PUBBLICO IMPIEGO ENTI LOCALI. Posizioni Organizzative. I compensi derivanti dagli accertamenti IMU e TARI spettano anche alle posizioni organizzative.

Lo afferma l’ARAN con l’orientamento CFL (Contratto Funzioni Locali) n.65.

L’Agenzia per la Rappresentanza Negoziale delle Pubbliche Amministrazioni ritiene che l’articolo 1 della legge 145/2018 relativo ai compensi derivanti dagli accertamenti IMU e TARI riguardi anche i titolari di posizioni organizzative.

L’ARAN motiva spiegando come la materia sia disciplinata dall’articolo 67 comma 3, lettera C del CCNL 21.5.2018 che stabilisce in termini generali e senza riferimento a distinzione alcuna come all’interno del Fondo le risorse variabili possono essere incrementate con quelle derivanti da disposizioni di legge che prevedono specifici trattamenti economici in favore del personale.

Avvocato Fabio Petracci.

PUBBLICO IMPIEGO ENTI LOCALI. Posizioni Organizzative. I compensi derivanti dagli accertamenti IMU e TARI spettano anche alle posizioni organizzative

Lo afferma l’ARAN con l’orientamento CFL (Contratto Funzioni Locali) n.65. L’Agenzia per la Rappresentanza Negoziale delle Pubbliche Amministrazioni ritiene che l’articolo 1 della legge 145/2018 relativo ai compensi derivanti dagli accertamenti IMU e TARI riguardi anche i titolari di posizioni organizzative. L’ARAN motiva spiegando come la materia sia disciplinata dall’articolo 67 comma 3, lettera C […]

Passaggio da società partecipata a controllo pubblico ad ente pubblico.

I dipendenti di una società partecipata pubblica senza il superamento di un concorso non possono transitare nelle amministrazioni pubbliche. Lo afferma la Corte Costituzionale con la sentenza n.5/2020. La Corte si trova ad esaminare la legge regionale n.38/2018 della Regione Basilicata che al fine di razionalizzare l’impiego del personale a tempo indeterminato dipendente da enti […]

Altro colpo al Jobs Act. Anche gli organi comunitari sfiduciano le tutele crescenti del Jobs Act e la disciplina nazionale in tema di licenziamenti.

E’ la volta del Comitato dei Diritti Sociali del Consiglio di Europa che emette decisioni non giuridicamente vincolanti, ma politicamente rilevanti in merito alle situazioni del lavoro e dei diritti sociali in Europa.

Già a suo tempo, il Comitato Europeo dei Diritti, occupandosi della disciplina dei licenziamenti nel nostro paese rilevava talune incompatibilità a carico del nostro ordinamento. Lo rilevava il sottoscritto nell’opera Italia e Croazia, Ordinamenti a Confronto – Giapichelli, 2016, pagina 186 e seguenti. Le conclusioni del Comitato risalivano al 2003.

Il Comitato si riferiva al periodo di prova notando come lo stesso non fosse correlato alla reale qualificazione dei lavoratori che restano così esposti al licenziamento privo di tutela alcuna. Notava inoltre aspetti critici nel regime di stabilità dei lavoratori domestici, degli sportivi e di quelli in età pensionabile, in quanto nessuna disposizione di legge garantisce loro un congruo periodi di preavviso.

Era quindi oggetto di osservazione il regime di stabilità per i lavoratori esclusi dalla tutela reale a favore di tutela obbligatoria.

Il Comitato europeo dei diritti sociali richiedeva inoltre informazioni in merito al regime della tutela obbligatoria nei rapporti non soggetti a tutela reale.

Eravamo nel 2003 con un regime dei licenziamenti dove vigeva ancora la tutela reale.

Va sfatata peraltro in materia di licenziamenti, La pretesa rigidità dell’ordinamento italiano in confronto con altri ordinamenti.

Va in parte ridimensionato questo concetto, anche se effettivamente sino a poco tempo fa nel nostro ordinamento rispetto ad altri, la reintegra appariva come una regola inderogabile.

Per quanto riguarda alcuni dei paesi europei, notiamo che:

a) la Danimarca

L’ordinamento concernente la risoluzione del rapporto di lavoro si basa su tre punti.

Da un lato, esiste una limitata tutela della stabilità del rapporto, dall’altra è garantito al lavoratore un notevole sostegno al reddito che si fonda su di un fondo assicurativo privato che garantisce il reddito per due anni e quindi su ulteriori due anni di sostegno pubblico.

Il sistema pubblico di sostegno è caratterizzato dall’efficienza dei servizi di collocamento volti alla formazione ed alla ricollocazione professionale del lavoratore. 

b) La Francia

A metà degli anni 2000, la Francia presentava una regolamentazione del mercato del lavoro non dissimile da quella italiana con rigide procedure da percorrere per motivare il licenziamento . Poco dopo, erano addottati due nuove tipologie di lavoro subordinato destinati a particolari soggetti . Questi contratti per due anni erano esclusi dalla regola del licenziamento giustificato. La cosa non ebbe successo, né sortì i risultati sperati. Di li a poco, la magistrature francese ne riconosceva l’incompatbilità con la convenzione OIL e con i principi comunitari.

c) La Germania

La disciplina del licenziamento è improntata ad una certa rigidità, nelle imprese che occupano più di 10 dipendenti, il licenziamento deve essere giustificato da motivi attinenti la persona del lavoratore o ad esigenze stringenti dell’azienda. In quest’ultimo caso, il licenziamento è considerato l’extrema ratio che può essere evitata anche attraverso una fase di formazione del lavoratore che ne consenta il reimpiego. Le procedure di licenziamento sono rigorose e possono passare anche attraverso il controllo del consiglio aziendale. L’insussistenza di giusta causa o giustificato motivo può comportare o la reintegra del lavoratore o il pagamento di un’indennità. Salvo il caso di giusta causa è previsto in caso di licenziamento un preavviso che va da 4 settimane a 7 mesi a seconda dell’anzianità del lavoratore.

La normativa e la giurisprudenza italiana da tempo hanno assunto un orientamento meno restrittivo che è stato poi confermato dal collegato lavoro che ha inibito al giudice il sindacato in merito alle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro (articolo 30 comma 1 L.183/2010).

Quindi con la legge 92/2012, sono state apportate parziali modifiche alla normativa concernente il licenziamento. In particolare è stato modificato in diversi punti l’articolo 18 fornendo spazio all’individuazione del licenziamento discriminatorio o para – discriminatorio, stabilendo casi in cui al licenziamento illegittimo non consegue la reintegra, disciplinando l’ipotesi della revoca del licenziamento.

Con il DLGS 23/2015 detto anche Jobs Act, le tutele del lavoratore assunto dopo l’entrata in vigore della legge e licenziato erano ulteriormente ridotte, in quanto per i neoassunti era previsto un sistema risarcitorio detto a tutele crescenti con risarcimenti ridotti e collegati in maniera automatica all’anzianità di servizio.

Il sistema così congegnato subiva le censure della Corte Costituzionale che con la sentenza n.194/2018, stabiliva l’illegittimità costituzionale della determinazione del danno in maniera automatica collegata all’anzianità di servizio.

La pronuncia di incostituzionalità era limitata dai termini dell’ordinanza che l’aveva provocata, ma lasciava trasparire talune debolezze della normativa in tema di licenziamenti.

Di recente, il Comitato dei Diritti Sociali Europeo ha emesso una decisione dove si ritiene che l’Italia con il Jobs Act che ha ulteriormente ridotto le tutele del lavoratore in caso di licenziamento, sia mancata all’obbligo di rispettare l’articolo 24 della Carta Sociale Europea che stabilisce il diritto per ogni lavoratore ingiustamente licenziato di ricevere una tutela effettiva e realmente dissuasiva nei confronti del datore di lavoro.

La decisione è stata pubblicata in data 11 febbraio 2020.

Il ricorso proposto dal Sindacato CGIL ritiene che l’Italia abbia violato l’articolo 24 della Carta Sociale Europea che prevede in caso di risoluzione del rapporto da parte del datore di lavoro, il diritto del lavoratore, in caso di licenziamento illegittimo di ottenere in sede giudiziale un risarcimento adeguato rispetto al danno subito tale da assumere carattere dissuasivo per il datore di lavoro.

Lamentava il ricorso del sindacato che un ammontare del risarcimento fissato in termini automatici in funzione dell’anzianità, non rivestiva queste caratteristiche.

In sostanza, il sindacato sindacava diversi articoli del Jobs Act ( DLGS 23/2015).

In primo luogo, era contestato l’articolo 3 che determina i termini di risarcimento per il licenziamento illegittimo, l’articolo 4 che riduce il risarcimento per vizi procedurali,

L’articolo 9 che riduce il risarcimento nelle aziende sotto le dimensioni di legge, l’articolo 10 che estende i limiti risarcitori ai licenziamenti collettivi effettuati senza il rispetto dei criteri di scelta.

Interveniva nel giudizio anche la CES Confederazione Europea dei Sindacati che appoggiava il ricorso, richiamandosi a diversi testi internazionali quali il patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali, e culturali (PIDESC) ai commenti del Comitato per i diritti economici, sociali e culturali (CDESC), alla Convenzione n° 158 ed alla Raccomandazione n° 166 dell’ILO in materia di licenziamento, soprattutto all’interpretazione del Comitato degli esperti per l’attuazione delle convenzioni e delle raccomandazioni (CDEACR), nonché ad altri strumenti meno specifici ma pertinenti, come il testo di politica generale adottato nel 2009: “Superare la crisi: un patto globale per l’occupazione”. Inoltre, faceva riferimento alle conclusioni del 5° rapporto periodico del CDESC (2015), che invita l’Italia a misurare l’impatto delle misure di austerità  sul rispetto dei diritti umani. 

I riferimenti della CES andavano anche a diversi testi normativi dell’Unione Europea quali l’articolo 153 del Trattato dell’Unione Europea e l’articolo 30 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione.

La Confederazione Sindacale Europea richiamava inoltre la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, osserva, inoltre, che un licenziamento può costituire un’ingerenza nel diritto a detrimento della vita privata (Özpinar contro Turchia, richiesta n° 20999/04, sentenza del 19 ottobre 2010, definitiva il 19 gennaio del 2011; Oleksandr Volkov contro Ucraina, richiesta n° 21722/11, sentenza del 9 gennaio 2013, definitiva il 27 maggio 2013).

Concludeva la CES,  affermando che il plafond per l’indennizzo risarcitorio in caso di licenziamento illegittimo in Italia era contrario alla Carta, tanto più che esso teneva conto soltanto dell’anzianità del servizio e non tiene conto di altre variabili importanti. 

Nel corso dell’esame del ricorso, la Corte Costituzionale con la sentenza n.194/2018, stabiliva che l’articolo 3 del DLGS 23/2015 era da considerarsi incostituzionale, proprio perché prevedeva in caso di licenziamento illegittimo dei criteri automatici e riduttivi per determinare il risarcimento.

Di seguito era adottato il DLGS n.87 del 12 luglio 2018 che ha aumentato l’importo minimo e massimo dell’indennizzo, rispettivamente da quattro a sei mensilità e da ventiquattro a trentasei mensilità. Lo stesso decreto, modificato dalla legge n°145 del 30 dicembre 2018.

Dall’esame della normativa di diritto internazionale, comunitario e nazionale, il Comitato rilevava quanto segue:

Il Comitato rileva che il reclamo verte sull’adeguatezza del risarcimento previsto in caso di licenziamento illegittimo nel settore privato dopo il 7 marzo 2015, conformemente agli articoli 3, 4, 9 e 10 del decreto legislativo n° 23/2015,  modificato dopo la presentazione del reclamo. A tale riguardo, rileva che la tesi del carattere automatico del calcolo dell’importo delle indennità, ai sensi dell’articolo 3, comma 1, del decreto legislativo n° 23/2015, non è più valida, a seguito del giudizio di incostituzionalità di questa clausola (Corte costituzionale, sentenza sopracitata n° 194/2018), che consente al giudice di tener conto non solo dell’anzianità di servizio, ma anche di altri elementi (numero  dei lavoratori, dimensioni dell’impresa, comportamento e condizioni delle parti).

 Rileva, pertanto, che la parte reclamante continua a mettere in discussione altri aspetti del meccanismo indennitario in caso di licenziamento illegittimo, cioè il tetto massimo delle indennità (plafond), unitamente alle restrizioni applicabili in materia di reintegro del lavoratore, alla presunta assenza di tutela alternativa o complementare dai licenziamenti illegittimi in altre disposizioni, alla presunta mancanza di strumenti adeguati di protezione sociale per i lavoratori licenziati, così come di un meccanismo di conciliazione, che favorirebbe l’uso dei licenziamenti illegittimi.

 Il Comitato ricorda che, ai sensi della Carta, i lavoratori licenziati senza un valido motivo devono ottenere un indennizzo o un altro risarcimento adeguato. I meccanismi indennitari sono ritenuti conformi alla Carta quando prevedono:  il rimborso delle perdite finanziarie subite tra la data del licenziamento e la decisione dell’organo del ricorso;  la possibilità di reintegro del lavoratore e/o  indennità di un importo sufficientemente elevato da dissuadere il datore di lavoro e compensare il danno subito dalla vittima (Finnish Society of Social Rights contro Finlandia, reclamo n° 106/2014, decisione sull’ammissibilità e sul merito dell’8 settembre 2016, paragrafo 45; Conclusioni 2016, Bulgaria).

Il Comitato rileva che i meccanismi di risarcimento attualmente previsti dalle disposizioni contestate variano in funzione del tipo di licenziamento e della dimensione dell’impresa (unità produttiva fino a 15 o più lavoratori ).

 In caso di licenziamento discriminatorio (in base all’appartenenza sindacale, politica o religiosa, etnica, lingua, al sesso, alla disabilità, all’età, all’orientamento sessuale o alle convinzioni personale), inficiato di nullità (cioè, quando è intimato durante il periodo tutelato dopo un matrimonio, una nascita o una malattia) oppure se il licenziamento non è stato notificato per iscritto, il lavoratore può richiedere la reintegrazione nel suo posto di lavoro (oppure un’indennità forfettaria di 15 mensilità) ed ottenere anche un’indennità non inferiore a cinque mensilità non limitata al plafond, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione (articolo 2 del decreto legislativo n° 23/2015).

 Ai sensi dell’articolo 3, comma 2, del decreto legislativo n° 23/2015, si applica lo

 stesso risarcimento di cui sopra se il procedimento dimostra che il fatto materiale contestato al lavoratore non sussiste (e anche se il fatto ha avuto luogo, ma non era passibile di licenziamento, secondo l’interpretazione della Corte di Cassazione nella sua sentenza n° 12174 dell’8 maggio 2019) per le unità produttive con più di 15 lavoratori. 

Il Comitato rileva che, nei casi di cui sopra, la vittima del licenziamento senza motivo valido può ottenere un’indennità non limitata dal plafond, che copra le perdite finanziarie subite dal licenziamento, nonché la reintegrazione nel suo posto di lavoro, a meno che il lavoratore preferisca un indennizzo forfettario in sostituzione della reintegrazione (se si tratta di una piccola impresa, la reintegrazione è esclusa nei casi contemplati nel paragrafo 90 di cui sopra, ma questa è possibile in caso di licenziamento discriminatorio e negli altri casi contemplati nel paragrafo 89 di cui sopra). Dal momento che le situazioni sopra menzionate non riguardano la questione essenziale sollevata nel reclamo, vale a dire l’esistenza di limiti predeterminati all’indennizzo in caso di licenziamento illegittimo, il Comitato ritiene che non sia necessario esaminarli separatamente. 

Per quanto riguarda gli altri tipi di licenziamento senza motivo valido, il Comitato rileva che le disposizioni contestate, oltre a non consentire la reintegrazione nel posto di lavoro, prevedono un indennizzo che non copre le perdite finanziarie effettivamente subite, poiché l’importo è limitato, a seconda dei casi, dal plafond di 6,12,24 o 36 mensilità di riferimento. 

Inoltre, se il lavoratore, assunto dopo il 7 marzo 2015 con un contratto a tempo indeterminato nel settore privato,  ritiene di essere stato oggetto di una misura di licenziamento individuale senza un valido motivo, che si tratti di un motivo oggettivo (soprattutto licenziamento economico) o soggettivo (motivo disciplinare con preavviso), oppure di un licenziamento senza giusta causa (licenziamento disciplinare immediato), il decreto legislativo n° 23/2015 (articoli 3, comma 1, e 9) prevede un’indennità limitata dal plafond di:   Sei mensilità di riferimento per i lavoratori delle piccole imprese (con meno di 16 lavoratori),  24 o 36 mensilità di riferimento nel caso di unità produttive che occupano più di 15 lavoratori, a seconda della data di assunzione e di licenziamento, avvenuta prima o dopo il 14 luglio 2018).

 Se il licenziamento illegittimo è dovuto a vizi di forma (ad esempio, se il motivo del licenziamento non è indicato) o procedurali (ad esempio, se il lavoratore non ha potuto difendersi in sede disciplinare), gli importi dell’indennità sono dimezzati per le piccole imprese e limitati dal plafond di 12 mensilità di riferimento per le altre, ai sensi degli articoli 4 e 9 del decreto legislativo n° 23/2015.

 Infine, in caso di licenziamento collettivo illegittimo, in quanto intimato in violazione delle procedure o dei criteri di selezione, l’articolo 10 del decreto legislativo n° 23/2015 prevede un’indennità limitata dal plafond di 24 o 36 mensilità nel caso di unità produttive che occupano più di 15 lavoratori, a seconda della data del licenziamento, avvenuto prima o dopo il 14 luglio 2018.   Il Comitato ricorda che qualsiasi tetto massimo (plafond), che svincola le indennità  dal danno subito e non presentino un carattere sufficientemente dissuasivo, è, in linea di principio, contrario alla Carta, come, in una certa misura, ha già espresso la Corte Costituzionale nella decisione n° 194/2018. Nel caso del tetto massimo delle indennità accordate a titolo di compensazione del danno materiale, la vittima deve poter chiedere un ristoro del danno morale subito attraverso altre vie legali e gli  organi giurisdizionali competenti, per accordare un indennizzo per il danno materiale e morale subito, devono pronunciarsi in tempi ragionevoli (Finnish Society of Socail Rights contro Finlandia, reclamo n° 106/2014, decisione sull’ammissibilità e sul merito dell’8 settembre 2016, comma 46; conclusioni del 2012, Slovenia e Finlandia).

 Il Comitato rileva che il Governo, per quanto riguarda le eventuali vie legali che consentono di ottenere un risarcimento supplementare, menziona la possibilità che il lavoratore ottenga un indennizzo supplementare ai sensi delle disposizioni generali in materia di responsabilità civile (ad esempio, in caso di danno arrecato alla salute o in caso di licenziamento vessatorio). Indica, inoltre, che gli organi giurisdizionali competenti, ai sensi dell’articolo 1418 del Codice civile relativo alle cause di nullità del contratto, possono ordinare la reintegrazione del lavoratore in casi diversi da quelli coperti dalle disposizioni contestate, ai sensi dell’articolo 1418 del Codice civile relativo alle cause di nullità del contratto. 

Il Comitato osserva che la CGIL contesta queste argomentazioni e precisa che il risarcimento previsto, sotto il profilo della responsabilità civile, non è collegato al carattere illegittimo del licenziamento, ma alle modalità del licenziamento ed alle conseguenze per l’integrità psicofisica (Corte di Cassazione, sentenza n° 23686 del 19 novembre 2015), per la vita privata o per la reputazione della vittima; per quanto riguarda la possibilità di reintegrazione, ai sensi dell’articolo 1418 del codice civile, la CGIL sostiene che essa si applica solo nei casi molto rari di nullità del licenziamento.   Il Comitato rileva che il Governo non ha fornito esempi di casi in cui sarebbe stato concesso un risarcimento per licenziamento illegittimo in base alle disposizioni relative alla responsabilità civile o ai sensi dell’articolo 1418 del Codice civile. Il comitato osserva che tale disposizione è stata utilizzata per riconoscere la nullità dei licenziamenti illegittimi in alcuni casi (sentenza n°4517/2016 del Tribunale del Lavoro di Roma, con la quale ha riconosciuto il carattere ritorsivo del licenziamento di un lavoratore che aveva contestato le misure disciplinari; sentenza n° 687/2016 del Tribunale del Lavoro di Vicenza con la quale riconosce il carattere abusivo di un presunto licenziamento per motivi economici, mentre il datore di lavoro sperava di trarre vantaggio dalle nuove misure di promozione dell’assunzione), ma ritiene che nulla impedisce di stabilire che tali esempi, forniti da organi giurisdizionali inferiori, siano rappresentativi di una giurisprudenza stabile e consolidata e che possano coprire tutti i diversi casi. 

 Osserva, altresì, che il meccanismo di conciliazione previsto dall’articolo 6 del decreto legislativo n° 23/2015 miri espressamente ad “evitare il procedimento giudiziario”. Se l’obiettivo è decongestionare gli organi giurisdizionali nazionali ricorrendo a soluzioni in sede extra giudiziaria, il Comitato non ritiene che ciò sia in contrasto con la Carta, il Comitato ritiene che ciò non debba avvenire a spese dei diritti soggettivi garantiti dalla Carta.

Orbene, rileva che in caso di licenziamento illegittimo (diverso da quello discriminatorio, inficiato di nullità, intimato verbalmente o sostanzialmente infondato, si vedano i paragrafi 89 – 91), la vittima ha la scelta tra due opzioni risarcitorie per il danno materiale – giudiziario o extra giudiziario – limitato da un tetto massimo (plafond) che non copre le perdite finanziarie effettivamente sostenute dalla data del licenziamento. Il Comitato ritiene che le condizioni di ciascuna di queste due opzioni risarcitorie sono tali da incoraggiare, o quanto meno a non dissuadere, il ricorso al licenziamento illegittimo. 

Infatti, in caso di licenziamento illegittimo, l’opzione conciliativa prevista in Italia permette al datore di lavoro di sottrarsi dal procedimento giudiziario controllando i costi del licenziamento (limitato da un plafond di 27 mensilità, 6 per le piccole imprese), mentre questo impegna la vittima a rinunciare a qualsiasi altro procedimento, avente come unico vantaggio il fatto di essere certi di ricevere un indennizzo in un breve lasso di tempo.

 La via legale non presenta, pertanto, un vero carattere dissuasivo del licenziamento illegittimo nella misura in cui, da un lato, l’importo netto dell’indennizzo per i danni materiali non è significativamente superiore a quello previsto in sede di conciliazione e, d’altra parte, la durata della procedura avvantaggia il datore di lavoro, dato che l’indennizzo in questione non può superare gli importi prestabiliti (limitatati da un plafond di 12, 24 o 36 mensilità, a seconda dei casi, di 6 mensilità per le piccole imprese) e il risarcimento diventa nel tempo inadeguato rispetto al danno subito. Per quanto riguarda le vie di ricorso menzionate dal Governo, il Comitato constata l’assenza di elementi conclusivi che consentano effettivamente di ottenere un indennizzo supplementare generalizzato.

104. Alla luce di questi elementi, il Comitato ritiene che né i sistemi di tutela alternativi offrono al lavoratore vittima del licenziamento illegittimo una possibilità di risarcimento oltre il tetto massimo del plafond previsto dalla legge in risarcimento adeguato, proporzionato al danno subito, e tale da dissuadere l’uso dei licenziamenti vigore, e né il meccanismo di conciliazione, stabilito dalle disposizioni contestate, consente in tutti i tipi di licenziamento senza motivo valido di ottenere un illegittimi.

Il Comitato quindi emetteva il seguente parere:

Alla luce di quanto detto, il Comitato ritiene che l’indennizzo versato in caso di licenziamento in violazione di un diritto fondamentale, debba mirare a risarcire totalmente, tanto sul piano finanziario, quanto su quello professionale, il danno subito dal lavoratore; la soluzione migliore consiste generalmente nel reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro, pagando le retribuzioni dovute e mantenendo i diritti acquisiti. A tal fine, gli organi imparziali devono essere dotati dei poteri necessari per decidere rapidamente, pienamente e in completa indipendenza, e, in particolare, di decidere la forma di riparazione più adeguata, tenuto conto delle circostanze, e soprattutto della possibilità di reintegrazione. Se la reintegrazione non è stata proposta a titolo di risarcimento, se non è possibile o se non è chiesta dal lavoratore, sarebbe auspicabile che l’indennizzo scelto per il licenziamento in violazione di un diritto umano fondamentale fosse proporzionato al danno subito e in quantità maggiore a quella pagata per altri tipi di licenziamenti.

Fabio Petracci

Dalle poco chiare vicende sindacali alla Banca Popolare di Bari ad una diffusa situazione di malessere dei lavoratori e dei quadri nelle banche.

Quello della Banca Popolare di Bari è un caso paradigmatico che conferma come le responsabilità del disastro del sistema bancario italiano siano condivise anche dai lavoratori degli istituti di credito ed anche come il mondo sindacale non sia esente da colpe.

E’ recente un articolo apparso su “Fanpage” del 6 febbraio 2020 Economia, di Vincenzo Imperatore il quale richiamando il testo del provvedimento cautelare del Gip del Tribunale di Bari che ha portato all’arresto dei proprietari della Banca Popolare di Bari e del responsabile dell’Area Basilicata, evidenzia il coinvolgimento di alcuni sindacati che lungi dal tutelare i lavoratori della banca, avrebbero condiviso la situazione di illegalità creatasi, favorendo nomine ed assunzioni non sempre trasparenti.

Altra Stampa, come Libero Quotidianodel 4.8.2017, sottolinea le continue e pesanti pressioni che il personale delle banche subisce per collocare prodotti non sempre all’altezza delle aspettative della clientela.

Da quanto emerge, i lavoratori delle banche, nell’ambito delle crisi aperte, non solo corrono il rischio di perdere il posto di lavoro, ma sono esposti, spesso indifesi, a vessazioni e condizionamenti non sempre leciti. Particolare è la situazione dei quadri degli istituti bancari.

Questa categoria è individuata dalla contrattazione collettiva di settore nei livelli apicali “QD” che vano da 1 a 4.

Il QD 4 è il livello apicale dell’area che ha in parte assorbito la vecchia categoria dei funzionari direttivi solo in parte confluita nella dirigenza.

Prima della creazione dell’area quadri, i funzionari costituivano un’apposita area con un contratto collettivo proprio.

Nell’ambito dell’attuale area quadri, nonostante la differenziazioni in quattro livelli,  le mansioni esigibili da contratto generiche e poco differenziate.

Rimane quindi a favore del datore di lavoro un’ampia discrezionalità nell’attribuzione delle stesse e dei compensi connessi.

Inoltre, il rapporto di lavoro bancario presenta dei notevoli tratti peculiari nel panorama dei contratti di lavoro subordinato.

Esso infatti è caratterizzato da un elevato grado di fiduciarietà.

Connota inoltre il rapporto di lavoro dei dipendenti bancari e soprattutto di quelli con un livello di inquadramento apicale, anche se non dirigenziale, l’affidamento sempre più rilevante da parte dello Stato di funzioni para pubbliche e di controllo.

Accade quindi spesso in situazioni patologiche che il quadro delle banche assommi tra i propri doveri, la fedeltà ai controlli ed alle direttive istituzionali e la fedeltà agli interessi economici della banca.

Tutti questi elementi oltre che ad accrescere il grado di responsabilità dei quadri degli istituti di credito, li rendono molto più esposti di qualunque altra categoria di lavoratori al rischio licenziamento, oggi non più contro bilanciato dal diritto alla reintegra, nel mentre nell’ambito dei chiaroscuri delle situazioni di crisi anche le tutele sindacali spesso si volatilizzano.

Poche tutele accompagnate dall’esposizione alle pressioni degli istituti che puntano al risultato senza badare molto alla qualità dei prodotti da vendere.

Si aggiunge ad un tanto, la modifica dell’articolo 13 dello Statuto dei Lavoratori fortemente voluta dall’ABI che, con il DLGS 81/2015 (Jobs Act) consente a determinate condizioni la dequalificazione del dipendente.

La situazione di scarsa stabilità e determinatezza del quadro lavorativo e delle conseguenti aspettative, favorisce sempre di più il diffondersi del mobbing e dello streaming nell’ambito della categoria.

Serve una presa d’atto di questa situazione favorita da una tutela qualificata dei quadri delle banche che approdi ad una normativa contrattuale che affronti i temi esposti.

Fabio Petracci.

RIDERS DI FOODORA. La recentissima sentenza della Cassazione. Testo integrale e sentenza.

Ecco il testo integrale della recentissima sentenza della Cassazione sui Riders di Foodora, preceduta da un breve commento.

L’intervento della Cassazione precede e confligge con il DL 101/2019 e considera come subordinati tutti i rapporti di lavoro continuativi e personali con il requisito della etero – organizzazione (superando il requisito della subordinazione – articolo 2094 del codice civile).

Dall’inizio del 2000, se non prima, il modello tradizionale di lavoro subordinato sta subendo una progressivo adattamento a mezzi tecnologici.

Quelli informatici ed in pratica le piattaforme oggi permettono lo svolgimento di una prestazione con risultati non dissimili da quella della tradizionale organizzazione del lavoro, prescindendo almeno in parte da alcuni elementi che connotavano la classica prestazione di lavoro dipendente. Ci riferiamo alla determinazione da parte dell’imprenditore, datore di lavoro dei tempi e del luogo della prestazione.

Ancor oggi, giuridicamente, il contratto di lavoro subordinato è sintetizzato nell’articolo 2094 del codice civile. Quivi sono individuati due soggetti, datore di lavoro e lavoratore impegnati reciprocamente nell’erogare una retribuzione a fronte di una prestazione che avviene sotto la direzione del datore di lavoro. L’elemento centrale che contraddistingue questo contratto è dato dalla subordinazione, in quanto il prestatore di lavoro soggiace al vincolo disciplinare nei confronti del datore di lavoro.

Con il DLGS 81/2015, si vogliono adattare le definizioni giuridiche alla emergente realtà, eliminando fattispecie intermedie quali il lavoro a progetto che davano luogo ad identificazioni non sempre chiare dei rapporti.

Attualmente le tipologie di lavoro, dopo l’entrata in vigore del DLGS 81/2015 possono definirsi quattro:

La situazione così descritta era messa in discussione con l’emergere dei contenziosi relativi alle nuove forme di lavoro su piattaforma informatica, dove il potere organizzativo e disciplinare assumeva forme inedite. Ci riferiamo in particolare, ma non solo, alle vicende giudiziarie relative ai fattorini motorizzati per le consegne “riders”.

L’aspetto maggiormente controverso di questa disciplina è individuato nell’articolo 2 del DLGS 81/2015 che, come abbiamo visto, considera applicabile a tutti i rapporti di lavoro continuativi e personali organizzati dall’imprenditore – datore di lavoro; la disciplina del rapporto di lavoro subordinato.

Con il decreto dignità DL 101/2019 la categoria era esplicitamente inserita tra quei lavoratori autonomi cui erano applicabili talune protezioni del lavoro

subordinato stabilite nel medesimo DL 101/2019 e quindi non tutta la disciplina concernente il rapporto di lavoro.

La sentenza della Cassazione che qui si legge è relativa ad un contenzioso anteriore all’intervento legislativo di cui al DL 101/2019 ed attribuisce ai lavoratori di cui all’articolo 2 DLGS 81/2015 e quindi non solo ai Riders la generalità delle tutele normative che competono ai lavoratori subordinati.

Ne consegue che alla luce dell’intervento giurisprudenziale della Cassazione, la legge 101/2019 ha introdotto una variante peggiorativa rispetto alla normativa precedente (vecchio testo del DLGS 81/2015) che secondo la Cassazione garantiva i trattamenti del lavoro subordinato a tutti i lavoratori menzionati all’articolo 2 DLGS 81/2015 in quanto sottoposti al potere organizzativo del datore di lavoro.

La Cassazione ha così esteso il campo applicativo dell’articolo 2094 e quindi della subordinazione a tutte queste fattispecie, nel mentre la legge successiva ha introdotto delle differenziazioni.

TESTO DELLA SENTENZA

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 14/11/2019) 24-01-2020, n. 1663

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –
Dott. RAIMONDI Guido – rel. Consigliere –
Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –
Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –
Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 11629/2019 proposto da:

FOODINHO S.R.L., quale incorporante di DIGITAL SERVICES XXXVI ITALY S.R.L. IN LIQUIDAZIONE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso lo studio dell’avvocato LUIGI FIORILLO, rappresentata e difesa dagli avvocati GIOVANNI REALMONTE, ORNELLA GIRGENTI, FIORELLA LUNARDON, PAOLO TOSI;
– ricorrente –

contro

P.M., C.G., L.R., R.A.A., G.V., tutti domiciliati in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi dall’avvocato PATRIZIA TOTARO, GIUSEPPE MARZIALE, SERGIO SONETTO, GIULIA DRUETTA;
– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 26/2019 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 04/02/2019 r.g.n. 468/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14/11/2019 dal Consigliere Dott. GUIDO RAIMONDI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELESTE Alberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato PAOLO TOSI;

uditi gli Avvocati GIUSEPPE MARZIALE e GIULIA DRUETTA.

Svolgimento del processo

1. Con ricorso depositato il 10 luglio 2017, P.M., C.G., R.A.A., L.R. e G.V. hanno chiesto al Tribunale di Torino l’accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso con la Digital Services XXXVI Italy srl (Foodora) in liquidazione, lavoro consistente nello svolgimento di mansioni di fattorino in forza di contratti di collaborazione coordinata e continuativa (cd. riders), con la conseguente condanna della società convenuta al pagamento delle differenze retributive maturate, da liquidarsi in separato giudizio. I ricorrenti hanno inoltre sostenuto di essere stati illegittimamente licenziati dalla società e hanno chiesto il ripristino del rapporto, nonchè la condanna al risarcimento del danno subito per effetto del licenziamento, e per violazione dell’art. 2087 c.c.. Gli stessi ricorrenti hanno infine lamentato di aver subito un danno non patrimoniale, da liquidarsi in separato giudizio, per violazione delle norme poste a protezione dei dati personali.

2. Con sentenza del 7 maggio 2018, n. 778 il Tribunale di Torino ha rigettato tutte le domande.

3. Avverso tale sentenza hanno proposto appello i lavoratori.

4. La Corte d’appello di Torino, con sentenza n. 26 depositata il 4 febbraio 2019, in parziale accoglimento dell’appello, ha negato la configurabilità della subordinazione e ha ritenuto applicabile al rapporto di lavoro intercorso tra le parti il D.Lgs. n. 81 del 2015, art.2, come richiesto in via subordinata dai lavoratori già in primo grado; conseguentemente, in applicazione di tale norma ha dichiarato il diritto degli appellanti a vedersi corrispondere quanto maturato in relazione all’attività lavorativa prestata, sulla base della retribuzione stabilita per i dipendenti del V livello del CCNL logistica trasporto merci, dedotto quanto percepito; inoltre, ha condannato la società appellata al pagamento delle differenze retributive così calcolate, oltre accessori. Ogni altro motivo di appello, tra cui in particolare quello relativo all’asserita illegittimità dei licenziamenti, è stato respinto, pur osservandosi da parte della Corte di appello, su quest’ultimo punto, che in ogni caso non vi era stata un’interruzione dei rapporti di lavoro in essere da parte della società prima della loro scadenza naturale.

5. Per quanto qui ancora interessa, la Corte distrettuale ha ritenuto che il D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2, nel testo applicabile ratione temporis, individui un “terzo genere”, che si viene a porre tra il rapporto di lavoro subordinato cui all’art. 2094 c.c. e la collaborazione coordinata e continuativa come prevista dall’art. 409 c.p.c., n. 3, soluzione voluta dal legislatore per garantire una maggiore tutela alle nuove fattispecie di lavoro che, a seguito dell’evoluzione e della relativa introduzione sempre più accelerata delle nuove tecnologie, si stanno sviluppando. Il giudice di appello ha ritenuto esistenti i presupposti per l’applicazione di questa norma, in particolare la etero-organizzazione dell’attività di collaborazione anche con riferimento ai tempi e ai luoghi di lavoro e il carattere continuativo della prestazione.

6. Avverso la citata sentenza della Corte di appello di Torino ha proposto ricorso per cassazione la Foodinho s.r.l., quale incorporante della Digital Services XXXVI Italy s.r.l. in liquidazione. Il ricorso è stato affidato a quattro motivi, illustrati da memoria. I lavoratori hanno resistito con controricorso.

7. Successivamente al deposito del ricorso è stato pubblicato il D.L. n. 101 del 2019, recante, fra l’altro, modifiche al D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2. Ciò ha suggerito il rinvio a nuovo ruolo della causa originariamente fissata per l’udienza del 22 ottobre 2019, in attesa della conversione in legge del suddetto decreto, avvenuto con L. n. 128 del 2019.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la ricorrente deduce la violazione e/o la falsa applicazione del D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2, in relazione all’art. 2094 c.c. e art. 409 c.p.c., n. 3, nonchè dell’art. 12 preleggi.

2. Secondo la ricorrente, il D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2, non ha introdotto, come invece ritenuto dalla Corte d’appello, un tertium genus di lavoro, non riconducibile nè al lavoro coordinato senza subordinazione (previsto dall’art. 409 c.p.c., n. 3) nè alla subordinazione in senso proprio (art. 2094 c.c.). Secondo la ricorrente, la etero-organizzazione è già un tratto tipico della subordinazione disciplinata nell’art. 2094 c.c., con la conseguenza che l’art. 2 cit., nel porla in esponente, non aggiungerebbe nulla alla ricostruzione della nozione sin qui compiuta dalla giurisprudenza, presentandosi come una sorta di norma apparente, inidonea a produrre autonomi effetti giuridici (tesi accolta dalla decisione di primo grado).

3. La Corte d’appello avrebbe inoltre commesso un altro grave errore di diritto, laddove essa ha affermato che la etero-organizzazione disciplinata dall’art. 2, in discorso consisterebbe nel potere di determinare le modalità di esecuzione della prestazione e cioè la possibilità di stabilire i tempi e i luoghi della prestazione. In tal modo, secondo la ricorrente, la Corte territoriale avrebbe trascurato che l’art. 2, richiede, ai fini della sua applicazione, che le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate dal committente “anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”. La parola “anche” del testo normativo dimostrerebbe che le tutele del lavoro subordinato garantite dall’art. 2, richiedono non una semplice etero-determinazione di tempi e luogo della prestazione, tantomeno in termini di mera “possibilità”, ma “una ingerenza più pregnante nello svolgimento della collaborazione, eccedente quindi tale etero-determinazione” (pag. 19 del ricorso).

4. Il motivo è infondato.

5. Il D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2, comma 1, sotto la rubrica “Collaborazioni organizzate dal committente”, così recita: “1. A far data dal 1 gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”.

6. Sul testo del D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2, e, più in generale, sul lavoro attraverso piattaforme digitali, in specie sui riders, è intervenuto il decreto L. 3 settembre 2019, n. 101, convertito, con modificazioni, nella L. 2 novembre 2019, n. 128. Le modifiche alla disciplina in discorso non hanno carattere retroattivo, per cui alla fattispecie in esame deve applicarsi il suddetto art. 2, nel testo previgente al citato recente intervento legislativo. Quest’ultimo, in particolare, quanto dell’art. 2, comma 1, primo periodo, in discorso, sostituisce la parola “esclusivamente” con “prevalentemente” e sopprime le parole “anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”. Inoltre, la novella aggiunge, dopo il primo periodo, il seguente testo: “Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche digitali”.

7. Prima di procedere all’analisi della censura, conviene ricordare sinteticamente il regolamento contrattuale della fattispecie, concluso sotto forma di contratti di collaborazione coordinata e continuativa, e le modalità delle prestazioni litigiose, per come tali elementi sono stati ricostruiti dalla Corte territoriale, che richiama la sentenza di primo grado, e ripercorrere brevemente l’iter logico-giuridico seguito dalla sentenza impugnata per giungere alle conclusioni oggi criticate con il ricorso.

8. Secondo la ricostruzione della Corte territoriale, che ha fatto propria quella del giudice di prime cure, la prestazione lavorativa dei ricorrenti si è svolta a grandi linee nel modo seguente: dopo avere compilato un formulario sul sito di Foodora i controricorrenti venivano convocati in piccoli gruppi presso l’ufficio di (OMISSIS) per un primo colloquio nel quale veniva loro spiegato che l’attività presupponeva il possesso di una bicicletta e la disponibilità di un telefono cellulare con funzionalità avanzate (smartphone); in un secondo momento veniva loro proposta la sottoscrizione di un contratto di collaborazione coordinata e continuativa e, dietro versamento di una caparra di Euro 50, venivano loro consegnati gli indumenti di lavoro ed i dispositivi di sicurezza (casco, maglietta, giubbotto e luci) e l’attrezzatura per il trasporto del cibo (piastra di aggancio e box).

9. Il contratto che veniva sottoscritto, cui era allegato un foglio contenente l’informativa sul trattamento dei dati personali e la prestazione del consenso, aveva le seguenti caratteristiche:

si trattava di un contratto di “collaborazione coordinata e continuativa”;

era previsto che il lavoratore fosse “libero di candidarsi o non candidarsi per una specifica corsa a seconda delle proprie disponibilità ed esigenze di vita”;

il lavoratore si impegnava ad eseguire le consegne avvalendosi di una propria bicicletta “idonea e dotata di tutti i requisiti richiesti dalla legge per la circolazione”;

era previsto che il collaboratore avrebbe agito “in piena autonomia, senza essere soggetto ad alcun vincolo di subordinazione, potere gerarchico o disciplinare, ovvero a vincoli di presenza o di orario di qualsiasi genere nei confronti della committente”, ma era tuttavia “fatto salvo il necessario coordinamento generale con l’attività della stessa committente”;

era prevista la possibilità di recedere liberamente dal contratto, anche prima della scadenza concordata, con comunicazione scritta da inviarsi a mezzo raccomandata a/r con 30 giorni di anticipo;

il lavoratore, una volta candidatosi per una corsa, si impegnava ad effettuare la consegna tassativamente entro 30 minuti dall’orario indicato per il ritiro del cibo, con la comminatoria a suo carico di una penale di 15 Euro;

il compenso era stabilito in Euro 5,60 al lordo delle ritenute fiscali e previdenziali per ciascuna ora di disponibilità;

il collaboratore doveva provvedere ad inoltrare all’INPS “domanda di iscrizione alla gestione separata di cui all’art. 2, comma 26, della L. 8 agosto 1995 n. 335” e la committente doveva provvedere a versare il relativo contributo;

– la committente doveva provvedere all’iscrizione del collaboratore all’INAIL ai sensi del D.Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, art. 5;

il premio era a carico del collaboratore per un terzo e della committente per due terzi;

– la committente – come accennato – doveva affidare al collaboratore in comodato gratuito un casco da ciclista, un giubbotto e un bauletto dotato dei segni distintivi dell’azienda a fronte del versamento di una cauzione di Euro 50.

10. Quanto alle modalità di esecuzione delle prestazioni litigiose, la gestione del rapporto avveniva attraverso  la piattaforma multimediale “(OMISSIS) e un applicativo per smartphone (inizialmente “(OMISSIS)” e successivamente “(OMISSIS)”), per il cui uso venivano fornite da Foodora apposite istruzioni. L’azienda pubblicava settimanalmente su (OMISSIS) le fasce orarie (slot) con l’indicazione del numero di riders necessari per coprire ciascun turno. Ciascun rider poteva dare la propria disponibilità per le varie fasce orarie in base alle proprie esigenze personali, ma non era obbligato a farlo. Raccolte le disponibilità, il responsabile della “flotta” confermava tramite (OMISSIS) ai singoli riders l’assegnazione del turno. Ricevuta la conferma del turno, il lavoratore doveva recarsi all’orario di inizio di quest’ultimo in una delle tre zone di partenza predefinite ((OMISSIS)), attivare l’applicativo (OMISSIS) inserendo le credenziali (nome dell’utilizzatore, user name, e parola d’ordine, password) per effettuare l’accesso (login) e avviare la geolocalizzazione (GPS). Il rider riceveva quindi sull’applicazione la notifica dell’ordine con l’indicazione dell’indirizzo del ristorante. Accettato l’ordine, il rider doveva recarsi con la propria bicicletta al ristorante, prendere in consegna i prodotti, controllarne la corrispondenza con l’ordine e comunicare tramite l’apposito comando dell’applicazione il buon esito della verifica. A questo punto, posizionato il cibo nel box, il rider doveva provvedere a consegnarlo al cliente, il cui indirizzo gli era stato nel frattempo comunicato tramite l’applicazione, e doveva quindi confermare di avere regolarmente effettuato la consegna.

11. Non ignora la Corte il vivace dibattito dottrinale che ha accompagnato l’entrata in vigore e i primi anni di vita del D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2, comma 1 – dibattito che non si è esaurito e che certamente proseguirà alla luce delle novità portate dal recente intervento legislativo che si è ricordato – e nell’ambito del quale sono state proposte le soluzioni interpretative più varie, soluzioni che possono schematicamente e senza alcuna pretesa di esaustività così evocarsi:

a) una prima via, che segue inevitabilmente il metodo qualificatorio, preferibilmente nella sua versione tipologica, è quella di riconoscere alle prestazioni rese dai lavoratori delle piattaforme digitali i tratti della subordinazione, sia pure ammodernata ed evoluta;

b) una seconda immagina l’esistenza di una nuova figura intermedia tra subordinazione e autonomia, che sarebbe caratterizzata dall’etero-organizzazione e che troverebbe nel D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2, comma 1, il paradigma legale (teoria del tertium genus o del lavoro etero-organizzato);

c) la terza possibilità è quella di entrare nel mondo del lavoro autonomo, dove tuttavia i modelli interpretativi si diversificano notevolmente essendo peraltro tutti riconducibili nell’ambito di una nozione ampia di parasubordinazione;

d) infine, vi è l’approccio “rimediale”, che rinviene in alcuni indicatori normativi la possibilità di applicare una tutela “rafforzata” nei confronti di alcune tipologie di lavoratori (quali quelli delle piattaforme digitali considerati “deboli”), cui estendere le tutele dei lavoratori subordinati.

12. La via seguita dalla sentenza impugnata è quella per cui il D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2, avrebbe introdotto un tertium genus avente caratteristiche tanto del lavoro subordinato quanto di quello autonomo, ma contraddistinto da una propria identità, sia a livello morfologico, che funzionale e regolamentare.

13. La conseguenza più significativa dell’inquadramento proposto dalla Corte torinese è rappresentata dall’applicazione delle tutele del lavoro subordinato al rapporto di collaborazione dei riders. Anche in questo caso, però, la Corte territoriale non ritiene praticabile un’estensione generalizzata dello statuto della subordinazione, ma opta per un’applicazione selettiva delle disposizioni per essa approntate, limitata alle norme riguardanti la sicurezza e l’igiene, la retribuzione diretta e differita (quindi relativa all’inquadramento professionale), i limiti di orario, le ferie e la previdenza ma non le norme sul licenziamento.

14. Contro la sentenza della Corte torinese i lavoratori non hanno proposto ricorso incidentale, non insistendo così sulla loro originaria tesi principale, tendente al riconoscimento nella fattispecie litigiosa di veri e propri rapporti di lavoro subordinato.

15. Venendo ora all’esame del motivo, sotto il primo profilo la doglianza censura radicalmente l’applicazione alla fattispecie litigiosa del D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2, comma 1, giacchè si tratterebbe di norma “apparente”, incapace come tale di produrre effetti nell’ordinamento giuridico.

16. Non ritiene la Corte di poter accogliere tale radicale tesi.

17. Come è stato osservato, i concetti giuridici, in specie se direttamente promananti dalle norme, sono convenzionali, per cui se il legislatore ne introduce di nuovi l’interprete non può che aggiornare l’esegesi a partire da essi, sforzandosi di dare alle norme un senso, al pari di quanto l’art. 1367 c.c., prescrive per il contratto, stabilendo che, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto, anzichè in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno.

18. La norma introdotta nell’ordinamento nel 2015 va contestualizzata. Essa si inserisce in una serie di interventi normativi con i quali il legislatore ha cercato di far fronte, approntando discipline il più possibile adeguate, alle profonde e rapide trasformazioni conosciute negli ultimi decenni nel mondo del lavoro, anche per effetto delle innovazioni tecnologiche, trasformazioni che hanno inciso profondamente sui tradizionali rapporti economici.

19. In attuazione della delega di cui alla L. n. 183 del 2014, cui sono seguiti i decreti delegati dei quali fa parte il D.Lgs. n. 81 del 2015, e che vanno sotto il nome di Jobs Act, il legislatore delegato, nel citato D.Lgs., dopo aver indicato nel lavoro subordinato a tempo indeterminato il modello di riferimento nella gestione dei rapporti di lavoro, ha infatti affrontato il tema del lavoro “flessibile” inteso come tale in relazione alla durata della prestazione (part-time e lavoro intermittente o a chiamata), alla durata del vincolo contrattuale (lavoro a termine), alla presenza di un intermediario (lavoro in somministrazione), al contenuto anche formativo dell’obbligo contrattuale (apprendistato), nonchè all’assenza di un vincolo contrattuale (lavoro accessorio). Per quanto attiene allo svolgimento del rapporto, il legislatore delegato ha poi introdotto un ulteriore incentivo indiretto alle assunzioni, innovando profondamente la disciplina delle mansioni attraverso il D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 3, con la riformulazione dell’art. 2103 c.c..

20. La finalità complessiva degli interventi del Jobs Act, costituita dall’auspicato incremento dell’occupazione, perseguita attraverso la promozione del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, è stata attuata anche attraverso l’esonero contributivo previsto dalla legge di stabilità, la quale ha previsto questa agevolazione per un triennio nel caso di assunzioni effettuate nel 2015 e l’esonero contributivo del 40% per un biennio per le assunzioni effettuate nel 2016; il legislatore delegato del 2015 è dunque intervenuto in tutte le fasi del rapporto di lavoro con l’intento di incentivare le assunzioni in via diretta ed indiretta.

21. Anche l’abolizione dei contratti di lavoro a progetto, la stabilizzazione dei collaboratori coordinati e continuativi anche a progetto e di persone titolari di partite IVA e la disciplina delle collaborazioni organizzate dal committente si collocano dunque nella medesima prospettiva.

22. In effetti, le previsioni del D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2, vanno lette unitamente all’art. 52 dello stesso decreto, norma che ha abrogato le disposizioni relative al contratto di lavoro a progetto previsto dal D.Lgs. n. 276 del 2003, artt. da 61 a 69-bis (disposizioni che continuano ad applicarsi per la regolazione dei contratti in atto al 25 giugno 2015, data di entrata in vigore del decreto), facendo salve le previsioni di cui all’art. 409 c.p.c.. Quindi dal 25 giugno 2015 non è più consentito stipulare nuovi contratti di lavoro a progetto e quelli esistenti cessano alla scadenza, mentre possono essere stipulati contratti di collaborazione coordinata e continuativa ai sensi dell’art. 409 c.p.c., n. 3, sia a tempo determinato sia a tempo indeterminato.

23. E’ venuta meno, perciò, una normativa che, avendo previsto dei vincoli e delle sanzioni, comportava delle garanzie per il lavoratore, mentre è stata ripristinata una tipologia contrattuale più ampia che, come tale, comporta il rischio di abusi. Pertanto, il legislatore, in una prospettiva anti-elusiva, ha inteso limitare le possibili conseguenze negative, prevedendo comunque l’applicazione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato a forme di collaborazione, continuativa e personale, realizzate con l’ingerenza funzionale dell’organizzazione predisposta unilateralmente da chi commissiona la prestazione. Quindi, dal 1 gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato tutte le volte in cui la prestazione del collaboratore abbia carattere esclusivamente personale e sia svolta in maniera continuativa nel tempo e le modalità di esecuzione della prestazione, anche in relazione ai tempi e al luogo di lavoro, siano organizzate dal committente.

24. Il legislatore, d’un canto consapevole della complessità e varietà delle nuove forme di lavoro e della difficoltà di ricondurle ad unità tipologica, e, d’altro canto, conscio degli esiti talvolta incerti e variabili delle controversie qualificatorie ai sensi dell’art. 2094 c.c., si è limitato a valorizzare taluni indici fattuali ritenuti significativi (personalità, continuità, etero-organizzazione) e sufficienti a giustificare l’applicazione della disciplina dettata per il rapporto di lavoro subordinato, esonerando da ogni ulteriore indagine il giudice che ravvisi la concorrenza di tali elementi nella fattispecie concreta e senza che questi possa trarre, nell’apprezzamento di essi, un diverso convincimento nel giudizio qualificatorio di sintesi.

25. In una prospettiva così delimitata non ha decisivo senso interrogarsi sul se tali forme di collaborazione, così connotate e di volta in volta offerte dalla realtà economica in rapida e costante evoluzione, siano collocabili nel campo della subordinazione ovvero dell’autonomia, perchè ciò che conta è che per esse, in una terra di mezzo dai confini labili, l’ordinamento ha statuito espressamente l’applicazione delle norme sul lavoro subordinato, disegnando una norma di disciplina.

26. Tanto si spiega in una ottica sia di prevenzione sia “rimediale”. Nel primo senso il legislatore, onde scoraggiare l’abuso di schermi contrattuali che a ciò si potrebbero prestare, ha selezionato taluni elementi ritenuti sintomatici ed idonei a svelare possibili fenomeni elusivi delle tutele previste per i lavoratori. In ogni caso ha, poi, stabilito che quando l’etero-organizzazione, accompagnata dalla personalità e dalla continuità della prestazione, è marcata al punto da rendere il collaboratore comparabile ad un lavoratore dipendente, si impone una protezione equivalente e, quindi, il rimedio dell’applicazione integrale della disciplina del lavoro subordinato.

27. Si tratta di una scelta di politica legislativa volta ad assicurare al lavoratore la stessa protezione di cui gode il lavoro subordinato, in coerenza con l’approccio generale della riforma, al fine di tutelare prestatori evidentemente ritenuti in condizione di “debolezza” economica, operanti in una “zona grigia” tra autonomia e subordinazione, ma considerati meritevoli comunque di una tutela omogenea. L’intento protettivo del legislatore appare confermato dalla recente novella cui si è fatto cenno, la quale va certamente nel senso di rendere più facile l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato, stabilendo la sufficienza – per l’applicabilità della norma di prestazioni “prevalentemente” e non più “esclusivamente” personali, menzionando esplicitamente il lavoro svolto attraverso piattaforme digitali e, quanto all’elemento della “etero-organizzazione”, eliminando le  parole “anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”, così mostrando chiaramente l’intento di incoraggiare interpretazioni non restrittive di tale nozione.

28. Il secondo profilo della doglianza in esame invita proprio questa Corte, invece, a adottare un’interpretazione restrittiva della norma in discorso.

29. Secondo la ricorrente, come si è detto, la Corte territoriale, affermando che la etero-organizzazione disciplinata dall’art. 2, consisterebbe nel potere di determinare le modalità di esecuzione della prestazione e cioè la possibilità di stabilire i tempi e i luoghi di lavoro, avrebbe trascurato che l’art. 2, richiede, ai fini della sua applicazione, che le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate dal committente “anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”. La parola “anche” del testo normativo dimostrerebbe che le tutele del lavoro subordinato garantite dall’art. 2, richiedono non una semplice etero-determinazione di tempi e luogo della prestazione, tantomeno in termini di mera “possibilità”, ma “una ingerenza più pregnante nello svolgimento della collaborazione, eccedente quindi tale etero-determinazione”.

30. Anche tale censura non può essere condivisa.

31. La norma introduce, a riguardo delle prestazioni di lavoro esclusivamente personali e continuative, la nozione di etero-organizzazione, “anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”.

32. Una volta ricondotta la etero-organizzazione ad elemento di un rapporto di collaborazione funzionale con l’organizzazione del committente, così che le prestazioni del lavoratore possano, secondo la modulazione unilateralmente disposta dal primo, opportunamente inserirsi ed integrarsi con la sua organizzazione di impresa, si mette in evidenza (nell’ipotesi del D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2) la differenza rispetto ad un coordinamento stabilito di comune accordo dalle parti che, invece, nella norma in esame, è imposto dall’esterno, appunto etero-organizzato.

33. Tali differenze illustrano un regime di autonomia ben diverso, significativamente ridotto nella fattispecie del D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2: integro nella fase genetica dell’accordo (per la rilevata facoltà del lavoratore ad obbligarsi o meno alla prestazione), ma non nella fase funzionale, di esecuzione del rapporto, relativamente alle modalità di prestazione, determinate in modo sostanziale da una piattaforma multimediale e da un applicativo per smartphone.

34. Ciò posto, se è vero che la congiunzione “anche” potrebbe alludere alla necessità che l’etero-organizzazione coinvolga tempi e modi della prestazione, non ritiene tuttavia la Corte che dalla presenza nel testo di tale congiunzione si debba far discendere tale inevitabile conseguenza.

35. Il riferimento ai tempi e al luogo di lavoro esprime solo una possibile estrinsecazione del potere di etero-organizzazione, con la parola “anche” che assume valore esemplificativo. In tal senso sembra deporre la successiva soppressione dell’inciso ad opera della novella cui si è fatto più volte cenno. Del resto è stato condivisibilmente rilevato che le modalità spazio-temporali di svolgimento della prestazione lavorativa sono, nell’attualità della rivoluzione informatica, sempre meno significative anche al fine di rappresentare un reale fattore discretivo tra l’area della autonomia e quella della subordinazione.

36. Parimenti si deve ritenere che possa essere ravvisata etero-organizzazione rilevante ai fini dell’applicazione della disciplina della subordinazione anche quando il committente si limiti a determinare unilateralmente il quando e il dove della prestazione personale e continuativa.

37. Il motivo in esame non critica dunque efficacemente le pertinenti statuizioni della sentenza impugnata.

38. Detto questo, non ritiene la Corte che sia necessario inquadrare la fattispecie litigiosa, come invece ha fatto la Corte di appello di Torino, in un tertium genus, intermedio tra autonomia e subordinazione, con la conseguente esigenza di selezionare la disciplina applicabile.

39. Più semplicemente, al verificarsi delle caratteristiche delle collaborazioni individuate dal D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2, comma 1, la legge ricollega imperativamente l’applicazione della disciplina della subordinazione. Si tratta, come detto, di una norma di disciplina, che non crea una nuova fattispecie.

40. Del resto, la norma non contiene alcun criterio idoneo a selezionare la disciplina applicabile, che non potrebbe essere affidata ex post alla variabile interpretazione dei singoli giudici. In passato, quando il legislatore ha voluto assimilare o equiparare situazioni diverse al lavoro subordinato, ha precisato quali parti della disciplina della subordinazione dovevano trovare applicazione. In effetti, la tecnica dell’assimilazione o dell’equiparazione è stata più volte utilizzata dal legislatore, ad esempio con il R.D. n. 1955 del 1923, art. 2, con la L. n. 370 del 1934, art. 2 e con la L. n. 1204 del 1971, art. 1, comma 1, con cui il legislatore aveva disposto l’applicazione al socio di cooperativa di alcuni istituti dettati per il lavoratore subordinato, nonchè con il D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 2, comma 1 e il D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 2, comma 1, lett. a), in tema di estensione delle norme a tutela della salute e della sicurezza, e con il D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 64, come successivamente modificato, che ha disposto l’applicazione alle lavoratrici iscritte alla Gestione Separata dell’INPS alcune tutele previste per le lavoratrici subordinate.

41. Non possono escludersi situazioni in cui l’applicazione integrale della disciplina della subordinazione sia ontologicamente incompatibile con le fattispecie da regolare, che per definizione non sono comprese nell’ambito dell’art. 2094 c.c., ma si tratta di questione non rilevante nel caso sottoposto all’esame di questa Corte.

42. All’opposto non può neanche escludersi che, a fronte di specifica domanda della parte interessata fondata sul parametro normativo dell’art. 2094 c.c., il giudice accerti in concreto la sussistenza di una vera e propria subordinazione (nella specie esclusa da entrambi i gradi di merito con statuizione non impugnata dai lavoratori), rispetto alla quale non si porrebbe neanche un problema di disciplina incompatibile; è noto quanto le controversie qualificatorie siano influenzate in modo decisivo dalle modalità effettive di svolgimento del rapporto, da come le stesse siano introdotte in giudizio, dai risultati dell’istruttoria espletata, dall’apprezzamento di talemateriale effettuato dai giudici del merito, dal convincimento ingenerato in questi circa la sufficienza degli elementi sintomatici riscontrati, tali da ritenere provata la subordinazione; il tutto con esiti talvolta difformi anche rispetto a prestazioni lavorative tipologicamente assimilabili, senza che su tali accertamenti di fatto possa estendersi il sindacato di legittimità.

43. Del resto la norma in scrutinio non vuole, e non potrebbe neanche, introdurre alcuna limitazione rispetto al potere del giudice di qualificare la fattispecie riguardo all’effettivo tipo contrattuale che emerge dalla concreta attuazione della relazione negoziale, e, pertanto, non viene meno la possibilità per lo stesso di accertare l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, secondo i criteri elaborati dalla giurisprudenza in materia, trattandosi di un potere costituzionalmente necessario, alla luce della regola di effettività della tutela (cfr. Corte Cost. n. 115 del 1994) e funzionale, peraltro, a finalità di contrasto all’uso abusivo di schermi contrattuali perseguite dal legislatore anche con la disposizione esaminata (analogamente v. Cass. n. 2884 del 2012, sul D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 86, comma 2, in tema di associazione in partecipazione).

44. Il secondo ed il terzo motivo possono essere esaminati congiuntamente, stante la loro stretta connessione.

45. Con il secondo motivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la ricorrente deduce la violazione e/o la falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c. e art. 118 disp. att. c.p.c., in correlazione con l’art. 111 Cost.. La motivazione sarebbe caratterizzata da un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili. La sentenza sarebbe giunta alla sussunzione della fattispecie concreta nell’art. 2, dopo aver descritto le modalità di espletamento della prestazione da parte degli appellanti in termini tali (libertà di dare la disponibilità ai turni, libertà di non presentarsi all’inizio del turno senza previa comunicazione e senza sanzione) da escludere alla radice l’etero-organizzazione, come poi delineata e assunta a base della sussunzione.

46. Con il terzo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la ricorrente deduce la violazione e/o la falsa applicazione del D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2, in relazione al requisito della etero-organizzazione. L’errore che nel secondo motivo si rifletterebbe sulla motivazione è qui denunciato direttamente come di errore di sussunzione e dunque come violazione di legge.

47. In realtà con il secondo motivo, pur se esso viene presentato come error in judicando, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, si deduce un vizio di nullità della sentenza, rilevante ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 (cfr. Cass., SU, n. 8053 del 2014), dolendosi la ricorrente di un contrasto irriducibile tra affermazioni della sentenza impugnata che sarebbero tra loro inconciliabili, in particolare in relazione a due dati funzionali all’accertamento della etero-determinazione dei tempi e dei luoghi di lavoro dalla sentenza ritenuti decisivi, cioè, da una parte il “fattore tempo”, in particolare con riguardo alla circostanza che, secondo la Corte di appello “Gli appellanti… lavoravano sulla base di una “turnistica” stabilita dall’appellata” e, d’altra parte, al fattore “luogo della prestazione”, giacchè la stessa sentenza riconosce che i lavoratori dovevano recarsi all’orario di inizio del turno in una delle tre zone di partenza definite ((OMISSIS)).

48. Sotto il primo profilo si fa valere che la stessa sentenza impugnata aveva riconosciuto che, pur trattandosi di fasce orarie predeterminate dalla società, questa non aveva il potere di imporre ai lavoratori di lavorare nei turni in questione o di non revocare la disponibilità data, oltre al fatto che si ammette nella sentenza della Corte territoriale che i lavoratori erano liberi di dare la propria disponibilità per i vari turni offerti dall’azienda, e che la stessa Corte aveva pure accertato l’insussistenza di un potere gerarchico disciplinare da parte della società nei confronti degli appellanti, giacchè quest’ultima non aveva mai adottato sanzioni disciplinari a danno dei lavoratori anche se questi dopo aver dato la loro disponibilità la revocavano (funzione swap) o non si presentavano a rendere la prestazione (no show).

49. Sotto il secondo profilo, la ricorrente fa valere che la possibilità per il lavoratore di recarsi in una qualsiasi delle tre piazze indicate evidenziava che la scelta del luogo non era imposta dalla società.

50. Come si è notato, gli stessi elementi vengono valorizzati come vizio di sussunzione nella fattispecie disciplinata dal D.Lgs. n. 81, art. 2, comma 1, come interpretato dalla Corte di appello, e quindi come violazione di legge.

51. A parere della Corte le critiche mosse con le due doglianze in esame non valgono a censurare efficacemente la sentenza impugnata, che ha individuato l’organizzazione impressa ai tempi e al luogo di lavoro come significativa di una specificazione ulteriore dell’obbligo di coordinamento delle prestazioni, con l’imposizione di vincoli spaziali e temporali emergenti dalla ricostruzione del regolamento contrattuale e delle modalità di esecuzione delle prestazioni. In particolare, sotto il primo profilo, valorizzando l’impegno del lavoratore, una volta candidatosi per la corsa, ad effettuare la consegna tassativamente entro 30 minuti dall’orario indicato per il ritiro del cibo, sotto comminatoria di una penale. Sotto il secondo profilo, dando peso alle modalità di esecuzione della prestazione, in particolare:

– all’obbligo per ciascun rider di recarsi all’orario di inizio del turno in una delle zone di partenza predefinite e di attivare l’applicativo (OMISSIS), inserendo le credenziali e avviando la geolocalizzazione;

– all’obbligo, ricevuta sulla applicazione la notifica dell’ordine con indicazione dell’indirizzo del ristorante, di recarsi ivi con la propria bicicletta, prendere in consegna i prodotti, controllarne la corrispondenza con l’ordine e comunicare tramite apposito comando della applicazione il buon esito

dell’operazione;

– all’obbligo di consegna del cibo al cliente, del cui indirizzo il rider ha ricevuto comunicazione sempre tramite l’applicazione, e di conferma della regolare consegna.

52. Gli elementi posti in rilievo dalla ricorrente, se confermano l’autonomia del lavoratore nella fase genetica del rapporto, per la rilevata mera facoltà dello stesso ad obbligarsi alla prestazione, non valgono a revocare in dubbio il requisito della etero-organizzazione nella fase funzionale di esecuzione del rapporto, determinante per la sua riconduzione alla fattispecie astratta di cui al D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2, comma 1.

53. Come si osservava, se l’elemento del coordinamento dell’attività del collaboratore con l’organizzazione dell’impresa è comune a tutte le collaborazioni coordinate e continuative, secondo la dizione dell’art. 409 c.p.c., comma 3, nel testo risultante dalla modifica di cui alla L. n. 81 del 2017, art. 15, comma 1, lett. a), nelle collaborazioni non attratte nella disciplina del D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2, comma 1, le modalità di coordinamento sono stabilite di comune accordo tra le parti, mentre nel caso preso in considerazione da quest’ultima disposizione tali modalità sono imposte dal committente, il che integra per l’appunto la etero-organizzazione che dà luogo all’applicazione della disciplina del lavoro subordinato.

54. La Corte territoriale ha individuato gli aspetti logistici e temporali dell’etero-organizzazione, facendo leva sulla dimensione funzionale del rapporto, e dandone conto con una motivazione coerente, esente dal “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” denunciato dalla ricorrente.

55. Non sussistono dunque nè il vizio di motivazione inferiore al “minimo costituzionale” (Cass., SU, n. 8053 del 2014, cit.) nè quello di sussunzione risolventesi in violazione di legge.

56. A conclusione della disamina dei primi tre motivi di ricorso deve osservarsi che, pur non avendo questo Collegio condiviso l’opinione della Corte territoriale quanto alla riconduzione dell’ipotesi prevista dal D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2, comma 1, a un tertium genus, intermedio tra la subordinazione ed il lavoro autonomo, e alla necessità di selezionare le norme sulla subordinazione da applicare, il dispositivo della sentenza impugnata deve considerarsi, per quanto detto, conforme a diritto, per cui la stessa sentenza non è soggetta a cassazione e la sua motivazione deve intendersi corretta in conformità alla presente decisione, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c., come richiesto dall’Ufficio del Procuratore Generale.

57. Non vi sono censure relative alle altre condizioni richieste per l’applicabilità del D.Lgs. n. 81

del 2015, art. 2, comma 1, cioè il carattere esclusivamente personale della prestazione e il suo svolgimento in maniera continuativa nel tempo.

58. A conclusione del ricorso, la ricorrente prospetta poi, come quarto motivo, una questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, in discorso se interpretato come norma di fattispecie, come norma cioè idonea a produrre effetti giuridici e a dar vita a un terzo genere di rapporto lavorativo, a metà tra la subordinazione e la collaborazione coordinata e continuativa. Sotto un primo profilo la ricorrente osserva che la delega contenuta nella L. n. 183 del 2014, avrebbe autorizzato il legislatore delegato a riordinare le tipologie contrattuali esistenti, ma non a crearne di nuove. Se interpretato nei termini tracciati dalla Corte d’appello di Torino, l’art. 2, si porrebbe dunque in contrasto con l’art. 76 Cost., in quanto esso violerebbe i limiti posti dal legislatore delegante. Inoltre, sotto un secondo profilo, tale lettura renderebbe l’art. 2, irragionevole e dunque in contrasto con l’art. 3

Cost., equiparando l’riders ai fattorini contemplati dalla contrattazione collettiva, a prescindere dalla effettiva equiparabilità delle mansioni svolte.

59. Sotto il primo profilo, la questione sollevata non ha più ragione di essere, avendo questa Corte ritenuto il D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2, comma 1, norma di disciplina e non norma di fattispecie, dovendosi escludere che essa abbia dato vita ad un tertium genus, intermedio tra la subordinazione ed il lavoro autonomo, per cui non può parlarsi di eccesso di delega, ben potendo inquadrarsi la norma in discorso nel complessivo riordino e riassetto normativo delle tipologie contrattuali esistenti voluto dal legislatore delegante.

60. Sotto il secondo aspetto, il Collegio non ravvisa alcun profilo di irragionevolezza nella scelta del legislatore delegato di equiparare, quanto alla disciplina applicabile, i soggetti di cui al D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2, comma 1, ai lavoratori subordinati, nell’ottica della tutela di una posizione lavorativa più debole, per l’evidente asimmetria tra committente e lavoratore, con esigenza di un regime di tutela più forte, in funzione equilibratrice.

61. Le questioni di costituzionalità sollevate devono dunque ritenersi manifestamente infondate.

62. Alla luce delle considerazioni che precedono, il ricorso è quindi complessivamente da rigettare.

63. L’assoluta novità della questione giustifica la compensazione delle spese del giudizio di legittimità, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., comma 2, come modificato dal D.L. n. 132 del 2014, art. 13, comma 1, convertito, con modificazioni, nella L. n. 162 del 2014.

64. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della società ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di legittimità. Ai sensi del D.P.R. n. 115

del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 14 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 24 gennaio 2020