (vedi Vigevani, Boscani, Sabbatucci, Sabattini, Bonetto, Ruggeri, Cecotti, Pizzinato, “Tecnici, Ricercatori, Quadri e Sindacato”, Ediesse, 1985, pagina 19)

Ciò era dato anche dal fatto che si era conseguentemente e notevolmente ridotto il ruolo della professionalità impiegatizia, nonché il ruolo e lo status sociale di questa categoria.

Di conseguenza, le fasce maggiormente professionalizzate manifestavano per il riconoscimento di un proprio ruolo contrattuale e sociale.

Era così avviato un complicato processo che coinvolgeva non solo il sindacato ed il mondo del lavoro, ma anche la sociologia e la politica.

Il tutto approdava in numerosi disegni di legge destinati a mutare l’articolo 2095 del codice civile.

Si trattava in qualche modo di ridare status e considerazione di trattamento alle più alte professionalità impiegatizie.

Approdavano così in Parlamento, nella seduta del 19 dicembre 1984, diversi progetti di legge aventi ad oggetto il riconoscimento giuridico dei quadri intermedi.

Era così posto all’esame del Parlamento un testo che prevedeva la modifica dell’articolo 2095 del codice civile, introducendo tra la categoria dei dirigenti e quella degli impiegati la nuova categoria dei quadri. Era quindi posto all’esame un successivo articolo che indicava in maniera dettagliata i requisiti per l’appartenenza a questa categoria ed un successivo articolo con una riserva di contrattazione collettiva a favore delle associazioni dei quadri.

Il progetto di legge vedeva l’opposizione di diverse forze politiche: in primo luogo del Partito Comunista che perorava l’abrogazione dell’articolo 2095 del codice civile, ma anche di altre forze politiche che volevano attenuare l’impatto sul piano sindacale e contrattuale di una simile legge.

Ne usciva un testo abbastanza ridimensionato, che dopo una definizione abbastanza generale della figura del quadro ne affidava l’identificazione alla contrattazione collettiva.

B. Gli effetti pratici di un simile intervento legislativo e d’altro canto la graduale trasformazione del ruolo dei quadri.

A distanza di oltre 30 anni, possiamo dire che quella legge ha sicuramente inserito una nuova figura nel mondo del lavoro, ma altrettanto possiamo dire che i suoi effetti non sono stati affatto dirompenti.

La contrattazione collettiva nazionale facente capo alle tradizionali organizzazioni sindacali, sollecitata anche da diverse pronunce della magistratura che in forza della legge e nell’inerzia dei soggetti contrattuali, introduceva nella gran parte dei contratti collettivi la figura del quadro, riservando a quest’ultima ben poca specialità.

I CCNL infatti stabilivano labili confini tra quadri ed altre categorie di lavoratori, non chiarivano le modalità di selezione ed ingresso nella categoria e le peculiarità e caratteristiche professionali della stessa (Eramo, “L’evoluzione del ruolo del Quadro: un’identità da ridefinire”).

Il ruolo delle associazioni dei quadri è diventato quello di un semplice gruppo di pressione escluso però dalla costituzione e dalla contrattazione del rapporto di lavoro.

Le organizzazioni dei quadri erano poste al margine della contrattazione collettiva, non essendo riconosciuta alle stesse forma alcuna di rappresentatività.

Nel 1994, il noto sociologo Aris Accornero scriveva: “Il riconoscimento giuridico dei quadri non ha risolto i problemi dei quadri e tre sono le ragioni:

– mancanza di una organizzazione rappresentativa;

– gli imprenditori non vedono di buon occhio l’emergere della categoria;

– poca considerazione da parte dei sindacati tradizionali”.

C. Dal ruolo gerarchico a quello professionale. L’evoluzione dei quadri.

A fronte di questa realtà piuttosto statica, mutava invece in forza del dato economico e della globalizzazione la figura sociale e professionale del quadro.

Il passaggio dalla società della prima informatica e dell’automazione a quella della conoscenza, comportava la perdita del ruolo centrale delle forme tangibili di valore ed organizzazione anche gerarchica, privilegiando l’individualità e la creatività.

Si manifestava in maniera crescente la già esistente eterogeneità della categoria dei quadri, dove da una parte emergevano i capi sorveglianti del lavoro altrui e dall’altra emergevano figure individuali di professional.

Si definiva così un nuovo scenario della categoria nel mondo della conoscenza, dell’obsolescenza e della concorrenza.

Di fronte all’emergere di questa situazione, la posizione sociale, legale e contrattuale della categoria appariva del tutto inadeguata e foriera di nuovi conflitti ed obiettivi.

D. Il sorgere di un’area più vasta di lavoratori della conoscenza dove si manifestano punti di rilevante convergenza tra il ruolo professionale del quadro ed altri ruoli caratterizzati da elevata professionalità.

In qualche modo la nuova organizzazione del lavoro e la radicale diminuzione delle professionalità più elementari hanno influito sul ruolo della categoria dei quadri, che sempre più si allontana dalla funzione gerarchica classica dei cosiddetti capi per assurgere al ruolo più vasto e forse anche meno definito di “professional” o lavoratori della conoscenza con un ruolo ritagliato a dimensione individuale e non sempre rigidamente definito.

Il tema pare nuovamente appropriarsi della sua dimensione sociale a scapito di quella pur consistente di natura legale e contrattuale.

Su questa via diviene minimo il confine tra questa categoria di lavoratori e le aree contermini dei ricercatori e dei professionisti aziendali, anche ordinistici.

E. Un’ipotetica strada comune – contaminazioni e parallelismi tra l’evoluzione del ruolo del quadro e quello del ricercatore industriale.

Quella del ricercatore è invece una figura che parte da lontano.

L’identificazione sociale va naturalmente allo scienziato o al docente universitario.

Se questa è la veste tradizionale ed iconografica, non vi è dubbio che in un contesto di grande concorrenza anche a livello internazionale e di rapida obsolescenza dei prodotti, si staglia anche a livello aziendale una figura di studioso creativo spesso intercambiabile, vicino al mondo della produzione, dell’organizzazione e dell’innovazione.

Un simile soggetto, abbastanza forte sul mercato internazionale, abbisogna di adeguato status sociale oltre che di specifici e ritagliati istituti contrattuali e retributivi che gli consentano di valorizzare al massimo la propria professionalità ed il contributo all’economia delle aziende.

Si pone quindi in una relativa forma di parallelismo la vicenda che riguardò la categoria dei quadri agli inizi degli anni ‘90.

Si tratta quindi di pervenire ad un riconoscimento giuridico della categoria, verificando talune similitudini con la vicenda dei quadri.

F. Il riconoscimento giuridico o contrattuale.

Abbiamo visto che il riconoscimento della categoria dei quadri fu in minima parte affidato alla legge (articolo 2095 codice civile) e per il resto ne fu fatta garante la contrattazione collettiva.

Oggi questa scelta appare un errore.

Da un punto di vista di buon senso legislativo, in un campo come quello del lavoro nelle aziende sottoposto a tensioni e variabili di ogni tipo, la disciplina contrattuale appare sicuramente la più flessibile.

La vicenda dei quadri ci impone però qualche riflessione sul punto.

Abbiamo visto come il semplice inserimento della categoria nell’articolo 2095 del codice civile, affidando il resto alla contrattazione collettiva, abbia alla fine prodotto ben pochi effetti.

Non va sottaciuto che nel nostro ordinamento resta inattuato l’articolo 39 della Costituzione, che disciplina l’ordinamento sindacale.

In tale situazione, vige un ordinamento di fatto, dove i soggetti della contrattazione si perpetuano nelle organizzazioni di massa che sono sempre apparse non particolarmente sensibili alle esigenze di categorie di lavoratori che, seppure emergenti, appaiono socialmente lontane dalla loro base e comunque poco numerose.

Dunque, vi è il rischio più che fondato che la modifica dell’articolo 2095 resti alla fine lettera morta.

Non dobbiamo però dimenticare che nel caso di specie, disponiamo di un supporto di matrice comunitaria.

La Carta Europea dei Ricercatori, Raccomandazione 11 marzo 2005, impone il riconoscimento del lavoro dei ricercatori.

Il riconoscimento non è previsto soltanto come un riconoscimento nominale, ma contempla la fase iniziale della carriera, i metodi di assunzione, i sistemi di valutazione delle carriere.

Quindi, se la contrattazione non è in grado di assicurare un tanto in assenza di forze contrattuali in grado di rappresentare espressamente i ricercatori, lo deve fare per forza la legge o in via residuale con un accordo sindacale comunitario del CESE come avvenne per i contratti a termine.

Ne deriva che, una categoria professionale che non ha le caratteristiche ed i numeri per interessare il sindacalismo confederale, allo stato deve necessariamente ottenere la propria specificità in forza di una legge.

Potremmo quindi individuare un percorso diverso da quello svolto dai quadri, che vedrebbe i tratti fondamentali del rapporto disciplinati da norme di legge.

Ciò comporterebbe in primo luogo il riconoscimento della nuova categoria contrattuale nell’ambito dell’articolo 2095 del codice civile dove potrebbe trovare posto un’altra categoria professionale o dove più razionalmente quadri professionisti e ricercatori potrebbero confluire in un’unica definizione di alte professionalità non dirigenziali, con la possibilità nella medesima legge di disciplinare gli aspetti peculiari dei ricercatori aziendali, nonché altri specifici aspetti delle alte professionalità con la previsione inoltre di apposita clausola che riservi all’area delle alte professionalità un proprio spazio di rappresentatività.

Fabio Petracci

Il ruolo dei quadri dopo il Jobs Act ed i più recenti interventi legislativi

Le considerazioni che seguono si inseriscono in un progetto di contratto per i quadri che l’organizzazione CIU – UNIONQUADRI ha avviato di recente.

Esse sintetizzano l’intervento dell’autore svolto al Convegno: La categoria dei quadri tra subordinazione ed autonomia alla luce del Jobs Act, tenutosi in Milano, martedì 17 ottobre 2017 presso la sede della Regione Lombardia – Palazzo del Pirellone.

Negli anni 80 nell’ambito di un ordinamento del lavoro estremamente tutelato e livellato, era invocata la specificità dei quadri che portava all’approvazione della legge 190/85 che dava espresso riconoscimento alla categoria.

La stessa esigenza di specificità torna ora a manifestarsi in un diverso contesto che corrisponde a quello della flessibilità introdotta da ultimo con i recenti provvedimenti legislativi che vanno sotto il nome di Jobs Act.

Notori sono i temi che spesso toccano nell’ambito della contrattazione collettiva  quadri e le alte professionalità.

Ci riferiamo a trattamenti accessori, benefits, clausole di stabilità e di fidelizzazione.

Nello specifico però, i recenti e frequenti interventi legislativi in tema di flessibilità del lavoro ed in particolare i decreti legislativi che hanno definito il c.d Jobs Act , introducendo la flessibilità in uscita e la mobilità intra aziendale hanno prodotto una serie di ricadute non sempre positive sulle categorie a maggiore professionalità.

A seguito dell’introduzione del Jobs Act – DLGS 23/2015 che introduce le cosiddette tutele crescenti, un’indagine effettuata da Michael Page azienda che si occupa di collocazione e selezione del personale ha accertato che dopo l’entrata in vigore del sistema delle tutele crescenti i quadri intervistati hanno manifestato una minore disponibilità alla mobilità. Questa minore inclinazione si spiega con il conseguente azzeramento dell’anzianità ai fini della tutela crescente.

 Dunque una penalizzazione per il personale più qualificato che cambia occupazione per migliorare le proprie condizioni professionali ed un disincentivo alla mobilità di chi proprio confrontandosi con il mercato dovrebbe far valere le proprie capacità.

Il personale ad alta qualificazione si spende sul mercato del lavoro e pur godendo di maggiori opportunità, nell’attuale momento economico abbisogna di adeguate garanzie nel caso di cessazione del rapporto.

Le tutele crescenti favoriscono infatti chi raggiunge una notevole anzianità di servizio presso la medesima azienda.

Dunque una riforma che può andare bene per chi è alla ricerca di una prima occupazione o che mira ad un lungo periodo occupazionale, ma destinata a penalizzare i livelli più qualificati del personale.     Soprattutto per i quadri il cambiamento presenta aspetti problematici. Le tutele nei primi anni nel nuovo posto di lavoro si riducono a poche mensilità di indennità in caso di licenziamento. E quindi, per una categoria con età media di 47 anni, aumenta l‘incertezza nel considerare l‘opportunità di lavorare per una nuova azienda di cui non sempre si può conoscere a fondo stato di salute e modalità di gestione dei dipendenti.

Sarebbe in proposito auspicabile l’introduzione di una clausola contrattuale di portabilità della pregressa anzianità che preveda in favore dei quadri che abbiano lasciato per dimissioni una precedente occupazione dove rivestivano la medesima qualifica, di poter computare nell’anzianità di servizio di cui all’articolo 3 del DLGS 23/2015 anche gli anni di servizio svolti presso il precedente datore di lavoro.

Altrettanto efficaci potrebbero essere dei termini di preavviso maggiorati rispetto a quelli di impiegati ed operai.

Al fine inoltre di evitare le conseguenze del licenziamento del quadro nel periodo antecedente i 10 anni dal raggiungimento del diritto alla pensione, andrebbe previsto nel caso del c.d. licenziamento economico o comunque per giustificato motivo oggettivo, la corresponsione di un’indennità con somma decrescente a seconda degli anni per raggiungere il diritto alla pensione.

Un ulteriore mezzo di garanzia dell’occupazione potrebbe essere previsto da una previsione contrattuale simile a quella prevista dall’articolo 40 del CCNL Dirigenti Terziario che prevede in caso di licenziamento, su richiesta del lavoratore, l’attivazione di una procedura di outplacement a carico parziale dell’azienda.

Di seguito, il Jobs Act con il DLGS 81/2015 ha innovato l’articolo 2103 del codice civile consentendo la dequalificazione del lavoratore in determinati casi determinati e con apposite procedure.

Sul punto e prima dell’approvazione della legge, le associazioni dei quadri ne chiedevano, come poi avvenuto, la limitazione ai passaggi all’interno della singola categoria professionale legale, evitando così per i quadri la dequalificazione alla categoria impiegatizia.

La stessa disposizione di legge ha quindi reso equipollenti tutte le mansioni appartenenti alla medesima area contrattuale.

Una simile previsione penalizza in maniera evidente la categoria dei quadri laddove la specializzazione e la connotazione della professionalità e più marcata.

Se la norma di legge prevede in tali casi la necessità di adeguata formazione che però per espressa previsione non costituisce presupposto necessario per il cambio di mansioni, si rende necessaria una norma contrattuale che subordini per i quadri con mansioni specialistiche l’avvio ad un adeguato periodo di formazione ed eviti comunque la mobilità orizzontale laddove le mansioni svolte presuppongano un preciso titolo di studio non compatibile con quelle di destinazione.

Un ulteriore aspetto della tipicità della prestazione dei quadri è dato dall’orario di lavoro che in base alla normativa sulla durata della prestazione non è assoggettato a vincolo orario.

Assistiamo così alla sottrazione della categoria dei quadri, esattamente come per i dirigenti, dai limiti in tema di orario di lavoro, con la conseguente privazione del pagamento dello straordinario svolto che non risulta però adeguatamente bilanciata da una rilevante libertà di poter gestire in autonomia e secondo le esigenze del lavoratore l’orario di lavoro. In effetti, le alte professionalità è decisamente raro che lavorino a “ore”, ma invece il loro apporto va valutato con riguardo alla realizzazione ed alla valutazione di “progetti”.

In merito, va ricordata la legge 81/2017 titolata.   “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato”, che in particolare introduce  lo  smart working o “lavoro agile”, che permette lo svolgimento dell’attività lavorativa in parte all’interno dei locali aziendali e in parte all’esterno, senza una postazione fissa di lavoro, con regolamentazione affidata all’accordo tra le parti, nel rispetto dei limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale derivanti dalla legge o dalla contrattazione collettiva.

         La categoria delle alte professionalità, per quanto abbiamo appena visto, rappresenta il luogo più indicato per sperimentare il lavoro agile, consentendo, ai lavoratori che ne esprimono la volontà e già godono di ampia autonomia, di poter lavorare presso la sede dell’azienda per un periodo limitato della giornata e di gestire liberamente la prestazione nei luoghi e nei tempi preferiti, rimanendo, nel rispetto al diritto alla disconnessione ad esempio come previsto a far data dal 01.01.2017 dall’art. 55 della Loi Travail francese, rimanendo dunque rintracciabili all’interno di alcune fasce orarie concordate, magari proprio tramite cellulare aziendale fornito come fringe benefit.

Un altro punto dove la presenza dei quadri potrebbe ritenersi strategica e le cui modalità potrebbero proporsi nell’ambito di apposita contrattazione è dato dalla partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’azienda come prospettata all’articolo 4, comma 62 della legge 92/2012 (legge Fornero) alla cui previsione non è poi seguita la normativa delegata nel termine previsto di 6 mesi.

In quest’ambito , quella dei quadri dovrebbe essere la categoria più idonea ad avviare un simile processo stante l’immedesimazione della dirigenza nella parte aziendale e l’identificazione almeno in fase di avvio delle altre categorie in un ruolo di contrapposizione, senza tener conto delle conoscenze e delle competenze che la categoria dei quadri potrebbe apportare.

Fabio Petracci