Procedure di stabilizzazione precluse ai lavoratori somministrati

Pubblico Impiego – Stabilizzazione del Personale Precario – Lavoratori Somministrati – Inapplicabilità delle procedure di stabilizzazione.

DLGS 75 /2017 articolo 20 commi 2 e 9 – esclusione dei lavoratori titolari di contratti di somministrazione di lavoro presso le pubbliche amministrazioni dalla possibilità di partecipare alle procedure concorsuali riservate in misura non superiore al 50% dei posti disponibili al personale non dirigenziale che risulti titolare di un contratto di lavoro flessibile.

Corte Costituzionale sentenza 12 maggio 2023 n.95 – insussistenza della questione di legittimità costituzionale.

La decisione in sintesi

La consulta ha ritenuto come le procedure di stabilizzazione costituiscano uno strumento di reclutamento derogatorio rispetto a quello ordinario del pubblico concorso, in quanto introducono un percorso riservato ad una platea ristretta di soggetti in possesso di specifici requisiti che abbiano maturato un periodo di esperienza lavorativa in ambito pubblico.

Nel caso di specie, ha rammentato la Consulta, il rapporto di lavoro vero è quello che intercorre tra agenzia e dipendente e, rispetto ad esso, non rilevano le vicende del contratto concluso tra agenzia ed utilizzatore.

Ha precisato quindi la Consulta come il contratto tra l’agenzia ed il dipendente non trova origine in una procedura selettiva, in quanto la Pubblica Amministrazione risulta essere soltanto un utilizzatore.

Ha quindi concluso precisando come i lavoratori messi a disposizione della Pubblica Amministrazione per tutta la durata della missione, pur svolgendo la loro attività nell’interesse e sotto la direzione dell’ente, non vengono ovviamente reclutati mediante l’espletamento di procedure concorsuali.

Quindi secondo la Corte, non sussiste alcuna ingiustificata disparità di trattamento.

Il trasferimento del dipendente che assiste un disabile: la sentenza n. 33429/2022 della Suprema Corte

Nel caso oggetto della pronuncia in oggetto, un dipendente impugnava il trasferimento disposto dal datore di lavoro da Ravenna a Forlì in quanto assistente con continuità il padre disabile ai sensi dell’art. 33, comma 5, legge n. 104/1992.

In effetti, la citata disposizione normativa prevede che il lavoratore che assiste un familiare disabile non possa essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede; ma tale disposizione non esclude che tale interesse debba conciliarsi con altri rilevanti interessi, diversi da quelli sottesi all’ordinaria mobilità.

In effetti, l’applicazione dell’art. 33, comma 5, cit., postula, di volta in volta, un bilanciamento di interessi.

Bilanciamento peraltro necessario, in via generale, per tutti i trasferimenti, atteso il disposto dell’art.2103 c.c., che statuisce che il lavoratore non può essere trasferito da una unità produttiva ad un’altra “se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive“; in particolare, poi, la norma di cui all’art. 33, comma 5, della legge n. 104/1992, deve essere interpretata in termini costituzionalmente orientati.

Nel caso di specie, il datore di lavoro ha provato l’effettività delle esigenze tecniche, organizzative e produttive del trasferimento, insuscettibili di essere diversamente soddisfatte nonché la proposta ed il rifiuto da parte del lavoratore di un’offerta di una posizione lavorativa alternativa a Ravenna.

Pertanto, la Corte di Cassazione ha concluso che la tutela rafforzata cui ha diritto il lavoratore che assista con continuità una familiare invalido opera nei confronti delle ordinarie esigenze tecniche, organizzative, produttive, legittimanti la mobilità, con il limite della soppressione del posto o di altre situazioni di fatto insuscettibili di essere diversamente soddisfatte.

Nel caso concreto il trasferimento siccome disposto è stato dunque ritenuto legittimo, nonostante riguardasse dipendente assistente il padre disabile.

SENTENZA CASSAZIONE – La prescrizione decorre dalla cessazione del rapporto di lavoro per tutti i rapporti non dotati di stabilità reale.

Un importante sentenza della Corte di Cassazione allunga i termini di prescrizione anche nelle grandi aziende che superano il numero di dipendenti per l’applicazione dell’articolo 18 legge 300/70.

Un importante sentenza della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro 6.9.2022 n.26246 in riforma a sentenza della Corte d’Appello di Brescia ha statuito come dopo le riforme che hanno reso solo eventuale il reintegro del lavoratore licenziato illegittimamente anche nelle aziende che superano le dimensioni previste dall’articolo 18 legge 300/70, abbiano comportato l’estensione a queste ultime del regime di decorrenza della prescrizione dalla cessazione del rapporto di lavoro.

Ai crediti retributivi di lavoro si applica la prescrizione quinquennale siccome disposto dagli articoli 2948 n.4, 2955 n.2, 2956 n.1, del codice civile.

Nel 1966, la Corte Costituzionale( Corte Cost. 10 giugno 1966, n. 63),  dichiarava l’illegittimità di questi articoli nella parte in cui prevedevano il decorrere della prescrizione in costanza del rapporto di lavoro.

La Corte anche tenendo in considerazione il principio di irrinunciabilità della retribuzione in forza dell’articolo 36 della Costituzione e del fondato dubbio che il lavoratore fosse spinto a non agire contro il proprio datore di lavoro neppure inviando una lettera per l’interruzione della prescrizione, ebbe a ritenere la permanenza del rapporto di lavoro come ragione ostativa al decorrere della prescrizione.

Allorquando entrò in vigore lo statuto dei lavoratori , legge 300/70 che all’articolo 18 garantiva la reintegra nel caso di licenziamento illegittimo nelle aziende di maggiori dimensioni, venne in parte meno questa ragione.

In tal modo, la permanenza del rapporto permaneva come ragione ostativa al decorrere della prescrizione soltanto per i rapporti che l’articolo 18 della legge 300/70 escludeva dalla reintegra nel caso di licenziamento illegittimo. (Corte Costituzionale n. 174/1972).

Con l’entrata in vigore della legge n.92/2012 (legge Fornero) e del DLGS 23/2015 (Jobs Act) la stabilità reale del rapporto di lavoro con la conseguente reintegra in caso di licenziamento illegittimo divenne l’eccezione e non la regola.

Tornavano quindi attuali i dubbi sollevati dalla Corte Costituzionale nel 1966 che i lavoratori in assenza di una tutela reale, potessero essere indotti a non interrompere la prescrizione.

La sentenza oggi in esame ritiene come la mutata situazione renda attuale la situazione paventata a suo tempo dalla Corte Costituzionale e ritiene quindi che la prescrizione dei crediti di lavoro debba sempre decorrere dalla cessazione del rapporto.

Resta fermo come nei rapporti dotati di stabilità reale, come nel caso del pubblico impiego, la prescrizione continui a decorrere anche in costanza di rapporto.

Fabio Petracci

Di seguito, la motivazione della cennata decisione della Corte di Cassazione:

Motivi della decisione

  1. Con unico motivo, le ricorrenti deducono violazione degli artt. 29352948c.c., n. 4 L. n. 300 del 1970art. 18art. 36 Cost., per avere la Corte territoriale errato, alla luce dell’insegnamento della Corte costituzionale (sentenze n. 62 del 1966, n. 143 del 1969, n. 174 del 1972) e della giurisprudenza di legittimità, nel ritenere, anche dopo la novellazione del L. n. 300 del 1970 art. 18, con le riforme della L. n. 92 del 2012 e del D.Lgs. n. 23 del 2015, la vigenza del regime di stabilità del rapporto di lavoro: tale essendo un rapporto che abbia come forma ordinaria di tutela quella reale, in tutte le ipotesi di licenziamento non sorretto da giusta causa o giustificato motivo, o comunque illegittimo. Esse stimano pertanto irrilevante, a tal fine, il diritto alla reintegrazione, nelle ipotesi di nullità o di inefficacia del licenziamento, in quanto previste anche nell’area di applicabilità della L. n. 604 del 1966 (di tutela obbligatoria), incontestabilmente riconosciuta come non assistita da un regime di stabilità.

In via subordinata, le lavoratrici prospettano una questione di illegittimità costituzionale degli artt. 2935 e 2948, n. 4 c.c., con riferimento all’art. 36 Cost., qualora interpretati nel senso dell’integrazione di un regime di stabilità del rapporto di lavoro, idoneo ad impedire il timore del prestatore alla tutela dei propri diritti, assistito da un dispositivo sanzionatorio che preveda la tutela reintegratoria per la sola ipotesi di licenziamento ritorsivo e, più in generale, così come realizzato dalle modifiche apportate al L. n. 300 del 1970 art. 18, dal L. n. 92 del 2012 art. 1, comma 42 e dagli D.Lgs. n. 23 del 2015 artt. 23 e 4.

  1. Esso è fondato.
  2. La questione devoluta, per la prima volta, a questa Corte è scolpita nella formulazione, in via subordinata, del quesito relativo al dubbio di incostituzionalità, in ordine alla permanenza (tuttora) della garanzia, nel rapporto di lavoro degli occupati in imprese aventi i requisiti dimensionali stabiliti dal L. n. 300 del 1970art. 18, a seguito delle modifiche apportate dall’art. 1comma 42 della L. n. 92 del 2012 e dagli artt. 3 e 4 del D.Lgs. n. 23 del 2015, di quel regime di stabilità in presenza del quale l’art. 2948, n. 4 c.c., cosi come risultante a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 63 del 1966 e delle successive (in particolare: Corte Cost. n. 143 del 1969n. 86 del 1971 e n. 174 del 1972), consenta il decorso della prescrizione in costanza di rapporto di lavoro.

Ed è questione che, senza accedere alla Corte costituzionale, ben può essere affrontata e risolta in continuità sostanziale con l’insegnamento di oltre un cinquantennio di elaborazione giurisprudenziale (il cd. “diritto vivente”), nella responsabile consapevolezza dell’indubbio e significativo cambiamento operato dalle riforme intervenute sul sistema introdotto dalla L. n. 300 del 1970, cui non si può semplicemente replicare con argomenti che non tengano di ciò conto.

Se quella suindicata è la questione in esame, il suo focus è costituito dalla individuazione del termine di decorrenza della prescrizione quinquennale, ai sensi dell’art. 2948, n. 4 c.c., in relazione all’art. 2935 c.c. (momento dal quale il diritto possa essere fatto valere), per i crediti retributivi del lavoratore in ragione del regime di (“adeguata”) stabilità o meno del rapporto di lavoro.

  1. Ebbene, l’art. 2948, n. 4 c.c. deve essere letto (così come gli artt. 2955, n. 2 e 2956, n. 1 c.c.) nella sua accezione costituzionalmente legittima, in esito ai noti interventi evolutivi della Corte costituzionale:
  2. a) dapprima, di illegittimità costituzionale, in riferimento all’ 36Cost., limitatamente alla parte che consente la decorrenza della prescrizione del diritto alla retribuzione durante il rapporto di lavoro (Corte Cost. 10 giugno 1966, n. 63), sulla base dell’esistenza di “ostacoli materiali”, individuati nel”la situazione psicologica del lavoratore, che può essere indotto a non esercitare il proprio diritto… per timore del licenziamento; cosicchè la prescrizione, decorrendo durante il rapporto di lavoro, produce proprio quell’effetto che l’art. 36 ha inteso precludere vietando qualunque tipo di rinuncia: anche quella che, in particolari situazioni, può essere implicita nel mancato esercizio del proprio diritto e pertanto nel fatto che si lasci decorrere la prescrizione” (sub p.to 3 del Considerato in diritto);
  3. b) successivamente, di delimitazione del perimetro della suddetta pronuncia, nel senso di non estensibilità ai rapporti di pubblico impiego (sia con lo Stato, sia con altri enti pubblici), per avere questi una particolare forza di resistenza, data da una disciplina che normalmente assicura la stabilità del rapporto, o dalle garanzie di rimedi giurisdizionali avverso la sua illegittima risoluzione, tali da escludere che il timore del licenziamento possa indurre l’impiegato a rinunziare ai propri diritti (Corte Cost. 20 novembre 1969, n. 143, Considerato in diritto, p.to 1);
  4. c) quindi, in coerente sviluppo interpretativo del principio (di stabilità del rapporto) affermato da quest’ultima sentenza, fatto allora “valere per i rapporti di pubblico impiego statali, anche se di carattere temporaneo”, di “applicazione in tutti i casi di sussistenza di garanzie che si possano ritenere equivalenti a quelle disposte per i rapporti medesimi”: e pertanto, verificandosi una siffatta analogia, a quei rapporti di lavoro, ai quali siano applicabili le leggi n. 604 del 15 luglio 1966,  n. 300 del 20 maggio 1970, “di cui la seconda deve considerarsi necessaria integrazione della prima, dato che una vera stabilità non si assicura se all’annullamento dell’avvenuto licenziamento non si faccia seguire la completa reintegrazione nella posizione giuridica preesistente fatta illegittimamente cessare” (Corte Cost. 12 dicembre 1972, n. 174, Considerato in diritto, p.to 3).

4.1. Nel solco dell’indirizzo della giurisprudenza costituzionale, si è posta anche questa Corte di legittimità, che, con un noto arresto nella sua più autorevole composizione, ha ben chiarito la distinzione del doppio regime di (decorrenza della) prescrizione, a seconda della stabilità o meno del rapporto di lavoro. Essa ha così enunciato il principio, poi costantemente seguito, di non decorrenza della prescrizione dei crediti di lavoro durante il rapporto di lavoro solo per quei rapporti non assistiti dalla garanzia della stabilità: dovendosi ritenere stabile ogni rapporto che, indipendentemente dal carattere pubblico o privato del datore di lavoro, sia regolato da una disciplina la quale, sul piano sostanziale, subordini la legittimità e l’efficacia della risoluzione alla sussistenza di circostanze obbiettive e predeterminate e, sul piano processuale, affidi al giudice il sindacato su tali circostanze e la possibilità di rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo. Il che, se per la generalità dei casi coincide(va) attualmente con l’ambito di operatività della L. n. 300 del 20 maggio 1970, (dati gli effetti attribuiti dall’art. 18 all’ordine di riassunzione, ben più incisivi di quelli previsti dal L. n. 604 del 15 luglio 1966art. 8), può anche realizzarsi ogni qual volta siano applicabili le norme del pubblico impiego o leggi speciali o specifiche pattuizioni che diano al prestatore d’opera una tutela di pari intensità (Cass. s.u. 12 aprile 1976, n. 1268).

  1. Appare evidente che la stabilità del rapporto di lavoro si fondi su una disciplina che, sul piano sostanziale, subordini la legittimità e l’efficacia della risoluzione alla sussistenza di circostanze obbiettive e predeterminate e, sul piano processuale, affidi al giudice il sindacato su tali circostanze e la possibilità di rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo. Al tempo stesso, come essa si saldi con la decorrenza della prescrizione, ai sensi del combinato disposto degli artt. 2935 e (in particolare) 2948, n. 4 c.c. (nella sua lettura costituzionalmente legittima), nel corso del rapporto, mano a mano che maturino i diritti che il lavoratore possa far valere; essa decorrendo invece dalla sua cessazione, qualora non vi sia stabilità del rapporto.

5.1. E’ risaputo che la prescrizione, in quanto modalità generale di estinzione (per non esercizio per un tempo determinato dalla legge) dei diritti, sia istituto che invera il principio di certezza del diritto, in riferimento particolare alla sua decorrenza, ossia al momento in cui il diritto medesimo possa essere fatto valere. Giova qui sottolinearne la fondamentale importanza, prima ancora che sul piano normativo ordinamentale, sul piano della stessa civiltà giuridica di un Paese, quale principio di affidabilità per tutti: sull’effettività dei diritti e sulla loro tutela, sulle relazioni familiari e sociali, sulle transazioni economiche e finanziarie. E come esso si rifletta sulla stessa attrattività di uno Stato, per investimenti e iniziative di intrapresa economica in senso lato, in un sistema di relazioni e di scambi internazionali da tempo strettamente interconnesso, nella crescente contendibilità tra ordinamenti, soprattutto nel mondo del lavoro e delle imprese.

Se questo è allora il tema, occorre che sia garantita una conoscenza, in termini di generalità e di sicura predeterminazione, di quali siano le regole che presiedono all’accesso dei diritti, alla loro tutela e alla loro estinzione.

Pertanto, dovendo ora tali regole essere conformate ad una disciplina dei rapporti di lavoro (instaurati con datori in possesso dei requisiti dimensionali prescritti dal L. n. 300 del 1970 art. 18, comma ottavo e 9, nel testo novellato dal L. n. 92 del 2012 art. 1, comma 42, lett. b) e pure richiamato dall’art. 1, comma 3 D.Lgs. n. 23/2015) più flessibilmente modulata in ordine alle tutele previste, a seconda delle vari ipotesi di licenziamento (queste pure suscettibili di una diversa qualificazione, rispetto alla domanda, in sede giurisdizionale), il criterio di individuazione del dies a quo di decorrenza della prescrizione dei diritti del lavoratore deve soddisfare un’esigenza di conoscibilità chiara predeterminata e di semplice identificazione.

Ciò presuppone che, fin dall’instaurazione del rapporto, ognuna delle parti sappia quali siano i diritti e soprattutto, per quanto qui rileva, quando e “fino a quando” possano essere esercitati: nel rispetto e nell’interesse del lavoratore, destinatario della previsione in quanto soggetto titolare dei diritti; ma parimenti del datore di lavoro, che pure deve conoscere quali siano i tempi di possibili rivendicazioni dei propri dipendenti, per programmare una prudente, e soprattutto informata, organizzazione della propria attività d’impresa e della sua prevedibile capacità di sostenere il rischio di costi e di oneri, che quei tempi comportino.

In realtà, si tratta di interessi (sia pure espressione di posizioni soggettive diversamente collocate nell’organizzazione dell’impresa, rette da un rapporto di subordinazione e tuttavia non antagoniste) largamente convergenti, in una prospettiva più ampia, che sempre andrebbe considerata nell’interpretazione e nella prassi operativa: perchè i rapporti di lavoro sono intimamente implicati nella vita dell’impresa, di cui costituiscono componente intrinseca costituendo essi stessi impresa. E si tratta di un’implicazione tale da modularne la disciplina, siccome decisivamente condizionata dal dato obiettivo dell’andamento dell’impresa medesima, in una sorta di comunione di destino.

Al riguardo, merita avere chiara la distinzione tra il diritto al lavoro, riconosciuto a tutti i cittadini dalla Repubblica, la quale ne promuove (secondo un’evidente declinazione non già descrittiva, ma imperativa del verbo) le condizioni che lo rendano effettivo (art. 4, comma 1 Cost.), dal diritto al posto di lavoro, invece oggetto di una regolamentazione specifica di tutela nelle relazioni interne all’impresa. Essa si constata con la massima evidenza nelle situazioni di crisi, nelle quali i due diritti si misurano in una naturale frizione, dovendo quasi sempre la tutela del posto di lavoro cedere a quella, di interesse più generale, del diritto al lavoro, inteso come compatibilità del più ampio mantenimento dell’occupazione possibile con la condizione di crisi data.

Ebbene, da tempo la Corte costituzionale ha letto in questa prospettiva l’art. 4, comma 1 Cost.:

ossia, nel senso che il diritto al lavoro riconosciuto ad ogni cittadino (pur non implicando un immediato diritto al conseguimento di un’occupazione nè, per coloro che siano già occupati, un diritto alla conservazione del posto) debba essere considerato un diritto fondamentale di libertà, che lo Stato necessariamente riscontri con l’obbligo di indirizzo dell’attività dei pubblici poteri alla creazione di condizioni che consentano il lavoro a tutti i cittadini, onde l’esigenza che il legislatore, per quanto di sua competenza, introduca garanzie adeguate e temperamenti opportuni nei casi in cui si renda necessario far luogo a licenziamenti (Corte Cost. 26 maggio 1965, n. 45, Considerato in diritto, p.to 4). E questo insegnamento, secondo cui, non essendo il diritto al lavoro assistito dalla garanzia di stabilità dell’occupazione, spetta al legislatore, “nel quadro della politica prescritta dalla norma costituzionale”, adeguare le tutele in caso di licenziamenti illegittimi, mantiene tutta la sua attualità nella sua recente ripresa da parte della stessa Corte costituzionale (sentenza 22 luglio 2022, n. 183, Considerato in diritto, p.to 4.2.).

  1. Ora, perchè del regime di stabilità o meno del rapporto lavorativo, ai fini di immediata e semplice individuazione del termine di decorrenza della prescrizione (in costanza di rapporto, nel primo caso; ovvero soltanto dalla sua cessazione, nel secondo), si abbia una chiara conoscibilità, in via di generale predeterminazione, occorre che esso risulti:
  2. a) fin dal momento della sua istituzione, qualora si tratti di un rapporto esplicitamente di lavoro subordinato a tempo tanto indeterminato, quanto determinato (in caso di successione di due o più contratti di lavoro a termine legittimi, per la decorrenza del termine di prescrizione dei crediti retributivi previsto dagli artt. 2948, n. 4, 2955, n. 2 e 2956, n. 1 c.c. dal giorno della loro insorgenza, nel corso del rapporto lavorativo e alla cessazione del rapporto, per quelli che maturino da tale momento, in ragione dell’autonoma e distinta considerazione dei crediti originati da ogni contratto, senza alcuna sospensione della prescrizione negli intervalli di tempo tra l’uno e l’altro, per la tassatività delle cause sospensive previste dagli  29412942c.c.; non sussistendo in tali casi il metus del lavoratore verso il datore, siccome presupposto da un rapporto a tempo indeterminato non assistito da alcuna garanzia di continuità: Cass. s.u. 16 gennaio 2003, n. 575Cass. 5 agosto 2019, n. 20918Cass. 19 novembre 2021, n. 35676);
  3. b) parimenti, qualora il rapporto sia stato stipulato tra le parti con una qualificazione non rappresentativa della sua effettività, priva di garanzia di stabilità, la quale sia poi accertata dal giudice, in relazione al concreto atteggiarsi del rapporto stesso nel corso del suo svolgimento, non già alla stregua di quella ad esso attribuita dal giudice all’esito del processo, con un giudizio necessariamente ex post ( s.u. 28 marzo 2012, n. 4942Cass. 12 dicembre 2017, n. 29774).

Infatti, l’individuazione del regime di stabilità (o meno) del rapporto lavorativo, ai fini qui d’interesse, in base alla qualificazione ad esso attribuita dal giudice, con un giudizio necessariamente ex post, contraddice radicalmente quei requisiti di chiara e predeterminata conoscibilità ex ante, coerente con l’esigenza di certezza sopra illustrata, per l’affidamento di una tale selezione, delicata e fondamentale, al pernicioso criterio del “caso per caso”, rimesso di volta in volta al singolo accertamento giudiziale, fonte di massima incertezza e di destabilizzazione del sistema.

  1. A questo punto, occorre allora verificare quale sia il regime attuale di stabilità del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, oggetto dell’odierna controversia, una volta che si dia atto del superamento, per effetto delle significative riforme sopravvenute, della esclusività della tutela reintegratoria dell’originario testo del L. n. 300 del 1970art. 18, che detta stabilità ha garantito con la rimozione degli effetti di un’illegittima risoluzione del rapporto (come illustrato al superiore p.to 4).

7.1. Non è dubbio che le modifiche apportate dal L. n. 92 del 2012 art. 1 comma 42, e poi dagli artt. 3 e 4 del D.Lgs. n. 23 del 2015, al L. n. 300 del 1970 art. 18 abbiano comportato il passaggio da un’automatica applicazione, nel vigore del suo precedente testo, ad ogni ipotesi di illegittimità del licenziamento della tutela reintegratoria e risarcitoria in misura predeterminabile con certezza (pari al periodo di maturazione dalla data di licenziamento a quella di effettiva reintegrazione dell’ultima retribuzione globale di fatto) ad un’ applicazione selettiva delle tutele, in esito alla scansione delle due diverse fasi di qualificazione della fattispecie (di accertamento di legittimità o illegittimità del licenziamento intimato e della sua natura) e di scelta della sanzione applicabile (reintegratoria e risarcitoria ovvero soltanto risarcitoria), con una sua diversa commisurazione (se in misura cd. “piena” o “forte”, ovvero “attenuata” o “debole”) assolutamente inedita (ex plurimis: Cass. 21 giugno 2018, n. 16443, in motivazione, p.to 9.2).

Sicchè, a seguito del modificato regime sanzionatorio, il giudice deve, come è noto secondo il consolidato insegnamento di questa Corte (bene esemplificato, in particolare da: Cass. 9 maggio 2019, n. 12365, in motivazione, al p.to 5, con ampio richiamo di precedenti), procedere ad una valutazione più articolata in ordine alla legittimità dei licenziamenti disciplinari (o per giustificato motivo oggettivo), rispetto al periodo precedente; specialmente, accertando se sussistano o meno la giusta causa ed il giustificato motivo di recesso, secondo le previgenti nozioni fissate dalla legge, non avendo la riforma del 2012 “modificato le norme sui licenziamenti individuali, di cui alla L. n. 604 del 1966, laddove stabiliscono che il licenziamento del prestatore non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell’art. 2119 c.c. o per giustificato motivo” (così: Cass. s.u. 27 dicembre 2017, n. 30985, in motivazione, p.to 8). Nel caso in cui escluda la ricorrenza di una giustificazione della sanzione espulsiva, il giudice deve quindi svolgere, al fine di individuare la tutela applicabile, una ulteriore disamina sulla sussistenza o meno di una delle due condizioni previste dall’art. 18, comma 4 per accedere alla tutela reintegratoria (“insussistenza del fatto contestato” ovvero fatto rientrante “tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili”): dovendo, in assenza, applicare il regime dettato dal comma 5 dell’art. 18, “da ritenersi espressione della volontà del legislatore di attribuire alla cd. tutela indennitaria forte una valenza di carattere generale” (ancora Cass. s.u. 27 dicembre 2017, n. 30985, in motivazione, p.to 10.).

7.2. Al di là della natura eccezionale o meno della tutela reintegratoria, non è seriamente controvertibile che essa, rispetto alla tutela indennitaria e tanto più per effetto degli D.Lgs. n. 23 del 2015 artt. 3 e 4, abbia ormai un carattere recessivo.

Nè tale quadro normativo si è qualitativamente modificato a seguito delle recenti pronunce della Corte Costituzionale, con le quali è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale del novellato testo del L. n. 300 del 1970 art. 18 comma 7, nelle parti in cui prevedeva, ai fini di reintegrazione del lavoratore licenziato per giustificato motivo oggettivo, l’insussistenza “manifesta” del fatto posto alla base del recesso (Corte Cost. 7 aprile 2022, n. 125) e che il giudice potesse, ma non dovesse (dovendosi leggere “può” come “deve”), disporre la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro (Corte Cost. 24 febbraio 2021, n. 59).

Infatti, tali pronunce hanno certamente esteso le ipotesi in cui può essere disposta la reintegrazione, ma non hanno reso quest’ultima la forma ordinaria di tutela “contro ogni forma illegittima di risoluzione”.

7.3. Neppure si traggono argomenti significati ai fini qui in esame, dall’avere la Corte costituzionale ritenuto che anche l’indennità risarcitoria, prevista dal D.Lgs. n. 23 del 2015 art. 3, comma 1, sia idonea “a costituire un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore a causa del licenziamento illegittimo e un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare illegittimamente” (Corte Cost. 26 settembre 2018, n. 194, Considerato in diritto, p.to 12.3).

Per una sua corretta comprensione in via interpretativa, tale affermazione deve essere evidentemente collocata nel contesto del percorso argomentativo seguito dalla Corte, per fondare la pronuncia di illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 23 del 2015 art. 3, comma 1 (sia nel testo originario sia in quello modificato dal D.L. 78 del 2018 art. 3, comma 1, conv. con mod. nella 1. 96/2018), limitatamente alle parole “di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”.

Ebbene, il contesto è quello di un ripristino dell’indennità forfettizzata stabilita dalla disposizione normativa denunciata, stimata quale irragionevole rimedio, così come in essa prevista, “rispetto alla sua primaria funzione riparatorio-compensativa del danno sofferto dal lavoratore ingiustamente licenziato… suscettibile di minare, in tutta evidenza, anche la funzione dissuasiva della stessa nei confronti del datore di lavoro, allontanandolo dall’intento di licenziare senza valida giustificazione e di compromettere l’equilibrio degli obblighi assunti nel contratto” (Corte Cost. 26 settembre 2018, n. 194, Considerato in diritto, p.to 12.2), proprio in quella funzione di adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore e di adeguata dissuasione del datore.

Sul presupposto dell’espressa negazione, da parte della medesima Corte, “che il bilanciamento dei valori sottesi agli artt. 4 e 41 Cost., terreno su cui non può non esercitarsi la discrezionalità del legislatore, imponga un determinato regime di tutela (sentenza n. 46 del 2000, punto 5. del Considerato in diritto)’, essa ha pertanto ribadito come ben possa “il legislatore… nell’esercizio della sua discrezionalità, prevedere un meccanismo di tutela anche solo risarcitorio-monetario (sentenza n. 303 del 2011), purchè un tale meccanismo si articoli nel rispetto del principio di ragionevolezza. Il diritto alla stabilità del posto, infatti, “non ha una propria autonomia concettuale, ma è nient’altro che una sintesi terminologica dei limiti del potere di licenziamento sanzionati dall’invalidità dell’atto non conforme” (sentenza n. 268 del 1994, punto 5. del Considerato in diritto)” (Corte Cost. 26 settembre 2018, n. 194, Considerato in diritto, p.to 9.2).

Sicchè, appare evidente come nemmeno la sentenza ora scrutinata, così come le altre più recenti della Corte costituzionale prima richiamate, modifichi il quadro normativo attuale, anzi confermandolo nell’adeguatezza dell’indennità risarcitoria, come resa costituzionalmente legittima, quale legittimo ed efficace rimedio a protezione del lavoratore nelle ipotesi di illegittimità del licenziamento previste dal legislatore, accanto alla reintegrazione, pertanto non più forma di tutela ordinariamente affidata al giudice per rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo “contro ogni forma illegittima di risoluzione”.

  1. Ebbene, così ricostruito il quadro normativo, significativamente modificato rispetto all’epoca in cui la giurisprudenza costituzionale e di legittimità ha individuato (ai superiori p.ti 4 e 4.1.) l’essenziale dato di stabilità del rapporto nella tutela reintegratoria esclusiva del L. n. 300 del 1970art. 18, non pare che esso assicuri, sulla base delle necessarie caratteristiche scrutinate, una altrettanto adeguata stabilità del rapporto di lavoro.

Sicchè, deve essere ribadito che la prescrizione decorra, in corso di rapporto, esclusivamente quando la reintegrazione, non soltanto sia, ma appaia la sanzione “contro ogni illegittima risoluzione” nel corso dello svolgimento in fatto del rapporto stesso: così come accade per i lavoratori pubblici e come era nel vigore del testo dell’art. 18, anteriore alla L. n. 92 del 2012, per quei lavoratori cui la norma si applicava. A questa oggettiva precognizione si collega l’assenza di metus del lavoratore per la sorte del rapporto di lavoro ove egli intenda far valere un proprio credito, nel corso di esso: caratterizzato dal regime di stabilità comportato da quella resistenza che assiste, appunto, il rapporto d’impiego pubblico.

Non costituisce, infatti, garanzia sufficiente, come invece ritenuto dalla Corte d’appello di Brescia (dal secondo capoverso di pg. 5 al terz’ultimo di pg. 6 della sentenza), il mantenimento della tutela reintegratoria, tanto con la L. n. 92 del 2012 (art. 18, comma 1), tanto con il D.Lgs. n. 23 del 2015 (art. 2, comma 1), per il licenziamento (non tanto discriminatorio, impropriamente richiamato in proposito, oltre che non correttamente equiparato al licenziamento intimato “per ritorsione, e dunque discriminatorio”: al sesto alinea del secondo capoverso di pg. 5 della sentenza; ma soprattutto) ritorsivo, sul presupposto di un motivo illecito determinante ai sensi dell’art. 1345 c.c. (non necessario per il licenziamento discriminatorio: Cass. 5 aprile 2016, n. 6575Cass. 7 novembre 2018, n. 28453).

Non si tratta, infatti, di enucleare una condizione non meramente psicologica (siccome dipendente da una percezione soggettiva), ma obiettiva di metus del dipendente nei confronti del datore di lavoro, per effetto di un’immediata e diretta correlazione eziologica tra l’esercizio obiettivamente inibito) di una rivendicazione retributiva del lavoratore e la reazione datoriale di licenziamento in ragione esclusiva di essa: come sottende la Corte bresciana, laddove argomenta (al penultimo capoverso di pg. 5 della sentenza) con la possibilità per il lavoratore (in “riferimento alla facoltà… di impugnare… un licenziamento che abbia, in concreto e al di là delle ragioni apparenti addotte dal datore di lavoro, quale unica ragione quella di reagire alle rivendicazioni avanzate dal dipendente in pendenza del rapporto di lavoro”) di ottenere “una tutela ripristinatoria piena (certo essendo che se il licenziamento è invece fondato su giusta causa o giustificato motivo, oggettivi e insussistenti, e dunque su ragioni – veritiere – del tutto estranee alle rivendicazioni retributive avanzate dal dipendente, non si può configurare la situazione psicologica in questione).

Un tale ragionamento reputa dotato di stabilità adeguata un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, in assenza di una tutela reintegratoria nelle ipotesi diverse (“del tutto estranee alle rivendicazioni retributive avanzate dal dipendente”: secondo l’espressione della Corte lombarda) di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in ragione di effettive ragioni organizzative e produttive dell’impresa, ovvero di licenziamento disciplinare, per grave inadempimento degli obblighi di diligenza e fedeltà del lavoratore, fino alla rottura irreversibile del rapporto di fiducia tra le parti. Ma il procedimento argomentativo si fonda sul presupposto (chiaramente esplicitato) che tali ragioni non mascherino in realtà ragioni ritorsive (eventualmente per rivendicazioni retributive in corso di rapporto), comportanti il ripristino della tutela reintegratoria, secondo l’insegnamento di questa Corte (Cass. 4 aprile 2019, n. 9468, in riferimento ad un’ipotesi di licenziamento intimato per giustificato motivo, in realtà per motivo illecito ai sensi dell’art. 1345 c.c.; Cass. 22 giugno 2016, n. 12898, in riferimento ad ipotesi di licenziamento intimato per giusta causa).

Ebbene, esso rivela come l’individuazione del regime di stabilità sopravvenga ad una qualificazione definitiva del rapporto per attribuzione del giudice, all’esito di un accertamento in giudizio, e quindi necessariamente ex post: così affidandone l’identificazione, o meno, al criterio del “caso per caso”, rimesso di volta in volta al singolo accertamento giudiziale (stigmatizzato al superiore p.to 6, in fine, per essere fonte di massima incertezza e di destabilizzazione del sistema).

  1. In via conclusiva, deve allora essere escluso, per la mancanza dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e soprattutto di una loro tutela adeguata, che il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della L. n. 92 del 2012e del D.Lgs. n. 23 del 2015, sia assistito da un regime di stabilità.

Da ciò consegue, non già la sospensione, a norma dell’art. 2941 c.c. (per la tassatività delle ipotesi ivi previste e soprattutto per essere presupposto della sospensione la preesistenza di un termine di decorrenza della prescrizione che, esaurita la ragione di sospensione, possa riprendere a maturare), bensì la decorrenza originaria del termine di prescrizione, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della L. n. 92 del 2012.

  1. Dalle superiori argomentazioni discende allora l’accoglimento del ricorso, con la cassazione della sentenza impugnata e rinvio, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità al Tribunale di Brescia in diversa composizione, sulla base del seguente principio di diritto:

“Il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della L. n. 92 del 2012 e del D.Lgs. n. 23 del 2015, mancando dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, non è assistito da un regime di stabilità. Sicchè, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della L. n. 92 del 2012, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro”.

P.Q.M.

La Corte:
accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità, al Tribunale di Brescia in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 6 luglio 2022.

Depositato in Cancelleria il 6 settembre 2022

Corte Costituzionale n. 88/2022, pensione reversibilità per nipoti maggiorenni inabili

La decisione della Corte arriva in ragione della sollevazione della questione di legittimità costituzionale da parte della Suprema Corte di Cassazione con riferimento all’art. 38 del decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1957, n. 818 nella parte in cui non include, tra i soggetti ivi elencati, anche i maggiori orfani e interdetti dei quali risulti provata la vivenza a carico degli ascendenti.
La Corte Costituzionale sottolinea che la ratio della reversibilità dei trattamenti pensionistici consiste nel farne proseguire, almeno parzialmente, anche dopo la morte del loro titolare, il godimento da parte dei soggetti a lui legati da determinati vincoli familiari, garantendosi, così, ai beneficiari la protezione dalle conseguenze che derivano dal decesso del congiunto.
Si realizza in tal modo, anche sul piano previdenziale, una forma di ultrattività della solidarietà familiare proiettando il relativo vincolo la sua forza cogente anche nel tempo successivo alla morte.
Ciò posto, il rapporto di parentela tra l’ascendente e il nipote maggiorenne, orfano e inabile al lavoro, subisce un trattamento irragionevolmente deteriore rispetto a quello con il nipote minorenne, con conseguente fondatezza della questione sollevata in riferimento all’art. 3 Cost.
Se, infatti il legame sotteso al rapporto tra nonno e nipote minorenne, come presupposto per l’accesso al trattamento pensionistico di reversibilità, deve essere ritenuto meritevole di tutela, analoga valutazione di meritevolezza, collegata al fondamento solidaristico, non può non riguardare anche il legame familiare tra l’ascendente e il nipote, maggiore di età, orfano e inabile al lavoro.
La relazione appare in tutto e per tutto assimilabile a quella che si instaura tra ascendente e nipote minore di età, per essere comuni ai due tipi di rapporto la condizione di minorata capacità del secondo e la vivenza a carico del primo al momento del decesso di questo.
È illogico, e ingiustamente discriminatorio, che i soli nipoti orfani maggiorenni e inabili al lavoro viventi a carico del decuius siano esclusi dal godimento del trattamento pensionistico dello stesso, pur versando in una condizione di bisogno e di fragilità particolarmente accentuata: tant’è che ad essi è riconosciuto il medesimo trattamento di reversibilità in caso di sopravvivenza ai genitori, proprio perché non in grado di procurarsi un reddito a cagione della predetta condizione.
Non viene nemmeno accolta la tesi della difesa erariale relativa alla differenziazione dovuta alla limitata durata nel tempo della prestazione in favore dei nipoti minori (fino alla maggiore età) e della (in astratto) più lunga durata dell’aspettativa di vita del nipote maggiorenne inabile al lavoro.
Tale differenza non è dirimente ai fini della spettanza di un diritto che ha matrice solidaristica, a garanzia delle esigenze minime di protezione della persona.
Deve, in conclusione, essere dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 38 del d.P.R. n. 818 del 1957, per violazione dell’art. 3 Cost., nella parte in cui non include tra i destinatari diretti ed immediati della pensione di reversibilità i nipoti maggiorenni orfani riconosciuti inabili al lavoro e viventi a carico degli ascendenti assicurati.

Avv. Alberto Tarlao

Coronavirus

Vaccino Covid 19 – rifiuto dei sanitari – collocazione in ferie – legittimità – Ordinanza n.12/2021 del Tribunale di Belluno – testo integrale – breve commento di Fabio Petracci.

L’ordinanza emessa dal Tribunale di Belluno affronta il quanto mai attuale tema concernente l’obbligo di sottoporsi alla vaccinazione da parte del personale sanitario.

Il caso affrontato dal Tribunale, vede il rifiuto di alcuni dipendenti operatori sanitari di sottoporsi alla vaccinazione anti COVID-19. Il datore di lavoro li colloca pertanto forzosamente in ferie.

I dipendenti in questione si rivolgono al locale Tribunale del Lavoro chiedendo in via d’urgenza (articolo 700 CPC)  di poter continuare a svolgere le ordinarie mansioni.

Il tutto sul presupposto in base al quale i lavoratori in questione svolgevano mansioni ad alto rischio di contagio.

Va considerato come l’articolo 32 della Costituzione disponga che nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge.

Ma a questo punto, secondo chi scrive va rimosso un equivoco.

Nel caso del vaccino di personale sanitario ad alto rischio di contagio, non si tratta di un obbligo, ma bensì di una condizione di sicurezza per poter lavorare.

L’obbligo cui allude la Costituzione è quello dotato di un’assolutezza totale per cui il soggetto deve in ogni modo, anche costretto con la forza aderire.

Nel caso di specie, si tratta esclusivamente di una condizione o meglio di un onere che incombe su chi voglia esercitare in determinate condizioni una professione sanitaria.

TRIBUNALE DI BELLUNO n. 12/2021 R.G. Il Giudice sciogliendo la riserva assunta con verbale di trattazione scritta in data 16.3.21; ritenuto che risulta difettare il fumus boni iuris, disponendo l’art. 2087 c.c. che “ L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro “; ritenuto che è ormai notoria l’efficacia del vaccino per cui è causa nell’impedire l’evoluzione negativa della patologia causata dal virus SARS -CoV-2, essendo notorio il drastico calo di decessi causati da detto virus, fra le categorie che hanno potuto usufruire del suddetto vaccino, quali il personale sanitario e gli ospiti di RSA, nonché, più in generale, nei Paesi, quali Israele e gli Stati Uniti, in cui il vaccino proposto ai ricorrenti è stato somministrato a milioni di individui; rilevato che è incontestato che i ricorrenti sono impiegati in mansioni a contatto con persone che accedono al loro luogo di lavoro; ritenuto che è, pertanto, evidente il rischio per i ricorrenti di essere contagiati, essendo fra l’altro notorio che non è scientificamente provato che il vaccino per cui è causa prevenga, oltre alla malattia, anche l’infezione; ritenuto che la permanenza dei ricorrenti nel luogo di lavoro comporterebbe per il datore di lavoro la violazione dell’obbligo di cui all’art. 2087 c.c. il quale impone al datore di lavoro di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica dei suoi dipendenti; che è ormai notorio che il vaccino per cui è causa – notoriamente offerto, allo stato, soltanto al personale sanitario e non anche al personale di altre imprese, stante la attuale notoria scarsità per tutta la popolazione – costituisce una misura idonea a tutelare l’integrità fisica degli individui a cui è somministrato, prevenendo l’evoluzione della malattia; ritenuto, quanto al periculum in mora, che l’art. 2109 c.c. dispone che il prestatore di lavoro “ Ha anche diritto ad un periodo annuale di ferie retribuito, possibilmente continuativo, nel tempo che l’imprenditore stabilisce, tenuto conto delle esigenze dell’impresa e degli interessi del prestatore di lavoro “; che nel caso di specie prevale sull’eventuale interesse del prestatore di lavoro ad usufruire di un diverso periodo di ferie, l’esigenza del datore di lavoro di osservare il disposto di cui all’art. 2087 c.c.; ritenuta l’insussistenza del periculum in mora quanto alla sospensione dal lavoro senza retribuzione ed al licenziamento, paventati da parte ricorrente, non essendo stato allegato da parte ricorrente alcun elemento da cui poter desumere l’intenzione del datore di lavoro di procedere alla sospensione dal lavoro senza retribuzione e al licenziamento; ritenuto che, attesa l’assenza di specifici precedenti giurisprudenziali, sussistono le condizioni di cui all’art. 92 co. II c.p.c. per compensare le spese processuali. P.Q.M. visto l’art. 700 c.p.c.; 1. rigetta il ricorso

LAVORO DEI RIDERS TRA QUALIFICAZIONE GIURIDICA, FATTISPECIE PENALI E “COOPERATIVISMO DI PIATTAFORMA”

In un mondo del lavoro in trasformazione, le tradizionali categorie di sussunzione e
inquadramento sono fortemente in tensione, lungo le crepe che già si erano aperte negli ultimi
decenni. In particolare, vuoi per la forte visibilità, anche mediatica, dei lavoratori coinvolti,
vuoi per la forza delle istanze rivendicative espresse, il lavoro nel food delivery ha attirato
l’attenzione del legislatore e della giurisprudenza, riportando viva l’attenzione sulla tematica,
di ordine più generale, del lavoro eseguito nell’ambito della c.d. economia delle piattaforme.
Sul fronte legislativo si segnala il recente d.l. n. 101/2019, meglio noto come “decreto
imprese”, convertito in l. n. 128/2019, che ha introdotto nell’ordinamento disposizioni
specifiche destinate ai riders, inquadrando il relativo rapporto di lavoro nell’ambito delle
collaborazioni etero-organizzate di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 81/2015 e recependo in tal modo
quanto affermato dalla Corte di Appello di Torino con la nota sentenza del 4 febbraio 2019.
Il decreto ha modificato l’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 81/2015, che adesso recita: “A far data
dal 1 gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai
rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro prevalentemente
personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente. Le
disposizioni di cui al presente comma si applicano anche qualora le modalità di esecuzione
della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche digitali”.
L’ultimo periodo della disposizione in commento induce a ritenere che il legislatore abbia
specificato una possibilità di applicazione della disposizione alla casistica dei lavoratori
dell’economia delle piattaforme digitali. In realtà, dalla lettura del capo V- bis, “Tutela del
lavoro tramite piattaforme digitali”, aggiunto al decreto 81/2015 dal d.l. 101/2019, si evince
che il rinnovato comma 2 d. lgs. 81/2015 non fa riferimento a tutti i lavoratori impegnati
nell’economia delle piattaforme, ma soltanto ai «lavoratori autonomi che svolgono attività di
consegna di beni per conto altrui, in ambito urbano e con l’ausilio di velocipedi o veicoli a
motore di cui all’articolo 47, comma 2, lettera a), del codice della strada, di cui al decreto
legislativo 30 aprile 1992, n. 285, attraverso piattaforme anche digitali» (articolo 47 bis,
comma 1, del d. lgs. n. 81/2015), aprendo una separazione tra i c.d. riders e tutti gli altri
lavoratori delle piattaforme.
Al netto della condivisibilità di questa scelta, si rileva, su un piano di tecnica normativa, che il
legislatore si è astenuto dal definire lo status giuridico della fattispecie concreta rappresentata
dai lavoratori delle piattaforme, o anche soltanto dai riders, evitando di entrare nel complesso
dibattito sulla sussunzione di questi ultimi come lavoratori subordinati oppure autonomi. Si è
invece limitato ad estendere ad un tipo di rapporto di lavoro ritenuto vulnerabile un insieme di
tutele predeterminato da un precedente intervento normativo.
Tralasciando gli effetti dirompenti che la perdita di rilevanza delle coordinate spazio – temporali ai fini della sussunzione della eteroorganizzazione può sortire sulla nozione della
subordinazione, si segnala che la Corte di Cassazione italiana con la sentenza 1663/2020 si è
orientata in maniera affatto diversa, qualificando i riders come lavoratori subordinati tout
court, alla luce di un’argomentazione che ha preso le mosse dalla nozione di dipendenza
economica.
In questo contesto, ancora non vi è stato un effettivo intervento delle parti sociali, il cui ruolo,
tuttavia, è stato ricordato anche dal legislatore, con la legge di modifica del d.lgs. 81/2015 in
relazione al tema della retribuzione. Nel momento in cui nella legge di conversione viene fatto
espresso divieto dell’impiego del cottimo, infatti, si afferma che spetta alla contrattazione
collettiva il compito di definire «criteri di determinazione del compenso complessivo che
tengano conto delle modalità di svolgimento della prestazione e dell’organizzazione del
committente» (comma 1, art. 47-quater). In assenza di tali contratti collettivi, la piattaforma
digitale dovrà riconoscere al rider «un compenso minimo orario parametrato ai minimi
tabellari stabiliti da contratti collettivi nazionali di settori affini o equivalenti sottoscritti dalle
organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale»
(comma 2, art. 47-quater, d.lgs. n. 81/2015).
Le parti, a ben vedere, si erano mosse in questo senso già prima che si fossero palesate queste
indicazioni, dal momento che il 18 luglio avevano stipulato, nel contesto della contrattazione
del settore della logistica, il c.d. accordo riders, siglato dalle datoriali Confetra; Fedit;
Assologistica; Federspedi; Confartigianato trasporti e dalle organizzazioni sindacali di
categoria Fita – CNA; Filt – CGIL; Fit – CISL e Uiltrasporti.
Questo si segnala per essere stato il primo che estende alla categoria l’applicazione in toto del
contratto collettivo della logistica, introducendo una declaratoria dedicata al lavoro dei riders,
definiti “lavoratori adibiti ad attività di logistica distributiva, comprese le operazioni
accessorie ai trasporti, attraverso l’utilizzo di cicli, ciclomotori e motocicli”. A questo profilo
professionale vengono associati livelli retributivi appositamente istituiti in aggiunta ai
preesistenti, i livelli I ed L a seconda che i lavoratori utilizzino, rispettivamente, biciclette
oppure ciclomotori e motocicli. Si tratta di retribuzioni mensili parametrate su quelle degli
altri lavoratori del settore, in ragione della maggior semplicità di guida dei mezzi utilizzati e
della mancata richiesta di qualifiche (per la figura del ciclofattorino non è richiesto il possesso
della patente B).
L’accordo, per quanto appropriato, ha trovato una scarsissima applicazione, dovuta alla
peculiare natura del mercato del lavoro in cui si colloca, che pone un rilevante problema in
tema di effettività degli accordi sindacali. I riders quasi mai si relazionano con un unico
datore di lavoro ma con un’applicazione dedicata ad una o più piattaforme i cui rappresentanti
non hanno mai partecipato alle trattative degli accordi né, conseguentemente, ne fanno
applicazione.
Un’eccezione, in questo panorama, è rappresentata dalla cooperativa di lavoro Food4me, nata
dall’idea di otto lavoratori con il supporto di CISL e Confcooperative Verona. Questa realtà,
ancora sperimentale, si ispira all’impostazione culturale e lavoristica rappresentata dal c.d.
cooperativismo di piattaforma, in circolazione già da qualche tempo con l’idea di invertire la
logica finora dominante, a favore di un sistema in cui i lavoratori gestiscono l’applicazione e
non il contrario, in modo da garantire condizioni lavorative dignitose e contrastare le
disuguaglianze economiche. Al momento tutti i soci lavoratori sono titolari di un contratto di
lavoro subordinato con retribuzione oraria e tutti gli altri istituti ad esso ascrivibili; l’orario di
lavoro, che dovrà essere articolato in base ai momenti di maggiore intensità dell’attività
commerciale, sarà probabilmente il primo tema della contrattazione di secondo livello, che si
direbbe improntata ad un clima di forte collaborazione tra le parti.
Questa realtà, meritoria, costituisce un’eccezione, in un contesto in cui la difficile esigibilità
delle tutele che pure sono state previste dall’ordinamento, conduce al sopruso e allo
sfruttamento. Questo è quanto emerge dal decreto con cui il 20 maggio il Tribunale di Milano,
sezione misure di prevenzione, ha disposto l’amministrazione giudiziaria di Uber Italy, filiale
italiana di Uber, che eroga un servizio di food delivery tramite la app “uber eats”. L’ accusa è
quella di intermediazione illecita e sfruttamento della manodopera, c.d. caporalato.
La decisione, recentissima, è la prima che ascrive una condotta penalmente rilevante alla
gestione dei lavoratori da parte delle piattaforme, e la piattaforma ha immediatamente negato
le accuse: la prima udienza è prevista per il 22 ottobre.

Dott.ssa Laura Angeletti – Dottoranda ADAPT/UniBg

Furbetti del Cartellino, risarcimento del danno all’immagine a favore della Pubblica amministrazione pari ad almeno 6 mensilità. La Corte Costituzionale boccia la norma.

Con la sentenza n.66/2020 pubblicata in data 16 aprile 2020, la Corte Costituzionale ha ritenuto l’incostituzionalità del comma 3 quater dell’articolo 55 quater del DLGS 165/2001 laddove fissa un tetto minimo di sei mensilità per il risarcimento del danno all’immagine subito dalla pubblica amministrazione, allorquando il dipendente manometta o falsifichi le risultanze della sua presenza.

La Corte ha motivato il proprio intervento in quanto la norma che prevede un tanto è contenuta in un decreto legislativo (DLGS 116/2016 che modificava l’articolo 55 quater del DLGS 165/2001)  

cui la legge (Legge 124/2015) non aveva conferito una simile delega.

In pratica il governo di allora aveva legiferato in assenza di delega legislativa del parlamento. (articolo 76 della Costituzione).

Vedremo di esaminare sommariamente la questione.

L’articolo 55 quater del DLGS 165/2001 in tema di licenziamento disciplinare nell’ambito della pubblica amministrazione, tocca la responsabilità contabile – amministrativa del dipendente pubblico volta ad alterare i rilievi di presenza in servizio.

Esso al comma 3 – quater prevede espressamente che, l’azione disciplinare debba accompagnarsi alla segnalazione obbligatoria del fatto al pubblico ministero per l’esercizio dell’azione penale ed all’analogo organo presso la procura della Corte dei Conti per l’esercizio dell’azione di responsabilità amministrativa e contabile, stabilendo che, ferme le valutazioni del giudice in merito all’entità del danno, esso mai potrà essere inferiore a sei mesi dell’ultimo stipendio in godimento.

La norma così strutturata era stata introdotta mediante il DLGS 20.6.2016 n.116 che, modificava il precedente articolo 55 quater del DLGS 165/2001 introducendo questa fattispecie di danno all’immagine che non aveva bisogno di prova alcuna. ( una sorta di danno minimo ed incontestabile).

Il decreto legislativo 116/2016 era emesso su delega della legge 124/2015 che all’articolo 17, punto s) testualmente prevedeva la delega al governo per l’introduzione di norme in materia di responsabilità disciplinare dei pubblici dipendenti finalizzate ad accelerare e rendere concreto e certo nei tempi di espletamento e di conclusione l’esercizio dell’azione disciplinare.

Nulla però era detto dalla legge 124/2015 (legge Madia) in tema di responsabilità contabile – amministrativa.

Fabio Petracci.

RIDERS DI FOODORA. La recentissima sentenza della Cassazione. Testo integrale e sentenza.

Ecco il testo integrale della recentissima sentenza della Cassazione sui Riders di Foodora, preceduta da un breve commento.

L’intervento della Cassazione precede e confligge con il DL 101/2019 e considera come subordinati tutti i rapporti di lavoro continuativi e personali con il requisito della etero – organizzazione (superando il requisito della subordinazione – articolo 2094 del codice civile).

Dall’inizio del 2000, se non prima, il modello tradizionale di lavoro subordinato sta subendo una progressivo adattamento a mezzi tecnologici.

Quelli informatici ed in pratica le piattaforme oggi permettono lo svolgimento di una prestazione con risultati non dissimili da quella della tradizionale organizzazione del lavoro, prescindendo almeno in parte da alcuni elementi che connotavano la classica prestazione di lavoro dipendente. Ci riferiamo alla determinazione da parte dell’imprenditore, datore di lavoro dei tempi e del luogo della prestazione.

Ancor oggi, giuridicamente, il contratto di lavoro subordinato è sintetizzato nell’articolo 2094 del codice civile. Quivi sono individuati due soggetti, datore di lavoro e lavoratore impegnati reciprocamente nell’erogare una retribuzione a fronte di una prestazione che avviene sotto la direzione del datore di lavoro. L’elemento centrale che contraddistingue questo contratto è dato dalla subordinazione, in quanto il prestatore di lavoro soggiace al vincolo disciplinare nei confronti del datore di lavoro.

Con il DLGS 81/2015, si vogliono adattare le definizioni giuridiche alla emergente realtà, eliminando fattispecie intermedie quali il lavoro a progetto che davano luogo ad identificazioni non sempre chiare dei rapporti.

Attualmente le tipologie di lavoro, dopo l’entrata in vigore del DLGS 81/2015 possono definirsi quattro:

La situazione così descritta era messa in discussione con l’emergere dei contenziosi relativi alle nuove forme di lavoro su piattaforma informatica, dove il potere organizzativo e disciplinare assumeva forme inedite. Ci riferiamo in particolare, ma non solo, alle vicende giudiziarie relative ai fattorini motorizzati per le consegne “riders”.

L’aspetto maggiormente controverso di questa disciplina è individuato nell’articolo 2 del DLGS 81/2015 che, come abbiamo visto, considera applicabile a tutti i rapporti di lavoro continuativi e personali organizzati dall’imprenditore – datore di lavoro; la disciplina del rapporto di lavoro subordinato.

Con il decreto dignità DL 101/2019 la categoria era esplicitamente inserita tra quei lavoratori autonomi cui erano applicabili talune protezioni del lavoro

subordinato stabilite nel medesimo DL 101/2019 e quindi non tutta la disciplina concernente il rapporto di lavoro.

La sentenza della Cassazione che qui si legge è relativa ad un contenzioso anteriore all’intervento legislativo di cui al DL 101/2019 ed attribuisce ai lavoratori di cui all’articolo 2 DLGS 81/2015 e quindi non solo ai Riders la generalità delle tutele normative che competono ai lavoratori subordinati.

Ne consegue che alla luce dell’intervento giurisprudenziale della Cassazione, la legge 101/2019 ha introdotto una variante peggiorativa rispetto alla normativa precedente (vecchio testo del DLGS 81/2015) che secondo la Cassazione garantiva i trattamenti del lavoro subordinato a tutti i lavoratori menzionati all’articolo 2 DLGS 81/2015 in quanto sottoposti al potere organizzativo del datore di lavoro.

La Cassazione ha così esteso il campo applicativo dell’articolo 2094 e quindi della subordinazione a tutte queste fattispecie, nel mentre la legge successiva ha introdotto delle differenziazioni.

TESTO DELLA SENTENZA

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 14/11/2019) 24-01-2020, n. 1663

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –
Dott. RAIMONDI Guido – rel. Consigliere –
Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –
Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –
Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 11629/2019 proposto da:

FOODINHO S.R.L., quale incorporante di DIGITAL SERVICES XXXVI ITALY S.R.L. IN LIQUIDAZIONE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso lo studio dell’avvocato LUIGI FIORILLO, rappresentata e difesa dagli avvocati GIOVANNI REALMONTE, ORNELLA GIRGENTI, FIORELLA LUNARDON, PAOLO TOSI;
– ricorrente –

contro

P.M., C.G., L.R., R.A.A., G.V., tutti domiciliati in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi dall’avvocato PATRIZIA TOTARO, GIUSEPPE MARZIALE, SERGIO SONETTO, GIULIA DRUETTA;
– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 26/2019 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 04/02/2019 r.g.n. 468/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14/11/2019 dal Consigliere Dott. GUIDO RAIMONDI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELESTE Alberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato PAOLO TOSI;

uditi gli Avvocati GIUSEPPE MARZIALE e GIULIA DRUETTA.

Svolgimento del processo

1. Con ricorso depositato il 10 luglio 2017, P.M., C.G., R.A.A., L.R. e G.V. hanno chiesto al Tribunale di Torino l’accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso con la Digital Services XXXVI Italy srl (Foodora) in liquidazione, lavoro consistente nello svolgimento di mansioni di fattorino in forza di contratti di collaborazione coordinata e continuativa (cd. riders), con la conseguente condanna della società convenuta al pagamento delle differenze retributive maturate, da liquidarsi in separato giudizio. I ricorrenti hanno inoltre sostenuto di essere stati illegittimamente licenziati dalla società e hanno chiesto il ripristino del rapporto, nonchè la condanna al risarcimento del danno subito per effetto del licenziamento, e per violazione dell’art. 2087 c.c.. Gli stessi ricorrenti hanno infine lamentato di aver subito un danno non patrimoniale, da liquidarsi in separato giudizio, per violazione delle norme poste a protezione dei dati personali.

2. Con sentenza del 7 maggio 2018, n. 778 il Tribunale di Torino ha rigettato tutte le domande.

3. Avverso tale sentenza hanno proposto appello i lavoratori.

4. La Corte d’appello di Torino, con sentenza n. 26 depositata il 4 febbraio 2019, in parziale accoglimento dell’appello, ha negato la configurabilità della subordinazione e ha ritenuto applicabile al rapporto di lavoro intercorso tra le parti il D.Lgs. n. 81 del 2015, art.2, come richiesto in via subordinata dai lavoratori già in primo grado; conseguentemente, in applicazione di tale norma ha dichiarato il diritto degli appellanti a vedersi corrispondere quanto maturato in relazione all’attività lavorativa prestata, sulla base della retribuzione stabilita per i dipendenti del V livello del CCNL logistica trasporto merci, dedotto quanto percepito; inoltre, ha condannato la società appellata al pagamento delle differenze retributive così calcolate, oltre accessori. Ogni altro motivo di appello, tra cui in particolare quello relativo all’asserita illegittimità dei licenziamenti, è stato respinto, pur osservandosi da parte della Corte di appello, su quest’ultimo punto, che in ogni caso non vi era stata un’interruzione dei rapporti di lavoro in essere da parte della società prima della loro scadenza naturale.

5. Per quanto qui ancora interessa, la Corte distrettuale ha ritenuto che il D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2, nel testo applicabile ratione temporis, individui un “terzo genere”, che si viene a porre tra il rapporto di lavoro subordinato cui all’art. 2094 c.c. e la collaborazione coordinata e continuativa come prevista dall’art. 409 c.p.c., n. 3, soluzione voluta dal legislatore per garantire una maggiore tutela alle nuove fattispecie di lavoro che, a seguito dell’evoluzione e della relativa introduzione sempre più accelerata delle nuove tecnologie, si stanno sviluppando. Il giudice di appello ha ritenuto esistenti i presupposti per l’applicazione di questa norma, in particolare la etero-organizzazione dell’attività di collaborazione anche con riferimento ai tempi e ai luoghi di lavoro e il carattere continuativo della prestazione.

6. Avverso la citata sentenza della Corte di appello di Torino ha proposto ricorso per cassazione la Foodinho s.r.l., quale incorporante della Digital Services XXXVI Italy s.r.l. in liquidazione. Il ricorso è stato affidato a quattro motivi, illustrati da memoria. I lavoratori hanno resistito con controricorso.

7. Successivamente al deposito del ricorso è stato pubblicato il D.L. n. 101 del 2019, recante, fra l’altro, modifiche al D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2. Ciò ha suggerito il rinvio a nuovo ruolo della causa originariamente fissata per l’udienza del 22 ottobre 2019, in attesa della conversione in legge del suddetto decreto, avvenuto con L. n. 128 del 2019.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la ricorrente deduce la violazione e/o la falsa applicazione del D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2, in relazione all’art. 2094 c.c. e art. 409 c.p.c., n. 3, nonchè dell’art. 12 preleggi.

2. Secondo la ricorrente, il D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2, non ha introdotto, come invece ritenuto dalla Corte d’appello, un tertium genus di lavoro, non riconducibile nè al lavoro coordinato senza subordinazione (previsto dall’art. 409 c.p.c., n. 3) nè alla subordinazione in senso proprio (art. 2094 c.c.). Secondo la ricorrente, la etero-organizzazione è già un tratto tipico della subordinazione disciplinata nell’art. 2094 c.c., con la conseguenza che l’art. 2 cit., nel porla in esponente, non aggiungerebbe nulla alla ricostruzione della nozione sin qui compiuta dalla giurisprudenza, presentandosi come una sorta di norma apparente, inidonea a produrre autonomi effetti giuridici (tesi accolta dalla decisione di primo grado).

3. La Corte d’appello avrebbe inoltre commesso un altro grave errore di diritto, laddove essa ha affermato che la etero-organizzazione disciplinata dall’art. 2, in discorso consisterebbe nel potere di determinare le modalità di esecuzione della prestazione e cioè la possibilità di stabilire i tempi e i luoghi della prestazione. In tal modo, secondo la ricorrente, la Corte territoriale avrebbe trascurato che l’art. 2, richiede, ai fini della sua applicazione, che le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate dal committente “anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”. La parola “anche” del testo normativo dimostrerebbe che le tutele del lavoro subordinato garantite dall’art. 2, richiedono non una semplice etero-determinazione di tempi e luogo della prestazione, tantomeno in termini di mera “possibilità”, ma “una ingerenza più pregnante nello svolgimento della collaborazione, eccedente quindi tale etero-determinazione” (pag. 19 del ricorso).

4. Il motivo è infondato.

5. Il D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2, comma 1, sotto la rubrica “Collaborazioni organizzate dal committente”, così recita: “1. A far data dal 1 gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”.

6. Sul testo del D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2, e, più in generale, sul lavoro attraverso piattaforme digitali, in specie sui riders, è intervenuto il decreto L. 3 settembre 2019, n. 101, convertito, con modificazioni, nella L. 2 novembre 2019, n. 128. Le modifiche alla disciplina in discorso non hanno carattere retroattivo, per cui alla fattispecie in esame deve applicarsi il suddetto art. 2, nel testo previgente al citato recente intervento legislativo. Quest’ultimo, in particolare, quanto dell’art. 2, comma 1, primo periodo, in discorso, sostituisce la parola “esclusivamente” con “prevalentemente” e sopprime le parole “anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”. Inoltre, la novella aggiunge, dopo il primo periodo, il seguente testo: “Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche digitali”.

7. Prima di procedere all’analisi della censura, conviene ricordare sinteticamente il regolamento contrattuale della fattispecie, concluso sotto forma di contratti di collaborazione coordinata e continuativa, e le modalità delle prestazioni litigiose, per come tali elementi sono stati ricostruiti dalla Corte territoriale, che richiama la sentenza di primo grado, e ripercorrere brevemente l’iter logico-giuridico seguito dalla sentenza impugnata per giungere alle conclusioni oggi criticate con il ricorso.

8. Secondo la ricostruzione della Corte territoriale, che ha fatto propria quella del giudice di prime cure, la prestazione lavorativa dei ricorrenti si è svolta a grandi linee nel modo seguente: dopo avere compilato un formulario sul sito di Foodora i controricorrenti venivano convocati in piccoli gruppi presso l’ufficio di (OMISSIS) per un primo colloquio nel quale veniva loro spiegato che l’attività presupponeva il possesso di una bicicletta e la disponibilità di un telefono cellulare con funzionalità avanzate (smartphone); in un secondo momento veniva loro proposta la sottoscrizione di un contratto di collaborazione coordinata e continuativa e, dietro versamento di una caparra di Euro 50, venivano loro consegnati gli indumenti di lavoro ed i dispositivi di sicurezza (casco, maglietta, giubbotto e luci) e l’attrezzatura per il trasporto del cibo (piastra di aggancio e box).

9. Il contratto che veniva sottoscritto, cui era allegato un foglio contenente l’informativa sul trattamento dei dati personali e la prestazione del consenso, aveva le seguenti caratteristiche:

si trattava di un contratto di “collaborazione coordinata e continuativa”;

era previsto che il lavoratore fosse “libero di candidarsi o non candidarsi per una specifica corsa a seconda delle proprie disponibilità ed esigenze di vita”;

il lavoratore si impegnava ad eseguire le consegne avvalendosi di una propria bicicletta “idonea e dotata di tutti i requisiti richiesti dalla legge per la circolazione”;

era previsto che il collaboratore avrebbe agito “in piena autonomia, senza essere soggetto ad alcun vincolo di subordinazione, potere gerarchico o disciplinare, ovvero a vincoli di presenza o di orario di qualsiasi genere nei confronti della committente”, ma era tuttavia “fatto salvo il necessario coordinamento generale con l’attività della stessa committente”;

era prevista la possibilità di recedere liberamente dal contratto, anche prima della scadenza concordata, con comunicazione scritta da inviarsi a mezzo raccomandata a/r con 30 giorni di anticipo;

il lavoratore, una volta candidatosi per una corsa, si impegnava ad effettuare la consegna tassativamente entro 30 minuti dall’orario indicato per il ritiro del cibo, con la comminatoria a suo carico di una penale di 15 Euro;

il compenso era stabilito in Euro 5,60 al lordo delle ritenute fiscali e previdenziali per ciascuna ora di disponibilità;

il collaboratore doveva provvedere ad inoltrare all’INPS “domanda di iscrizione alla gestione separata di cui all’art. 2, comma 26, della L. 8 agosto 1995 n. 335” e la committente doveva provvedere a versare il relativo contributo;

– la committente doveva provvedere all’iscrizione del collaboratore all’INAIL ai sensi del D.Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, art. 5;

il premio era a carico del collaboratore per un terzo e della committente per due terzi;

– la committente – come accennato – doveva affidare al collaboratore in comodato gratuito un casco da ciclista, un giubbotto e un bauletto dotato dei segni distintivi dell’azienda a fronte del versamento di una cauzione di Euro 50.

10. Quanto alle modalità di esecuzione delle prestazioni litigiose, la gestione del rapporto avveniva attraverso  la piattaforma multimediale “(OMISSIS) e un applicativo per smartphone (inizialmente “(OMISSIS)” e successivamente “(OMISSIS)”), per il cui uso venivano fornite da Foodora apposite istruzioni. L’azienda pubblicava settimanalmente su (OMISSIS) le fasce orarie (slot) con l’indicazione del numero di riders necessari per coprire ciascun turno. Ciascun rider poteva dare la propria disponibilità per le varie fasce orarie in base alle proprie esigenze personali, ma non era obbligato a farlo. Raccolte le disponibilità, il responsabile della “flotta” confermava tramite (OMISSIS) ai singoli riders l’assegnazione del turno. Ricevuta la conferma del turno, il lavoratore doveva recarsi all’orario di inizio di quest’ultimo in una delle tre zone di partenza predefinite ((OMISSIS)), attivare l’applicativo (OMISSIS) inserendo le credenziali (nome dell’utilizzatore, user name, e parola d’ordine, password) per effettuare l’accesso (login) e avviare la geolocalizzazione (GPS). Il rider riceveva quindi sull’applicazione la notifica dell’ordine con l’indicazione dell’indirizzo del ristorante. Accettato l’ordine, il rider doveva recarsi con la propria bicicletta al ristorante, prendere in consegna i prodotti, controllarne la corrispondenza con l’ordine e comunicare tramite l’apposito comando dell’applicazione il buon esito della verifica. A questo punto, posizionato il cibo nel box, il rider doveva provvedere a consegnarlo al cliente, il cui indirizzo gli era stato nel frattempo comunicato tramite l’applicazione, e doveva quindi confermare di avere regolarmente effettuato la consegna.

11. Non ignora la Corte il vivace dibattito dottrinale che ha accompagnato l’entrata in vigore e i primi anni di vita del D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2, comma 1 – dibattito che non si è esaurito e che certamente proseguirà alla luce delle novità portate dal recente intervento legislativo che si è ricordato – e nell’ambito del quale sono state proposte le soluzioni interpretative più varie, soluzioni che possono schematicamente e senza alcuna pretesa di esaustività così evocarsi:

a) una prima via, che segue inevitabilmente il metodo qualificatorio, preferibilmente nella sua versione tipologica, è quella di riconoscere alle prestazioni rese dai lavoratori delle piattaforme digitali i tratti della subordinazione, sia pure ammodernata ed evoluta;

b) una seconda immagina l’esistenza di una nuova figura intermedia tra subordinazione e autonomia, che sarebbe caratterizzata dall’etero-organizzazione e che troverebbe nel D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2, comma 1, il paradigma legale (teoria del tertium genus o del lavoro etero-organizzato);

c) la terza possibilità è quella di entrare nel mondo del lavoro autonomo, dove tuttavia i modelli interpretativi si diversificano notevolmente essendo peraltro tutti riconducibili nell’ambito di una nozione ampia di parasubordinazione;

d) infine, vi è l’approccio “rimediale”, che rinviene in alcuni indicatori normativi la possibilità di applicare una tutela “rafforzata” nei confronti di alcune tipologie di lavoratori (quali quelli delle piattaforme digitali considerati “deboli”), cui estendere le tutele dei lavoratori subordinati.

12. La via seguita dalla sentenza impugnata è quella per cui il D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2, avrebbe introdotto un tertium genus avente caratteristiche tanto del lavoro subordinato quanto di quello autonomo, ma contraddistinto da una propria identità, sia a livello morfologico, che funzionale e regolamentare.

13. La conseguenza più significativa dell’inquadramento proposto dalla Corte torinese è rappresentata dall’applicazione delle tutele del lavoro subordinato al rapporto di collaborazione dei riders. Anche in questo caso, però, la Corte territoriale non ritiene praticabile un’estensione generalizzata dello statuto della subordinazione, ma opta per un’applicazione selettiva delle disposizioni per essa approntate, limitata alle norme riguardanti la sicurezza e l’igiene, la retribuzione diretta e differita (quindi relativa all’inquadramento professionale), i limiti di orario, le ferie e la previdenza ma non le norme sul licenziamento.

14. Contro la sentenza della Corte torinese i lavoratori non hanno proposto ricorso incidentale, non insistendo così sulla loro originaria tesi principale, tendente al riconoscimento nella fattispecie litigiosa di veri e propri rapporti di lavoro subordinato.

15. Venendo ora all’esame del motivo, sotto il primo profilo la doglianza censura radicalmente l’applicazione alla fattispecie litigiosa del D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2, comma 1, giacchè si tratterebbe di norma “apparente”, incapace come tale di produrre effetti nell’ordinamento giuridico.

16. Non ritiene la Corte di poter accogliere tale radicale tesi.

17. Come è stato osservato, i concetti giuridici, in specie se direttamente promananti dalle norme, sono convenzionali, per cui se il legislatore ne introduce di nuovi l’interprete non può che aggiornare l’esegesi a partire da essi, sforzandosi di dare alle norme un senso, al pari di quanto l’art. 1367 c.c., prescrive per il contratto, stabilendo che, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto, anzichè in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno.

18. La norma introdotta nell’ordinamento nel 2015 va contestualizzata. Essa si inserisce in una serie di interventi normativi con i quali il legislatore ha cercato di far fronte, approntando discipline il più possibile adeguate, alle profonde e rapide trasformazioni conosciute negli ultimi decenni nel mondo del lavoro, anche per effetto delle innovazioni tecnologiche, trasformazioni che hanno inciso profondamente sui tradizionali rapporti economici.

19. In attuazione della delega di cui alla L. n. 183 del 2014, cui sono seguiti i decreti delegati dei quali fa parte il D.Lgs. n. 81 del 2015, e che vanno sotto il nome di Jobs Act, il legislatore delegato, nel citato D.Lgs., dopo aver indicato nel lavoro subordinato a tempo indeterminato il modello di riferimento nella gestione dei rapporti di lavoro, ha infatti affrontato il tema del lavoro “flessibile” inteso come tale in relazione alla durata della prestazione (part-time e lavoro intermittente o a chiamata), alla durata del vincolo contrattuale (lavoro a termine), alla presenza di un intermediario (lavoro in somministrazione), al contenuto anche formativo dell’obbligo contrattuale (apprendistato), nonchè all’assenza di un vincolo contrattuale (lavoro accessorio). Per quanto attiene allo svolgimento del rapporto, il legislatore delegato ha poi introdotto un ulteriore incentivo indiretto alle assunzioni, innovando profondamente la disciplina delle mansioni attraverso il D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 3, con la riformulazione dell’art. 2103 c.c..

20. La finalità complessiva degli interventi del Jobs Act, costituita dall’auspicato incremento dell’occupazione, perseguita attraverso la promozione del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, è stata attuata anche attraverso l’esonero contributivo previsto dalla legge di stabilità, la quale ha previsto questa agevolazione per un triennio nel caso di assunzioni effettuate nel 2015 e l’esonero contributivo del 40% per un biennio per le assunzioni effettuate nel 2016; il legislatore delegato del 2015 è dunque intervenuto in tutte le fasi del rapporto di lavoro con l’intento di incentivare le assunzioni in via diretta ed indiretta.

21. Anche l’abolizione dei contratti di lavoro a progetto, la stabilizzazione dei collaboratori coordinati e continuativi anche a progetto e di persone titolari di partite IVA e la disciplina delle collaborazioni organizzate dal committente si collocano dunque nella medesima prospettiva.

22. In effetti, le previsioni del D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2, vanno lette unitamente all’art. 52 dello stesso decreto, norma che ha abrogato le disposizioni relative al contratto di lavoro a progetto previsto dal D.Lgs. n. 276 del 2003, artt. da 61 a 69-bis (disposizioni che continuano ad applicarsi per la regolazione dei contratti in atto al 25 giugno 2015, data di entrata in vigore del decreto), facendo salve le previsioni di cui all’art. 409 c.p.c.. Quindi dal 25 giugno 2015 non è più consentito stipulare nuovi contratti di lavoro a progetto e quelli esistenti cessano alla scadenza, mentre possono essere stipulati contratti di collaborazione coordinata e continuativa ai sensi dell’art. 409 c.p.c., n. 3, sia a tempo determinato sia a tempo indeterminato.

23. E’ venuta meno, perciò, una normativa che, avendo previsto dei vincoli e delle sanzioni, comportava delle garanzie per il lavoratore, mentre è stata ripristinata una tipologia contrattuale più ampia che, come tale, comporta il rischio di abusi. Pertanto, il legislatore, in una prospettiva anti-elusiva, ha inteso limitare le possibili conseguenze negative, prevedendo comunque l’applicazione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato a forme di collaborazione, continuativa e personale, realizzate con l’ingerenza funzionale dell’organizzazione predisposta unilateralmente da chi commissiona la prestazione. Quindi, dal 1 gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato tutte le volte in cui la prestazione del collaboratore abbia carattere esclusivamente personale e sia svolta in maniera continuativa nel tempo e le modalità di esecuzione della prestazione, anche in relazione ai tempi e al luogo di lavoro, siano organizzate dal committente.

24. Il legislatore, d’un canto consapevole della complessità e varietà delle nuove forme di lavoro e della difficoltà di ricondurle ad unità tipologica, e, d’altro canto, conscio degli esiti talvolta incerti e variabili delle controversie qualificatorie ai sensi dell’art. 2094 c.c., si è limitato a valorizzare taluni indici fattuali ritenuti significativi (personalità, continuità, etero-organizzazione) e sufficienti a giustificare l’applicazione della disciplina dettata per il rapporto di lavoro subordinato, esonerando da ogni ulteriore indagine il giudice che ravvisi la concorrenza di tali elementi nella fattispecie concreta e senza che questi possa trarre, nell’apprezzamento di essi, un diverso convincimento nel giudizio qualificatorio di sintesi.

25. In una prospettiva così delimitata non ha decisivo senso interrogarsi sul se tali forme di collaborazione, così connotate e di volta in volta offerte dalla realtà economica in rapida e costante evoluzione, siano collocabili nel campo della subordinazione ovvero dell’autonomia, perchè ciò che conta è che per esse, in una terra di mezzo dai confini labili, l’ordinamento ha statuito espressamente l’applicazione delle norme sul lavoro subordinato, disegnando una norma di disciplina.

26. Tanto si spiega in una ottica sia di prevenzione sia “rimediale”. Nel primo senso il legislatore, onde scoraggiare l’abuso di schermi contrattuali che a ciò si potrebbero prestare, ha selezionato taluni elementi ritenuti sintomatici ed idonei a svelare possibili fenomeni elusivi delle tutele previste per i lavoratori. In ogni caso ha, poi, stabilito che quando l’etero-organizzazione, accompagnata dalla personalità e dalla continuità della prestazione, è marcata al punto da rendere il collaboratore comparabile ad un lavoratore dipendente, si impone una protezione equivalente e, quindi, il rimedio dell’applicazione integrale della disciplina del lavoro subordinato.

27. Si tratta di una scelta di politica legislativa volta ad assicurare al lavoratore la stessa protezione di cui gode il lavoro subordinato, in coerenza con l’approccio generale della riforma, al fine di tutelare prestatori evidentemente ritenuti in condizione di “debolezza” economica, operanti in una “zona grigia” tra autonomia e subordinazione, ma considerati meritevoli comunque di una tutela omogenea. L’intento protettivo del legislatore appare confermato dalla recente novella cui si è fatto cenno, la quale va certamente nel senso di rendere più facile l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato, stabilendo la sufficienza – per l’applicabilità della norma di prestazioni “prevalentemente” e non più “esclusivamente” personali, menzionando esplicitamente il lavoro svolto attraverso piattaforme digitali e, quanto all’elemento della “etero-organizzazione”, eliminando le  parole “anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”, così mostrando chiaramente l’intento di incoraggiare interpretazioni non restrittive di tale nozione.

28. Il secondo profilo della doglianza in esame invita proprio questa Corte, invece, a adottare un’interpretazione restrittiva della norma in discorso.

29. Secondo la ricorrente, come si è detto, la Corte territoriale, affermando che la etero-organizzazione disciplinata dall’art. 2, consisterebbe nel potere di determinare le modalità di esecuzione della prestazione e cioè la possibilità di stabilire i tempi e i luoghi di lavoro, avrebbe trascurato che l’art. 2, richiede, ai fini della sua applicazione, che le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate dal committente “anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”. La parola “anche” del testo normativo dimostrerebbe che le tutele del lavoro subordinato garantite dall’art. 2, richiedono non una semplice etero-determinazione di tempi e luogo della prestazione, tantomeno in termini di mera “possibilità”, ma “una ingerenza più pregnante nello svolgimento della collaborazione, eccedente quindi tale etero-determinazione”.

30. Anche tale censura non può essere condivisa.

31. La norma introduce, a riguardo delle prestazioni di lavoro esclusivamente personali e continuative, la nozione di etero-organizzazione, “anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”.

32. Una volta ricondotta la etero-organizzazione ad elemento di un rapporto di collaborazione funzionale con l’organizzazione del committente, così che le prestazioni del lavoratore possano, secondo la modulazione unilateralmente disposta dal primo, opportunamente inserirsi ed integrarsi con la sua organizzazione di impresa, si mette in evidenza (nell’ipotesi del D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2) la differenza rispetto ad un coordinamento stabilito di comune accordo dalle parti che, invece, nella norma in esame, è imposto dall’esterno, appunto etero-organizzato.

33. Tali differenze illustrano un regime di autonomia ben diverso, significativamente ridotto nella fattispecie del D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2: integro nella fase genetica dell’accordo (per la rilevata facoltà del lavoratore ad obbligarsi o meno alla prestazione), ma non nella fase funzionale, di esecuzione del rapporto, relativamente alle modalità di prestazione, determinate in modo sostanziale da una piattaforma multimediale e da un applicativo per smartphone.

34. Ciò posto, se è vero che la congiunzione “anche” potrebbe alludere alla necessità che l’etero-organizzazione coinvolga tempi e modi della prestazione, non ritiene tuttavia la Corte che dalla presenza nel testo di tale congiunzione si debba far discendere tale inevitabile conseguenza.

35. Il riferimento ai tempi e al luogo di lavoro esprime solo una possibile estrinsecazione del potere di etero-organizzazione, con la parola “anche” che assume valore esemplificativo. In tal senso sembra deporre la successiva soppressione dell’inciso ad opera della novella cui si è fatto più volte cenno. Del resto è stato condivisibilmente rilevato che le modalità spazio-temporali di svolgimento della prestazione lavorativa sono, nell’attualità della rivoluzione informatica, sempre meno significative anche al fine di rappresentare un reale fattore discretivo tra l’area della autonomia e quella della subordinazione.

36. Parimenti si deve ritenere che possa essere ravvisata etero-organizzazione rilevante ai fini dell’applicazione della disciplina della subordinazione anche quando il committente si limiti a determinare unilateralmente il quando e il dove della prestazione personale e continuativa.

37. Il motivo in esame non critica dunque efficacemente le pertinenti statuizioni della sentenza impugnata.

38. Detto questo, non ritiene la Corte che sia necessario inquadrare la fattispecie litigiosa, come invece ha fatto la Corte di appello di Torino, in un tertium genus, intermedio tra autonomia e subordinazione, con la conseguente esigenza di selezionare la disciplina applicabile.

39. Più semplicemente, al verificarsi delle caratteristiche delle collaborazioni individuate dal D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2, comma 1, la legge ricollega imperativamente l’applicazione della disciplina della subordinazione. Si tratta, come detto, di una norma di disciplina, che non crea una nuova fattispecie.

40. Del resto, la norma non contiene alcun criterio idoneo a selezionare la disciplina applicabile, che non potrebbe essere affidata ex post alla variabile interpretazione dei singoli giudici. In passato, quando il legislatore ha voluto assimilare o equiparare situazioni diverse al lavoro subordinato, ha precisato quali parti della disciplina della subordinazione dovevano trovare applicazione. In effetti, la tecnica dell’assimilazione o dell’equiparazione è stata più volte utilizzata dal legislatore, ad esempio con il R.D. n. 1955 del 1923, art. 2, con la L. n. 370 del 1934, art. 2 e con la L. n. 1204 del 1971, art. 1, comma 1, con cui il legislatore aveva disposto l’applicazione al socio di cooperativa di alcuni istituti dettati per il lavoratore subordinato, nonchè con il D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 2, comma 1 e il D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 2, comma 1, lett. a), in tema di estensione delle norme a tutela della salute e della sicurezza, e con il D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 64, come successivamente modificato, che ha disposto l’applicazione alle lavoratrici iscritte alla Gestione Separata dell’INPS alcune tutele previste per le lavoratrici subordinate.

41. Non possono escludersi situazioni in cui l’applicazione integrale della disciplina della subordinazione sia ontologicamente incompatibile con le fattispecie da regolare, che per definizione non sono comprese nell’ambito dell’art. 2094 c.c., ma si tratta di questione non rilevante nel caso sottoposto all’esame di questa Corte.

42. All’opposto non può neanche escludersi che, a fronte di specifica domanda della parte interessata fondata sul parametro normativo dell’art. 2094 c.c., il giudice accerti in concreto la sussistenza di una vera e propria subordinazione (nella specie esclusa da entrambi i gradi di merito con statuizione non impugnata dai lavoratori), rispetto alla quale non si porrebbe neanche un problema di disciplina incompatibile; è noto quanto le controversie qualificatorie siano influenzate in modo decisivo dalle modalità effettive di svolgimento del rapporto, da come le stesse siano introdotte in giudizio, dai risultati dell’istruttoria espletata, dall’apprezzamento di talemateriale effettuato dai giudici del merito, dal convincimento ingenerato in questi circa la sufficienza degli elementi sintomatici riscontrati, tali da ritenere provata la subordinazione; il tutto con esiti talvolta difformi anche rispetto a prestazioni lavorative tipologicamente assimilabili, senza che su tali accertamenti di fatto possa estendersi il sindacato di legittimità.

43. Del resto la norma in scrutinio non vuole, e non potrebbe neanche, introdurre alcuna limitazione rispetto al potere del giudice di qualificare la fattispecie riguardo all’effettivo tipo contrattuale che emerge dalla concreta attuazione della relazione negoziale, e, pertanto, non viene meno la possibilità per lo stesso di accertare l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, secondo i criteri elaborati dalla giurisprudenza in materia, trattandosi di un potere costituzionalmente necessario, alla luce della regola di effettività della tutela (cfr. Corte Cost. n. 115 del 1994) e funzionale, peraltro, a finalità di contrasto all’uso abusivo di schermi contrattuali perseguite dal legislatore anche con la disposizione esaminata (analogamente v. Cass. n. 2884 del 2012, sul D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 86, comma 2, in tema di associazione in partecipazione).

44. Il secondo ed il terzo motivo possono essere esaminati congiuntamente, stante la loro stretta connessione.

45. Con il secondo motivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la ricorrente deduce la violazione e/o la falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c. e art. 118 disp. att. c.p.c., in correlazione con l’art. 111 Cost.. La motivazione sarebbe caratterizzata da un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili. La sentenza sarebbe giunta alla sussunzione della fattispecie concreta nell’art. 2, dopo aver descritto le modalità di espletamento della prestazione da parte degli appellanti in termini tali (libertà di dare la disponibilità ai turni, libertà di non presentarsi all’inizio del turno senza previa comunicazione e senza sanzione) da escludere alla radice l’etero-organizzazione, come poi delineata e assunta a base della sussunzione.

46. Con il terzo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la ricorrente deduce la violazione e/o la falsa applicazione del D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2, in relazione al requisito della etero-organizzazione. L’errore che nel secondo motivo si rifletterebbe sulla motivazione è qui denunciato direttamente come di errore di sussunzione e dunque come violazione di legge.

47. In realtà con il secondo motivo, pur se esso viene presentato come error in judicando, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, si deduce un vizio di nullità della sentenza, rilevante ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 (cfr. Cass., SU, n. 8053 del 2014), dolendosi la ricorrente di un contrasto irriducibile tra affermazioni della sentenza impugnata che sarebbero tra loro inconciliabili, in particolare in relazione a due dati funzionali all’accertamento della etero-determinazione dei tempi e dei luoghi di lavoro dalla sentenza ritenuti decisivi, cioè, da una parte il “fattore tempo”, in particolare con riguardo alla circostanza che, secondo la Corte di appello “Gli appellanti… lavoravano sulla base di una “turnistica” stabilita dall’appellata” e, d’altra parte, al fattore “luogo della prestazione”, giacchè la stessa sentenza riconosce che i lavoratori dovevano recarsi all’orario di inizio del turno in una delle tre zone di partenza definite ((OMISSIS)).

48. Sotto il primo profilo si fa valere che la stessa sentenza impugnata aveva riconosciuto che, pur trattandosi di fasce orarie predeterminate dalla società, questa non aveva il potere di imporre ai lavoratori di lavorare nei turni in questione o di non revocare la disponibilità data, oltre al fatto che si ammette nella sentenza della Corte territoriale che i lavoratori erano liberi di dare la propria disponibilità per i vari turni offerti dall’azienda, e che la stessa Corte aveva pure accertato l’insussistenza di un potere gerarchico disciplinare da parte della società nei confronti degli appellanti, giacchè quest’ultima non aveva mai adottato sanzioni disciplinari a danno dei lavoratori anche se questi dopo aver dato la loro disponibilità la revocavano (funzione swap) o non si presentavano a rendere la prestazione (no show).

49. Sotto il secondo profilo, la ricorrente fa valere che la possibilità per il lavoratore di recarsi in una qualsiasi delle tre piazze indicate evidenziava che la scelta del luogo non era imposta dalla società.

50. Come si è notato, gli stessi elementi vengono valorizzati come vizio di sussunzione nella fattispecie disciplinata dal D.Lgs. n. 81, art. 2, comma 1, come interpretato dalla Corte di appello, e quindi come violazione di legge.

51. A parere della Corte le critiche mosse con le due doglianze in esame non valgono a censurare efficacemente la sentenza impugnata, che ha individuato l’organizzazione impressa ai tempi e al luogo di lavoro come significativa di una specificazione ulteriore dell’obbligo di coordinamento delle prestazioni, con l’imposizione di vincoli spaziali e temporali emergenti dalla ricostruzione del regolamento contrattuale e delle modalità di esecuzione delle prestazioni. In particolare, sotto il primo profilo, valorizzando l’impegno del lavoratore, una volta candidatosi per la corsa, ad effettuare la consegna tassativamente entro 30 minuti dall’orario indicato per il ritiro del cibo, sotto comminatoria di una penale. Sotto il secondo profilo, dando peso alle modalità di esecuzione della prestazione, in particolare:

– all’obbligo per ciascun rider di recarsi all’orario di inizio del turno in una delle zone di partenza predefinite e di attivare l’applicativo (OMISSIS), inserendo le credenziali e avviando la geolocalizzazione;

– all’obbligo, ricevuta sulla applicazione la notifica dell’ordine con indicazione dell’indirizzo del ristorante, di recarsi ivi con la propria bicicletta, prendere in consegna i prodotti, controllarne la corrispondenza con l’ordine e comunicare tramite apposito comando della applicazione il buon esito

dell’operazione;

– all’obbligo di consegna del cibo al cliente, del cui indirizzo il rider ha ricevuto comunicazione sempre tramite l’applicazione, e di conferma della regolare consegna.

52. Gli elementi posti in rilievo dalla ricorrente, se confermano l’autonomia del lavoratore nella fase genetica del rapporto, per la rilevata mera facoltà dello stesso ad obbligarsi alla prestazione, non valgono a revocare in dubbio il requisito della etero-organizzazione nella fase funzionale di esecuzione del rapporto, determinante per la sua riconduzione alla fattispecie astratta di cui al D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2, comma 1.

53. Come si osservava, se l’elemento del coordinamento dell’attività del collaboratore con l’organizzazione dell’impresa è comune a tutte le collaborazioni coordinate e continuative, secondo la dizione dell’art. 409 c.p.c., comma 3, nel testo risultante dalla modifica di cui alla L. n. 81 del 2017, art. 15, comma 1, lett. a), nelle collaborazioni non attratte nella disciplina del D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2, comma 1, le modalità di coordinamento sono stabilite di comune accordo tra le parti, mentre nel caso preso in considerazione da quest’ultima disposizione tali modalità sono imposte dal committente, il che integra per l’appunto la etero-organizzazione che dà luogo all’applicazione della disciplina del lavoro subordinato.

54. La Corte territoriale ha individuato gli aspetti logistici e temporali dell’etero-organizzazione, facendo leva sulla dimensione funzionale del rapporto, e dandone conto con una motivazione coerente, esente dal “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” denunciato dalla ricorrente.

55. Non sussistono dunque nè il vizio di motivazione inferiore al “minimo costituzionale” (Cass., SU, n. 8053 del 2014, cit.) nè quello di sussunzione risolventesi in violazione di legge.

56. A conclusione della disamina dei primi tre motivi di ricorso deve osservarsi che, pur non avendo questo Collegio condiviso l’opinione della Corte territoriale quanto alla riconduzione dell’ipotesi prevista dal D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2, comma 1, a un tertium genus, intermedio tra la subordinazione ed il lavoro autonomo, e alla necessità di selezionare le norme sulla subordinazione da applicare, il dispositivo della sentenza impugnata deve considerarsi, per quanto detto, conforme a diritto, per cui la stessa sentenza non è soggetta a cassazione e la sua motivazione deve intendersi corretta in conformità alla presente decisione, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c., come richiesto dall’Ufficio del Procuratore Generale.

57. Non vi sono censure relative alle altre condizioni richieste per l’applicabilità del D.Lgs. n. 81

del 2015, art. 2, comma 1, cioè il carattere esclusivamente personale della prestazione e il suo svolgimento in maniera continuativa nel tempo.

58. A conclusione del ricorso, la ricorrente prospetta poi, come quarto motivo, una questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, in discorso se interpretato come norma di fattispecie, come norma cioè idonea a produrre effetti giuridici e a dar vita a un terzo genere di rapporto lavorativo, a metà tra la subordinazione e la collaborazione coordinata e continuativa. Sotto un primo profilo la ricorrente osserva che la delega contenuta nella L. n. 183 del 2014, avrebbe autorizzato il legislatore delegato a riordinare le tipologie contrattuali esistenti, ma non a crearne di nuove. Se interpretato nei termini tracciati dalla Corte d’appello di Torino, l’art. 2, si porrebbe dunque in contrasto con l’art. 76 Cost., in quanto esso violerebbe i limiti posti dal legislatore delegante. Inoltre, sotto un secondo profilo, tale lettura renderebbe l’art. 2, irragionevole e dunque in contrasto con l’art. 3

Cost., equiparando l’riders ai fattorini contemplati dalla contrattazione collettiva, a prescindere dalla effettiva equiparabilità delle mansioni svolte.

59. Sotto il primo profilo, la questione sollevata non ha più ragione di essere, avendo questa Corte ritenuto il D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2, comma 1, norma di disciplina e non norma di fattispecie, dovendosi escludere che essa abbia dato vita ad un tertium genus, intermedio tra la subordinazione ed il lavoro autonomo, per cui non può parlarsi di eccesso di delega, ben potendo inquadrarsi la norma in discorso nel complessivo riordino e riassetto normativo delle tipologie contrattuali esistenti voluto dal legislatore delegante.

60. Sotto il secondo aspetto, il Collegio non ravvisa alcun profilo di irragionevolezza nella scelta del legislatore delegato di equiparare, quanto alla disciplina applicabile, i soggetti di cui al D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2, comma 1, ai lavoratori subordinati, nell’ottica della tutela di una posizione lavorativa più debole, per l’evidente asimmetria tra committente e lavoratore, con esigenza di un regime di tutela più forte, in funzione equilibratrice.

61. Le questioni di costituzionalità sollevate devono dunque ritenersi manifestamente infondate.

62. Alla luce delle considerazioni che precedono, il ricorso è quindi complessivamente da rigettare.

63. L’assoluta novità della questione giustifica la compensazione delle spese del giudizio di legittimità, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., comma 2, come modificato dal D.L. n. 132 del 2014, art. 13, comma 1, convertito, con modificazioni, nella L. n. 162 del 2014.

64. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della società ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di legittimità. Ai sensi del D.P.R. n. 115

del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 14 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 24 gennaio 2020

Incarico a dirigente privo di laurea – paga il sindaco.

Conferimento di incarico dirigenziale a funzionario privo di laurea – paga il sindaco.

La Corte dei Conti all’udienza del 19.9.2019 condanna il sindaco di un comune al pagamento della differenza di quanto erogato al funzionario in ragione dell’incarico dirigenziale e quanto sarebbe stato erogato riconoscendo una posizione organizzativa ad un dipendente di categoria D.

La Corte in merito all’eccezione di prescrizione, fa presente che la prescrizione quinquennale decorre dai singoli pagamenti dannosi effettuati dall’ente.

Essa conferma inoltre la responsabilità del sindaco e non quella degli organi di collaborazione ivi compreso il segretario comunale che aveva inoltre rilevato l’illegittimità della decisione prima che la stessa fosse stata assunta.

REPUBBLICA ITALIANA N° 182/2019 IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE DEI CONTI SEZIONE GIURISDIZIONALE REGIONALE per il VENETO Composta dai magistrati Dott.ssa Marta TONOLO Presidente F.F. dott. Maurizio MASSA Giudice dott.ssa Daniela ALBERGHINI Giudice relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA Nel giudizio di responsabilità iscritto al n. 30799 del registro di segreteria, promosso dal Procuratore Regionale nei confronti di: XXXXX, nato a XXXXX, il XXXXX, residente a XXXX, Via XXXX, rappresentato e difeso dagli avv.ti XXXXX e XXXX del Foro di XXX, elettivamente domiciliato presso lo studio dell’Avv. XXXX in XXXX; Sentiti all’udienza pubblica del 19 settembre 2019 il relatore dott.ssa Daniela Alberghini, il Pubblico Ministero nella persona del Vice Procuratore dott. Giancarlo Di Maio, l’Avv. XXXX per il convenuto, come da verbale d’udienza.

SVOLGIMENTO DEL GIUDIZIO La Procura regionale ha convenuto innanzi a questa Sezione Giurisdizionale Regionale il sig. XXXXX per aver, in qualità di Sindaco pro tempore del Comune di XXXX, adottato, ai sensi dell’art. 110 TUEL, il decreto n. 11 del 18 giugno 2013, con il quale ha conferito incarico dirigenziale, con responsabilità dell’Area Seconda “Servizi economici e finanziari”, ad un funzionario, il XXXXXX, privo del necessario diploma di laurea.

Nel sistema degli enti locali è prevista la possibilità di conferimento di incarichi dirigenziali a tempo determinato ai sensi dell’art. 110 del TUEL, disposizione che fa salva, però, la necessità che sussistano i requisiti di accesso previsti in relazione alla qualifica da ricoprire. A tal proposito, l’art. 19 del D.lgs. 165/2001 -così come modificato dall’art. 40 comma 1 del D.Lgs. 150/09 che ne ha esteso l’applicazione a tutte le amministrazioni di cui all’art.1, comma 2-, avente ad oggetto l’attribuzione degli incarichi dirigenziali a tempo determinato, fa riferimento alla formazione universitaria e post universitaria ai fini della verifica della particolare qualificazione professionale. Anche l’art. 28 del medesimo decreto legislativo prevede il possesso di titolo di studio pari alla laurea per l’accesso alle qualifiche dirigenziali a tempo indeterminato.

L’attribuzione di detto incarico, decorrente dal 11 giugno 2013 e cessato con il termine del mandato del Sindaco nel maggio 2018, non può, quindi, secondo la Procura, considerarsi legittima e ha comportato il riconoscimento al predetto funzionario di un trattamento economico superiore a quello che gli sarebbe spettato se la responsabilità della medesima Area gli fosse stata attribuita attraverso il riconoscimento di una c.d. posizione organizzativa: il relativo differenziale è, dunque, la misura del danno arrecato al Comune di XXXX, pari ad euro 78.120.

Sotto il profilo soggettivo il comportamento del convenuto è connotato da colpa grave, risultando agli atti una comunicazione del Segretario comunale dell’epoca, d.ssa XXXXX, indirizzata al Sindaco con protocollo riservato e a mezzo pec in data 21 giugno 2013, con la quale sono stati posti in evidenza i profili di illegittimità dell’incarico, peraltro sottoposti al medesimo Sindaco anche oralmente, come confermato dalla medesima Segretario in sede di audizione. L’odierno convenuto, successivamente alla notifica dell’invito a dedurre, ha fatto pervenire alla Procura articolate controdeduzioni, con le quali, da un lato, ha ritenuto sussistere la c.d. esimente politica al fine di escludere la configurabilità del danno e, dall’altro, ne ha in ogni caso contestato i presupposti, sia oggettivo (in quanto l’attribuzione dell’incarico a un funzionario già in servizio costituirebbe un risparmio di spesa rispetto al conferimento di incarico ad un dirigente esterno) che soggettivo (non potendosi configurare neppure la colpa grave, trattandosi di atto esecutivo di un previo atto generale di pianificazione in materia di personale adottato dalla Giunta comunale, la delibera n. 20 del 2013, e comunque interamente predisposto dalla stessa Segretario comunale in assenza di alcun rilievo od eccezione). La Procura ha ritenuto che tali controdeduzioni non superassero l’impianto delle contestazioni formulate, dal momento che la mancanza del titolo professionale di accesso alla qualifica determina uno squilibrio sinallagmatico che, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, anche in funzione consultiva di controllo, è causativo di danno, la cui responsabilità è da attribuirsi, in quanto esclusivo titolare del relativo potere di conferimento dell’incarico, al Sindaco, la cui condotta, pertanto, viene a configurarsi come violazione degli obblighi di servizio caratterizzata da colpa grave perché in contrasto con disposizioni chiare, confermate da pareri e giurisprudenza, che delineano un quadro chiaro e consolidato, apparendo inverosimile che tale quadro non fosse noto.

Non pertinente è apparso, poi, alla Procura l’argomento dell’esimente politica di cui all’art. 1, comma 1 ter della legge 20/94, che disciplina la diversa fattispecie astratta degli atti che rientrano nella competenza di uffici tecnici od amministrativi approvati, autorizzati o eseguiti in buona fede da titolari di organi politici. Non utili ad escludere la responsabilità, poi, sarebbero i richiami alla buona fede dell’odierno convenuto in riferimento alla complessità e tecnicità della materia, nonché l’esistenza di precedenti analoghi incarichi conferiti allo stesso soggetto.

Il convenuto si è costituito in giudizio in data 30.7.2019, formulando preliminarmente eccezione di intervenuta prescrizione. Il dies a quo della prescrizione corrisponde, in materia di responsabilità amministrativo-contabile, alla data in cui si è verificato l’evento dannoso che nel caso di cui si tratta deve identificarsi nell’adozione del provvedimento di conferimento dell’incarico, datato 18 giugno 2013. Il primo atto interruttivo, la notifica dell’invito a dedurre, è avvenuta in data 26.9.2018, successivamente, cioè, alla perenzione del termine quinquennale. Nel merito, il convenuto ha ricordato che il decreto attributivo dell’incarico di giugno 2013 era solo l’ultimo di una lunga serie, che fondava le proprie ragioni in scelte di economicità-efficienza correlate alla peculiare situazione dell’organico del Comune di XXXXXX – in cui una serie di cessazioni dal servizio avevano lasciato vacanti settori di rilievo- e ai vincoli assunzionali e di spesa del personale che aveva imposto alla Giunta Comunale, in sede di ricognizione del fabbisogno del personale (del. 90/2013), di scegliere tra la spesa per un dirigente esterno (che avrebbe coperto la quasi totalità delle risorse disponibili) e la destinazione delle risorse per l’assunzione di 9 unità di personale, con assegnazione di incarico dirigenziale a personale interno. L’adozione del provvedimento di incarico sarebbe stato, quindi, l’atto attuativo di una scelta politica effettuata dalla Giunta in assenza di indicazioni contrarie da parte del Segretario comunale e degli uffici: l’individuazione del funzionario da incaricare, poi, sarebbe stata obbligata in relazione alla indisponibilità a ricoprire il ruolo manifestata dagli altri funzionari di cat. D, questi ultimi in possesso del necessario titolo di studio. Non sussisterebbe, quindi, alcun danno patrimoniale per l’ente, in quanto nessuna delle altre opzioni a disposizione dell’Ente avrebbe comportato un risparmio di spesa, nè sussiste alcun danno all’immagine, stante l’acclarata professionalità con cui il funzionario ha eseguito l’incarico. Difetterebbe, peraltro, anche l’elemento soggettivo della colpa grave, alla luce dell’obiettiva complessità del quadro normativo di riferimento, caratterizzato da rinvii tra disposizioni e continui mutamenti, a fronte della quale è venuta meno una seria collaborazione da parte degli uffici tecnici.

Conclusivamente il convenuto ha osservato che l’atto dal quale viene fatto discendere il danno contestato non è stato di iniziativa del Sindaco, trattandosi di atto attuativo di una previa scelta della Giunta: la soggettiva imputabilità dell’atto sotto il profilo sostanziale deve essere individuata, quindi, in relazione agli apporti concretamente in esso convergenti. Diversamente considerando, la responsabilità dedotta finirebbe per connotarsi come meramente oggettiva. Nel caso in esame la responsabilità è da imputare al comportamento del Segretario comunale che non solo ha materialmente predisposto l’atto senza peraltro formulare alcun rilievo, ma che non ha neppure informato il Sindaco, né informalmente né formalmente con la nota del 21.6.2013 citata dalla Procura regionale –mai pervenuta né brevi manu né tramite pec-, di eventuali illegittimità dell’incarico, venendo meno al proprio ruolo di garanzia. Nessuna responsabilità, quindi, potrebbe essere ascritta al convenuto. In via del tutto subordinata il convenuto ha contestato il criterio di quantificazione del danno, visto che il posto dirigenziale doveva essere coperto e, in assenza di funzionari aventi i requisiti professionali, il ricorso ad un esterno avrebbe comportato una maggiore spesa. In ogni caso, il danno deve essere ripartito tra tutti i soggetti che hanno partecipato alla procedura di individuazione del modello organizzativo che ha portato al conferimento dell’incarico al rag. XXXX, ferma restando la richiesta di applicazione del potere riduttivo. In via istruttoria il convenuto ha chiesto, infine, l’ammissione di prova per testi.

All’odierna udienza il Pubblico Ministero ha preso posizione in merito all’eccezione di prescrizione sollevata dal convenuto, evidenziandone l’infondatezza: l’evento dannoso va individuato nei singoli pagamenti, dai quali inizia a decorrere il termine, circostanza di cui la stessa Procura ha tenuto conto nella quantificazione del danno contestato. Nel merito delle difese del convenuto, la Procura, riportandosi agli atti, ha sottolineato che non vi è contestazione in merito alla normativa applicabile in materia di incarichi, trattandosi di questione ben delineata a chiara fin dai primi anni 2000. Il convenuto, quindi, non solo avrebbe dovuto conoscere le norme applicabili, tanto più che disciplinavano una attribuzione propria, ma non si trovava, quanto a scelta del dipendente, neppure in una situazione necessitata dal momento che esistevano nell’organico dell’ente altre professionalità a cui attribuire l’incarico. Né, ha proseguito la Procura, la responsabilità del convenuto può essere esclusa o anche solo diminuita per il fatto che vi darebbe stata una previa delibera di Giunta adottata senza interlocuzione del Segretario, che funge da mero verbalizzante. L’Avv. Gianesin nell’interesse del convenuto si è riportata agli atti, insistendo in particolare sull’eccezione di prescrizione, richiamando i pronunciamenti in materia delle Sezioni Riunte di questa Corte del 2003 e del 2007 e sottolineando come, contrariamente a quanto sostenuto dalla Procura, il ruolo del Segretario comunale sia stato determinante nel convincere il convenuto della legittimità del proprio operato, avendo la d.ssa XXXX avallato l’attribuzione al medesimo dipendente dello stesso incarico negli anni precedenti. All’esito della discussione la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO In via preliminare deve essere esaminata l’eccezione di prescrizione formulata dal convenuto. Secondo il convenuto, decorrendo la prescrizione ex art. 1, comma 2 della L. 20/94 dal giorno in cui si è verificato l’evento dannoso, nel caso di specie il dies a quo non potrebbe che essere identificato, seguendo la ricostruzione della Procura, nel giorno di adozione del decreto sindacale n. 11 del 18.6.2013. Il primo ed unico atto interruttivo intervenuto è l’invito a dedurre, notificato il 26 settembre 2018, a termine ormai perento. Osserva il Collegio che “secondo la consolidata giurisprudenza della Corte dei conti, l’espressione “verificazione” del fatto dannoso, dal quale decorre in via generale il termine di prescrizione quinquennale previsto dall’art. 1, comma 2, L. 20/1994, comprende non soltanto la condotta illecita ma anche l’effetto lesivo che ne deriva, potendo i due eventi coincidere ma, talvolta, anche essere distanziati nel tempo, e in questa ultima ipotesi ciò che rileva è la seconda componente (l’effetto lesivo della condotta)” (Sez. Giurisd. Lazio, n. 258/2019). In caso di illecita percezione di somme la giurisprudenza di questa Corte è, poi, altrettanto costante nel ritenere che la fattispecie si completa con l’avverarsi della sequenza condotta-evento dannoso che, nel caso di specie, si perfeziona con il pagamento delle retribuzioni connesse all’incarico dirigenziale, momento nel quale si realizza il depauperamento dell’erario (recentemente, Sez. Puglia, n.227/2018: “Va rammentato che, secondo i principi generali della materia, la responsabilità amministrativa si fonda – come è noto – su un fatto dannoso, composto dal binomio condotta-evento, perciò le relative fattispecie vanno costruite sulla base di detto binomio. Detto in altri termini, dette fattispecie si perfezionano solo dopo l’avverarsi della sequenza condotta-evento dannoso; l’evento di danno è elemento costitutivo della fattispecie lesiva e, pertanto, nell’ipotesi di danno per erogazione di una somma di denaro la fattispecie si completa con il pagamento, momento nel quale di realizza il depauperamento dell’erario e da cui comincia a decorrere la prescrizione.”). Sulla scorta di tali consolidati principi, quindi, nel caso in esame risultano prescritte solo le somme il cui pagamento è avvenuto prima del quinquennio anteriore rispetto alla notificazione, in data 26 settembre 2018, dell’invito a dedurre e, quindi, prima del mese di ottobre 2013. La domanda avanzata dalla Procura regionale, tuttavia, ha tenuto conto della prescrizione maturatasi, essendo stato quantificato il danno espressamente con riferimento alle somme versate dal Comune di XXXXX dall’ottobre 2013 al maggio 2018 al rag. XXXX in dipendenza dell’incarico dirigenziale da questo ricevuto ed eseguito. L’eccezione di prescrizione, pertanto, non è fondata e va respinta.

Nel merito, la domanda è fondata. Oggetto del presente giudizio è la responsabilità risarcitoria del convenuto, all’epoca Sindaco pro tempore del Comune di XXXXXXX, per l’illegittimo conferimento di incarico dirigenziale intra dotazione organica, a tempo determinato, ad un dipendente dell’ente poiché sprovvisto dell’imprescindibile requisito del diploma di laurea, così come previsto dalla disciplina di rango primario vigente all’atto del conferimento dell’incarico medesimo, nel giugno 2013. Secondo la prospettazione della Procura Regionale, il possesso del titolo di studio della laurea, non solo era un requisito obbligatoriamente richiesto, ma emergeva in modo chiaro e puntuale dal complesso delle disposizioni normative regolanti la materia, circostanza che di per sé impediva il venir meno della gravità delle colpa. A tale conclusione la Procura è pervenuta in considerazione degli artt. 110 del D.lgs. 267/2000, che prevede che la copertura dei posti di qualifica dirigenziale possa avvenire mediante contratto a tempo determinato “fermi restando i requisiti richiesti dalla qualifica da ricoprire”, dell’art. 19 del D.Lgs.165/2001 -divenuto applicabile a tutte le amministrazioni di cui all’art.1, comma 2, del D.lgs. 165/2001 in forza dell’art. 40, comma 1 lett. f) del D.lgs. 150/09-, che disciplina il conferimento di incarichi dirigenziali a tempo determinato e fa riferimento alla “particolare specificazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e postuniversitaria”, e infine dell’art. 28 del D.Lgs. 165/2001 che, benchè riferito alle nomine in ruolo dei dirigenti per le quali, appunto, è richiesto il diploma di laurea, è da considerarsi norma di generale applicazione, anche per ragioni di logica e coerenza del sistema. Si tratterebbe di un quadro normativo chiaro, privo di insidie sul piano ermeneutico, anche alla luce della concorde e costante giurisprudenza amministrativa da un lato e, dall’altro, della stessa Corte dei Conti, più volte intervenuta nella materia de qua anche in sede di controllo di legittimità (Sez. Centr. Contr. Leg. N. 31/2001, n. 3/2003) che in sede consultiva di controllo (a partire dalla Sez. Contr. Lombardia n.31/01) e ribadita anche dal Dipartimento della Funzione Pubblica fin dal 2008 (parere n. 35/08). La difesa del convenuto non ha formulato contestazioni circa le norme applicabili, al momento dell’adozione del decreto sindacale n. 11 del 18 giugno 2013, al conferimento di incarichi dirigenziali ai sensi dell’art. 110 del TUEL -e, quindi, in relazione alla necessità del possesso del requisito della laurea-, tuttavia ha rappresentato che tale quadro normativo, in ogni caso farraginoso e di non semplice ricostruzione a causa della tecnica normativa del rinvio mobile, solo a partire dalla riforma del 2009 non poneva dubbi interpretativi circa i requisiti professionali e di studio necessari per il conferimento di incarichi dirigenziali. In precedenza, infatti, la formulazione letterale dell’art. 19, comma 6, del D.lgs. 165/2001, elencando i requisiti possesso di laurea/esperienza in maniera disgiuntiva, consentiva di ritenere legittimo il conferimento di incarico anche a soggetti non in possesso del titolo di studio, ma in possesso di concreta esperienza di lavoro maturata presso pubbliche amministrazioni; solo dopo il d.lgs. 150/2009, il testo della disposizione è stato mutato in modo tale da non lasciare spazio a soluzioni ermeneutiche diverse circa la necessaria compresenza di entrambi i requisiti. Osserva il Collegio che l’adozione da parte dell’odierno convenuto, all’epoca dei fatti Sindaco pro tempore del Comune di XXXX, del decreto n. 11 del 18 giugno 2013 integra una condotta antigiuridica, essendo condivisibile la ricostruzione del quadro normativo applicabile alla fattispecie dedotta dalla Procura Regionale e, nella sostanza, condivisa anche dalla difesa del convenuto. Come già ricordato, in materia di conferimento di incarichi dirigenziali a tempo determinato negli enti locali, la normativa di settore (d.lgs 267/2000), nell’individuarne la disciplina (art. 110), ha rinviato, quanto a requisiti e presupposti, alla generale disciplina del pubblico impiego (D.lgs 29/1993 prima e, poi, D.lgs 165/2001) e, quindi, all’art. 19 del D.lgs 165/2001 (la cui applicazione agli enti locali è stata espressamente prevista dal D.lgs 150/2009, benchè in giurisprudenza, anche di questa Corte, non si fosse mancato di sottolinearne, anche in precedenza, l’estensibilità oltre l’impiego statale in quanto rappresentativa di principio generale) che, al comma 6, stabilisce i requisiti per il conferimento di incarichi dirigenziali a tempo determinato, prevedendo la concorrenza del requisito culturale della formazione universitaria con il requisito professionale dell’esperienza quinquennale in posizioni funzionali previste per l’accesso alla dirigenza. Osserva a tal proposito il Collegio che tale ultima disposizione, nel testo in vigore all’epoca dei fatti (2013) e, cioè, successivamente alle modifiche apportate dall’art. 40 del D.lgs n. 150/2009, aveva una formulazione letterale che non poteva (e non può) lasciare adito a dubbio ermeneutico alcuno in relazione al necessario possesso del titolo di studio della laurea: la “particolare specializzazione professionale” che è requisito per l’attribuzione dell’incarico, infatti, deve essere comprovata “dalla formazione universitaria e postuniversitaria, post universitaria, da pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di lavoro…”. Requisito culturale e di esperienza lavorativa dunque, non possono in alcun modo essere ritenuti, anche solo sulla base della littera legis, alternativi tra loro, ma debbono, coerentemente con la ratio legis, sussistere congiuntamente. Come osservato, infatti, già prima dell’intervento del legislatore del 2009 dalla Sezione del controllo di legittimità su atti del Governo di questa Corte con la delibera n. 3/2003 del 9 gennaio 2003, “il criterio secondo il quale il legislatore ha inteso disciplinare l’immissione nell’esercizio di funzioni dirigenziali di soggetti, quali essi siano, in precedenza già non investiti di tale qualifica, risulta evidentemente informato alla volontà di acquisire professionalità estranee, tali da presentare qualità aggiuntive e comunque non minori rispetto ai già elevati requisiti previsti per le nomine di funzionari appartenenti ai ruoli dirigenziali. Tanto premesso, consegue da ciò attraverso una lettura sistematica dell’art. 19, c. 6°, che la facoltà da tale norma prevista richiede, nei suoi destinatari, il concorrente possesso di una particolare specializzazione, sia professionale, che culturale e scientifica; quando si passi all’accertamento di tali requisiti, in relazione alle funzioni da attribuire, l’interprete, dal canto suo, non può sottrarsi alla verifica, sotto ogni profilo, della presenza di tutti gli elementi che complessivamente rendono il soggetto idoneo all’incarico. Ne discende che, ferma rimanendo l’esigenza dell’accertamento di un livello di formazione culturale identificabile nel possesso della laurea, gli elementi che configurano e completano in estranei il profilo della professionalità debbano, insieme ad altri, ricavarsi dal già disimpegnato esercizio di funzioni almeno di pari rilevanza di quelle previste nel nuovo compito. Quindi, oltre all’accertato possesso di sufficiente formazione culturale, in un contesto normativo in cui è però prevista l’attribuzione di incarichi dirigenziali previa verifica della sussistenza di livelli di formazione particolarmente elevati, occorre che la valutazione venga estesa ad un puntuale esame dei curricula degli incaricandi”. L’aver conferito, da parte del convenuto, un incarico dirigenziale a soggetto non in possesso di diploma di laurea costituisce una violazione delle predette disposizioni, integrando l’elemento oggettivo della responsabilità amministrativa. In relazione all’elemento soggettivo, ritiene il Collegio che la condotta del convenuto sia connotata, come prospettato dalla Procura regionale, da colpa grave. Contrariamente, infatti, a quanto sostenuto dalla difesa del convenuto, il decreto di conferimento dell’incarico è, formalmente e sostanzialmente, atto proprio del Sindaco, adottato nell’ambito di funzioni ad esso attribuite in via esclusiva dal TUEL e dal Regolamento comunale di organizzazione degli uffici e dei servizi del Comune di XXXX (art. 50, comma 10, TUEL: “Il sindaco e il presidente della provincia nominano i responsabili degli uffici e dei servizi, attribuiscono e definiscono gli incarichi dirigenziali e quelli di collaborazione esterna secondo le modalità ed i criteri stabiliti dagli articoli 109 e 110, nonché dai rispettivi statuti e regolamenti comunali e provincia”; Art. 109 TUEL: (Conferimento di funzioni dirigenziali) “1. Gli incarichi dirigenziali sono conferiti a tempo determinato, ai sensi dell’articolo 50, comma 10, con provvedimento motivato e con le modalità fissate dal regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi, secondo criteri di competenza professionale, in relazione agli obiettivi indicati nel programma amministrativo del sindaco o del presidente della provincia (…)”; art, 12, comma 1., lett.c) del Regolamento secondo cui spetta al Sindaco “l’attribuzione e la definizione degli incarichi dirigenziali ai responsabili di area” e art. 60, comma 1 dello Statuto comunale: “(Incarichi dirigenziali) 1. L’atto del Sindaco di conferimento o revoca degli incarichi dirigenziali è adottato sentita la Giunta e il Direttore Generale, se nominato, o il Segretario Generale.”). La circostanza che, a monte del decreto in questione, la Giunta Comunale, organo al quale compete la programmazione in materia di personale ex art. 48, comma 2, TUEL, avesse deciso -appunto all’interno di un atto programmatorio a valenza generale quale il Piano occupazionale: D.G.C. n. 90 del 2013, cfr. doc.16 allegato all’atto di citazione- la “copertura del posto di qualifica dirigenziale dell’Area II “servizi economico finanziari e tributari” mediante contratto a tempo determinato” con incarico ai sensi dell’art. 110 TUEL, anziché ricorrere ad altre opzioni (incarico a tempo determinato a personale esterno, concorso pubblico, attribuzione di posizione organizzativa) non vale ad escludere, neppure parzialmente, la responsabilità del convenuto. Tale decisione, infatti, attiene unicamente alle modalità di copertura del posto, non alla individuazione e alla scelta del soggetto al quale l’incarico avrebbe dovuto essere conferito, queste ultime riferibili unicamente alla volontà del titolare del potere di esercitare la relativa funzione: il sindaco, appunto. Né la circostanza che il personale apicale degli uffici o il segretario comunale fossero tenuti alla predisposizione dell’atto vale ad escludere in capo al sindaco la responsabilità dell’atto stesso, a ripartirla o ad attenuarla: si tratta, infatti, di compito di mera redazione materiale del documento, non di una (com)partecipazione alla formazione della volontà che nel documento si trasfonde dando, appunto, origine all’atto; la scelta del soggetto destinatario dell’incarico (e, quindi, la valutazione della sussistenza della speciale professionalità richiesta dalla norma) è di esclusiva pertinenza del Sindaco. La difesa del ricorrente, poi, attribuisce al Segretario comunale, che con il suo comportamento reticente avrebbe omesso di rappresentare alla Giunta e al Sindaco l’esistenza di profili di illegittimità, l’aver indotto in errore gli organi politici, privando il Sindaco in particolare di “scegliere diversamente da come ha fatto” (pag. 18 comparsa). Anche a prescindere dalla contraddittorietà dell’argomentazione difensiva, avendo lo stesso convenuto in precedenza sostenuto che la scelta del rag. XXX per l’attribuzione dell’incarico dirigenziale “si presentava sostanzialmente come obbligata” (pag. 10 comparsa) essendo quest’ultimo l’unico dipendente di categoria D disponibile ad assumere l’incarico, nell’attuale assetto normativo regolante la figura ed il ruolo del segretario comunale, dopo l’intervento della legge 127/97 (che ha abrogato il parere preventivo obbligatorio di legittimità del segretario sugli atti degli organi collegiali), al segretario sono attribuite funzioni meramente consultive e di assistenza agli organi del comune –la cui ampiezza, peraltro è delimitata dalla introduzione della figura del Direttore generale di coordinamento dell’attività dei dirigenti, ma non certo funzioni di amministrazione attiva. Risulta in atti che il segretario comunale di XXXXX abbia assolto al proprio compito di consulenza/assistenza, avendo rappresentato al Sindaco i profili di illegittimità del decreto di conferimento dell’incarico, sia per le vie brevi prima sia formalmente con PEC nei giorni immediatamente successivi all’adozione: la Procura ha prodotto, infatti, copia della comunicazione scritta che la medesima ha dichiarato di aver consegnato brevi manu al Sindaco e inviato tramite PEC. La difesa del convenuto ha contestato la veridicità della circostanza, peraltro confermata dalla medesima Segretario in sede di audizione (doc. 33 Procura), producendo sub doc. 9 una nota (erroneamente qualificata come dichiarazione) a firma del Vice Segretario generale del Comune di XXXX, dr. XXXX, con la quale lo stesso trasmette al difensore un file di excel (non prodotto in atti) contenente l’elenco degli atti protocollati in arrivo nel periodo 21.6.2013-30.6.2010, evidenziando che con le chiavi di ricerca “sindaco” e XXXX” non si producono risultati. E’ di tutta evidenza che, anche al di là della considerazione per cui il file predetto, in assenza di iniziative processuali di parte convenuta diverse dalla prova testimoniale richiesta –inammissibile sia per l’omessa formulazione di specifici capitoli, ma anche irrilevante per le ragioni che seguiranno-, non avrebbe certo potuto essere acquisito d’ufficio agli atti del giudizio -con la conseguenza che la mera cognizione dell’ esistenza di un file non consente di valutarne il contenuto- e anche a voler superare ogni questione in merito alla natura e alla capacità probatoria di un file in assenza di forme di certificazione circa la sua completezza, autenticità ed effettiva corrispondenza con i dati del server (se il protocollo è elettronico) ovvero dei registri (se il protocollo è cartaceo) del Comune, l’estratto del protocollo generale dell’ente dal quale non risulta l’avvenuta protocollazione di una comunicazione, potrebbe unicamente attestare, appunto, che al protocollo generale non risulta acquisito un documento, ma non può escludere, in assoluto, che tale documento esista o sia stato consegnato al destinatario. E ciò a maggior ragione se si considera che il documento allegato dal Segretario al proprio esposto (doc.1 Procura) porta un numero del protocollo riservato (il n. 89 del 2013: il relativo registro –non prodotto né offerto in produzione- è conservato nell’Ufficio del Segretario, come risulta dalla dichiarazione resa dalla d.ssa XXXX in sede di audizione), circostanza che di certo spiega l’assenza di numero di protocollo generale e che non è stata oggetto di contestazione alcuna da parte della difesa del convenuto. Del resto, la stessa XXXXX ha espressamente confermato in audizione di aver, dapprima, rappresentato verbalmente l’illegittimità dell’atto e di aver, poi, consegnato la nota scritta brevi manu ed infine di averla trasmessa anche tramite PEC. In tale sede, peraltro, la medesima Segretario ha dichiarato anche che nei colloqui intercorsi con il convenuto, quest’ultimo è apparso a conoscenza del fatto che il rag. XXXX non avrebbe potuto rivestire l’incarico dirigenziale per difetto del titolo di studio, tant’è che oggetto di discussione era la possibilità di conferire detto incarico ad altro dipendente comunale in possesso di laurea, il dr. Grassetti, che seguiva le questioni relative alla programmazione di competenza del settore finanziario e di aver appreso dell’incarico solo successivamente al conferimento, essendole stata consegnata una copia del relativo decreto sindacale. A fronte di tali evidenze probatorie, ampiamente circostanziate e non incise dalle produzioni documentali della difesa, non sembra che possa fondatamente ritenersi che via siano state condotte omissive imputabili al Segretario utili a escludere o ridurre la responsabilità del Sindaco. Quanto, poi, al ruolo del Segretario comunale in relazione alla citata delibera della Giunta comunale che ha approvato il piano occupazionale 2013 (che, peraltro, come si è visto, non è causativa di danno alcuno), la mera sottoscrizione degli atti di Giunta e Consiglio comunale quale soggetto verbalizzatore (art. 97, comma 3, TUEL) assolve ad una specifica funzione redazionale e certificativa, propria del Segretario, che non comporta alcuna responsabilità diversa da quella di registrazione dei fatti e delle volontà in conformità a quanto avvenuto nella seduta e, perciò, esterna ed estranea al processo formativo delle volontà espresse dagli organi collegiali a seguito di deliberazione (ed, in ipotesi, causative di danno). Priva di giuridico pregio appare, infine, l’argomentazione difensiva secondo cui il Sindaco, organo politico, non sarebbe per ciò tenuto, nell’esercizio delle sue funzioni e nell’adozione degli atti propri –quelli, cioè, per i quali è titolare di competenza esclusiva quale quello di cui si tratta-, alla conoscenza delle norme, dovendo provvedervi in sua vece gli uffici tecnici, invocando all’uopo la giurisprudenza di questa Corte in punto di esimente politica. “ La disposizione normativa invocata dal ricorrente, infatti, (art. 1, comma 1ter, della L. n. 20/1994), prevedendo che la responsabilità dei componenti di un organo politico viene meno quando essi abbiano in buona fede autorizzato o approvato atti di competenza di organi tecnici o amministrativi, non tutela sempre e comunque, come sembra pretendere l’appellante, il soggetto politico in quanto tale, ma si limita a prevedere la sua irresponsabilità nelle sole ipotesi in cui esso abbia fatto affidamento sull’attività gestoria svolta dai dipendenti amministrativi della quale non abbia potuto apprezzare, per la peculiarità dei relativi contenuti, il carattere potenzialmente lesivo. Come ha invero correttamente osservato la Corte territoriale, la richiamata norma si limita ad attuare il principio di separazione tra politica e gestione amministrativa, più volte affermato dal legislatore (art. 3 d. lgs n. 29/1993, art. 4 d.lgs. n. 165/2001, art. 107 del d. lgs. n. 267/2000) ed in forza del quale i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano agli organi di governo delle amministrazioni pubbliche, mentre la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica è attribuita mediante poteri autonomi ai dirigenti, Ne segue che tale norma non consente di ancorare sic et simpliciter l’irresponsabilità del soggetto politico al particolare ruolo istituzionale che lo diversifica dai dirigenti, dovendosi detta disposizione considerare inoperante quando il soggetto stesso abbia direttamente compiuto, nell’ambito delle sue competenze, atti causativi di danno erariale.” (Sez. III App., 432/2016). Ed è, appunto, questo il caso che ci aggrava: come già ricordato più sopra, il conferimento di incarico dirigenziale ex art. 110 TUEL è atto proprio del Sindaco dal quale è causalmente derivato il contestato danno al Comune di XXXXX con il pagamento di competenze retributive ad un soggetto privo della professionalità necessaria per la copertura dell’incarico illegittimamente conferito. Venendo ad esaminare il terzo elemento costitutivo della responsabilità erariale, l’ avvenuta causazione di un danno risarcibile, il Collegio osserva che, come peraltro correttamente rappresentato dalla Procura attrice, l’illegittimità dell’incarico conferito a soggetto privo dei requisiti di studio richiesti dalla norma ha causato all’amministrazione un ingiusto pregiudizio economico: il danno in caso di prestazioni rese in mancanza del prescritto titolo di studio e professionale è insito nella lesione della violazione del sinallagma contrattuale, dal momento che alla retribuzione percepita non corrisponde una prestazione adeguatamente commisurata e qualitativamente corrispondente alla professionalità richiesta, come peraltro ormai acquisito dalla costante giurisprudenza di questa Corte (cfr. Sez. Veneto sent. n. 107/2015; Sez. Sicilia n. 55/2014; Sez. Lombardia n. 280/2013; Sez. Toscana n. 433/2011; Sez. Sardegna n.1246/2009; Sez. Piemonte n. 24/2009 per citare, ex multis, alcune tra le più recenti e, da ultimo, Sez. Campania n. 129/2017). Alla luce di tali consolidati orientamenti, corretto appare, quindi, il criterio di quantificazione del danno utilizzato dalla Procura e, cioè, la differenza fra le retribuzioni percepite dal XXX in dipendenza dall’incarico dirigenziale e quelle che gli sarebbero spettate qualora avesse ricevuto il riconoscimento di una posizione organizzativa quale funzionario di cat. D5 (questa sì, legittima e conforme alla normativa e alle disposizioni contrattuali applicabili ratione temporis: “ART. 8 – Area delle posizioni organizzative. 1. Gli enti istituiscono posizioni di lavoro che richiedono, con assunzione diretta di elevata responsabilità di prodotto e di risultato: a)lo svolgimento di funzioni di direzione di unità organizzative di particolare complessità, caratterizzate da elevato grado di autonomia gestionale e organizzativa; b) lo svolgimento di attività con contenuti di alta professionalità e specializzazione correlate a diplomi di laurea e/o di scuole universitarie e/o alla iscrizione ad albi professionali; c) lo svolgimento di attività di staff e/o di studio, ricerca, ispettive, di vigilanza e controllo caratterizzate da elevate autonomia ed esperienza. 2. Tali posizioni, che non coincidono necessariamente con quelle già retribuite con l’indennità di cui all’art. 37, comma 4, del CCNL del 6.7.1995, possono essere assegnate esclusivamente a dipendenti classificati nella categoria D, sulla base e per effetto d’un incarico a termine conferito in conformità alle regole di cui all’art. 9.” CCNL del 31.3.1999). La difesa del convenuto contesta in nuce l’esistenza di un danno risarcibile rappresentando, al contrario, l’avvenuta realizzazione di una economia di spesa in quanto il posto avrebbe comunque dovuto essere coperto, con maggiori costi, con ricorso ad un dirigente esterno, argomentando in ordine alla necessaria copertura del posto con una figura dirigenziale non potendosi procedere ad accorpamenti di aree, ma nulla argomentando in merito alla possibilità di affidare la responsabilità dell’area ad un funzionario di cat. D mediante l’istituto della posizione organizzativa, contrattualmente previsto (ed applicabile al caso de quo), appunto oggetto di contestazione da parte della Procura Regionale. In conclusione, sussistendone tutti i presupposti, deve essere dichiarata la responsabilità erariale del convenuto per i fatti di cui è causa e lo stesso deve essere condannato al risarcimento del danno in favore del Comune di XXXX. Per le ragioni ampiamente più sopra esposte in merito alla solo presunta compartecipazione di soggetti terzi (Giunta comunale/Segretario Comunale) alla formazione della volontà sottostante al decreto di conferimento dell’incarico, ritiene il Collegio non ricorrere nemmeno i presupposti per l’applicazione del potere riduttivo, così come richiesto dalla difesa. In conclusione, la domanda attorea deve essere accolta e il convenuto condannato al risarcimento in favore del Comune di XXXXX del danno complessivamente derivante dai fatti di cui è causa e quantificato in euro 78.120,00, somma comprensiva della rivalutazione monetaria, oltre agli interessi legali dalla data della sentenza al saldo effettivo. Ai sensi dell’art. 31 del c.g.c. il convenuto va inoltre condannato al pagamento delle spese di giustizia, liquidate come in dispositivo. P.Q.M. La Sezione Giurisdizionale Regionale per il Veneto della Corte dei Conti, ogni diversa e/o contraria domanda od eccezione respinta, definitivamente pronunciando nel giudizio iscritto al n. 30799 del registro di segreteria promosso dal Procuratore Regionale nei confronti di XXXX -respinge l’eccezione preliminare di prescrizione; -in accoglimento della domanda avanzata dalla Procura Regionale condanna XXXX al risarcimento del danno nei confronti del Comune di XXX di euro 78.120,00 (settantottomilacentoventi/00), somma comprensiva della rivalutazione monetaria, oltre interessi dalla data della sentenza fino al saldo effettivo; -condanna XXXXX al pagamento delle spese di giustizia che si liquidano in euro 288,00 (euro duecentottantotto/00)

Licenziamento privo di motivazione.

La Cassazione con la sentenza n.30668 del 25.11.2019 ritiene che il licenziamento con mancanza di motivazione vada equiparato al licenziamento affetto da vizio formale con conseguente diritto al conseguente ridotto risarcimento nel caso in cui comunque il licenziamento si appalesi legittimo.

La decisione, ad avviso di chi scrive equipara al licenziamento legittimo e valido, il recesso che per mancanza di motivazione impedisce un concreto esame difensivo di chi ha subito l’atto e quindi concede una sorta di “favor” alla parte recedente. Va notato come dopo la legge 92/2012 (legge Fornero) il comma 4 dell’articolo 18 stabilisce che nell’ipotesi in cui il licenziamento sia dichiarato inefficace per violazione del requisito di motivazione di cui all’articolo 2, comma 2, della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni, della procedura di cui all’articolo 7 della presente legge, o della procedura di cui all’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni, si applica il regime di cui al quinto comma, quindi il mero risarcimento) ma con attribuzione al lavoratore di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti che vi è anche un difetto di giustificazione del licenziamento, nel qual caso applica, in luogo di quelle previste dal presente comma, le tutele di cui ai commi quarto, quinto o settimo.

In pratica, la disposizione di legge dissocia in maniera completa l’ipotesi della mancanza di motivazione da quella del licenziamento illegittimo per carenza di giusta causa o giustificato motivo, e sancisce che anche il licenziamento privo di motivazione può essere ritenuto assistito da giusta causa.

Non tiene conto la disposizione di legge citata come sia molto più facile per chi intima un licenziamento senza motivazione, sostenerne in giudizio la giusta causa. E’ così violato non solo il diritto di difesa del lavoratore, ma anche il diritto alla tutela del posto di lavoro, tutti diritti costituzionalmente fondati.

In tema di irregolarità della contestazione nel licenziamento disciplinare nello specifico di fronte alla tardività della contestazione e dunque in un ipotesi che coinvolgeva la forma del recesso ed il diritto alla difesa, la Cassazione a Sezioni Unite Sentenza 27.12.2017 n.3085 riteneva che Con legge 92/2012  (riforma Fornero), si assiste ad una modifica dell’art. 18, nel senso che accanto alla tutela reale, la quale rappresenta il massimo livello di protezione per sanzionare un illecito, viene prevista una tutela meramente indennitaria”. I regimi di cui si parla nel nuovo art. 18 sono i seguenti: a) quello della tutela reintegratoria piena (disciplinato dai primi tre commi dell’art. 18); b) quello della tutela reintegratoria attenuata (comma 4); c) quello della tutela indennitaria forte (comma 5), che varia tra le 12 e le 24 mensilità; d) quello della tutela indennitaria limitata (comma 6), che oscilla tra le 6 e le 12 mensilità applicabile nel caso di specie inquadrato come mera irregolarità formale del recesso.

Va inoltre attentamente considerato l’articolo 24 della Carta Sociale Europea che assicura ad ogni lavoratore l’effettività del diritto a non essere licenziato senza un valido motivo legato alla condotta ed alle attitudini personali o ad un valido motivo connesso al funzionamento dell’impresa. L’articolo 24 sancisce inoltre per chi è licenziato senza un valido motivo un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione.

Di Seguito Cassazione n.30668 del 25.11.2019.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – rel. Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 2435/2018 proposto da:

PRADA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA VITTORIA COLONNA 39, presso lo studio dell’Avvocato MARCO PASSALACQUA, che la rappresenta e difende unitamente agli Avvocati ANNA GRAZIA SOMMARUGA, MARCELLO GIUSTINIANI, ARIANNA MARIA BEATRICE COLOMBO e GIAN LUCA PINTO in virtù di delega in atti.

– ricorrente principale – controricorrente in relazione al ricorso incidentale –

contro

T.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FLAMINIA 109, presso lo studio dell’Avvocato GIUSEPPE FONTANA, che lo rappresenta e difende, unitamente e disgiuntamente, all’Avvocato FABIO RUSCONI giusta delega in atti.

– controricorrente – ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 1090/2017 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 07/11/2017 R.G.N. 411/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 18/09/2019 dal Consigliere Dott. GUGLIELMO CINQUE;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELENTANO Carmelo, che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi;

udito l’Avvocato ANNA GRAZIA SOMMARUGA.

Svolgimento del processo

1. Il Tribunale di Arezzo, con la pronuncia n. 385 del 2012, ha respinto la domanda, proposta con il rito speciale di cui alla L. n. 92 del 2012, da T.G. nei confronti di Prada spa diretta ad ottenere, previo accertamento in via incidentale della natura subordinata del rapporto di lavoro in essere inter partes nel periodo compreso tra il 3.9.2007 ed il 3.2.2015 (che era stato formalizzato invece con successivi contratti di consulenza), che fosse dichiarata l’illegittimità del licenziamento che la società gli aveva di fatto intimato recedendo dall’ultimo di tali contratti di lavoro formalmente autonomo, con le conseguenze reintegratorie e risarcitorie L. n. 300 del 1970, ex art. 18, comma 4, ovvero, in subordine, risarcitorie previste dal comma 5 dello stesso articolo o, in via ulteriormente subordinata, solo quelle risarcitorie ai sensi dell’art. 18 citato, comma 6.

2. La Corte di appello di Firenze, con la sentenza n. 1090 del 2017, in riforma della pronuncia di prime cure e in parziale accoglimento del reclamo, ha dichiarato l’inefficacia del licenziamento impugnato L. n. 604 del 1966, ex art. 2; ha dichiarato, quindi, risolto il rapporto di lavoro intercorso tra le parti alla data del recesso e ha condannato la società a corrispondere a T.G. l’indennità risarcitoria di cui della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 6, quantificata in dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre accessori.

3. A fondamento della decisione la Corte territoriale ha rilevato che: a) non era fondata l’eccezione di decadenza, sollevata L. n. 183 del 2010, ex art. 32, perchè il testo della disposizione era inequivoco nel sottoporre a decadenza esclusivamente l’azione del lavoratore diretta ad impugnare il licenziamento, comunque qualificato, dell’affermato datore di lavoro e il recesso del committente nei rapporti di collaborazione per cui, in ipotesi come quella di cui è processo riguardante una serie di contratti qualificati di consulenza, stipulati tra le parti senza soluzione di continuità (dal 3.9.2007 al 3.2.2015), l’unico termine che era onere osservare per il T. era quello decorrente dalla comunicazione del recesso della società; b) ricorrevano pacificamente, quanto alla prestazione del lavoratore, le condizioni del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 69 bis, comma 2, di talchè non poteva presumersi la natura di prestazione coordinata e continuativa dell’attività lavorativa svolta dalla originario ricorrente per quanto titolare di partita IVA; c) in ogni caso, dalla istruttoria svolta, vi era prova in atti della natura effettivamente subordinata della prestazione lavorativa svolta dal T.; d) tale natura rendeva qualificabile come licenziamento il recesso intimato dalla formale committente il 3.2.2015 che si manifestava, però, illegittimo per mancanza di motivazione; e) doveva, invece, ritenersi provato il giustificato motivo oggettivo di recesso e che non vi era stata violazione dell’obbligo di repechage atteso che non esisteva, nell’organizzazione aziendale di Prada spa all’epoca del licenziamento e neanche introdotta successivamente, alcuna figura anche solo latamente comparabile con quella di T. che svolgeva mansioni altamente specialistiche ed adeguatamente remunerate; f) ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 6, l’indennità risarcitoria, a seguito della declaratoria di risoluzione del rapporto, andava quantificata in dodici mensilità.

4. Avverso la decisione di secondo grado ha proposto ricorso per cassazione Prada spa affidata a cinque motivi.

5. Ha resistito con controricorso T.G. sulla base di un motivo cui ha, a sua volta, resistito con controricorso la società.

6. Il PG, prima della fissazione della causa per la trattazione in pubblica udienza, ha concluso, con requisitoria scritta, per il rigetto sia del ricorso principale che di quello incidentale.

7. Le parti hanno presentato memorie.

Motivi della decisione

1. I motivi possono essere così sintetizzati.

2. Con il primo motivo del ricorso principale la società denunzia la violazione e falsa applicazione della L. n. 183 del 2010, art. 32 e artt. 2964 c.c. e segg., per avere la Corte di merito erroneamente ritenuto che il T., ai sensi di quanto previsto dal citato art. 32, aveva l’unico onere, pacificamente adempiuto, di impugnare l’atto che lo aveva estromesso materialmente dal rapporto e non anche ciascuno dei contratti di lavoro autonomo che, nel corso degli anni, si erano susseguiti senza soluzione di continuità a regolare formalmente il rapporto stesso.

3. Con il secondo motivo si censura la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 276 del 2003, artt. 6169 e 69 bis, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere erroneamente ritenuto la Corte territoriale che il T. aveva stipulato con Prada spa contratti di collaborazione continuativa e coordinata privi di progetto, in luogo di genuini contratti di consulenza a partiva IVA, applicando gli artt. 61 e 69 D.Lgs. n. citato, non dirimenti per il caso di specie, ed omettendo del tutto l’applicazione dell’unica norma rilevante costituita dall’art. 69 bis stesso decreto che individua, invece, una deroga alla disciplina scaturente dal combinato disposto del D.Lgs. n. 276 del 2003, artt. 61 e 69.

4. Con il terzo motivo la società lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 276 del 2003, artt. 61 e 69, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, per non avere la Corte di appello ritenuto ravvisabili gli elementi che, a termine del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 61, integravano la nozione di “specifico progetto” nell’oggetto dei contratti di consulenza sottoscritti tra le parti.

5. Con il quarto motivo la società si duole della violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, art. 116 c.p.c., per avere erroneamente la Corte di appello ritenuto attendibile il teste P..

6. Con il quarto motivo si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 2094 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere erroneamente la Corte di appello ravvisato la natura subordinata della prestazione svolta dal T..

7. Con il primo motivo del ricorso incidentale il T. denunzia la violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, commi 1, 2, 4, 6 e 7, in relazione al capo della sentenza che, dopo avere dichiarato il licenziamento intimatogli illegittimo in quanto totalmente carente di motivazione, ha concluso per l’applicazione della tutela di cui dell’art. 18 citato, comma 6, anzichè di quello di cui ai commi 2 o 4/7 della disposizione (art. 360 c.p.c., n. 3); si sostiene che in ipotesi di licenziamento inefficace per mancanza di motivazione L. n. 604 del 1966, ex art. 2, la tutela non avrebbe potuto essere solo quella risarcitoria pena la incostituzionalità della norma di cui alla L. n. 600 del 1970, art. 18, comma 6, per irragionevolezza della stessa.

8. Con il secondo motivo si eccepisce la nullità della sentenza (error in procedendo) per violazione degli artt. 112 e 115 c.p.c., in relazione al capo della decisone che, dopo avere ritenuto dimostrata la ragione organizzativa che la società aveva allegato a giustificazione del proprio recesso, ha escluso che il licenziamento oggetto di causa fosse illegittimo, oltre che per la totale carenza di motivazione, anche per violazione da parte della società stessa del cd. “obbligo di repechage” sul presupposto che non esistesse nella organizzazione aziendale di Prada spa all’epoca del recesso e che non era stata introdotta dopo, alcuna figura professionale comparabile non solo latamente con quella del T.. Si deduce, da un lato, che la circostanza della inesistenza della posizione professionale di cui sopra non solo non era affatto pacifica tra le parti, ma non era stata neppure allegata: ciò, pertanto, in violazione degli art. 112 e 115 c.p.c.; inoltre, si evidenzia, sempre in relazione all’art. 115 c.p.c., che la Corte aveva mancato di rilevare che fosse sempre pacifico tra le parti la circostanza di poter ricollocare utilmente il T. nell’organizzazione aziendale in svariate mansioni, specificamente allegate e non contestate.

9. Il primo motivo del ricorso principale non è fondato.

10. Il dato processuale da prendere in considerazione, per l’esame della censura, è rappresentato dal fatto che, nella fattispecie in esame, tra il T. e Prada spa erano intercorsi, senza soluzione di continuità, dal 3.9.2007 al 3.2.2015, quattro contratti di consulenza ritenuti illegittimi dai giudici di merito D.Lgs. n. 276 del 2003, ex art. 69, con il conseguente riconoscimento di un rapporto di lavoro di natura subordinata a tempo indeterminato.

11. La società sostiene, come sopra riportato, che il lavoratore era decaduto dal diritto di impugnare i primi tre contratti per il decorso dei termini di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32.

12. L’assunto non è meritevole di accoglimento.

13. In tema di contratto a progetto, è stato affermato che il regime sanzionatorio previsto dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 69, comma 1 (nel testo “ratione temporis” applicabile, anteriore alle modifiche apportate dalla L. n. 92 del 2012), in casi di assenza di specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso, determina l’automatica conversione a tempo indeterminato, con applicazione delle garanzie del lavoro dipendente sin dalla data di costituzione dello stesso (cfr. Cass. 17.8.2016 n. 17127).

14. Ne consegue, pertanto, che essendo unico il rapporto di lavoro che si è venuto a creare tra le parti dal 3.9.2007 (primo contratto a progetto ritenuto illegittimo), la stipulazione dei successivi contratti non può incidere sulla già intervenuta trasformazione del rapporto, salva la prova di una novazione ovvero di una risoluzione tacita del rapporto (cfr. Cass. 9.3.2018 n. 5714 in tema di pluralità di contratti a termine il cui primo sia stato dichiarato nullo): ipotesi, queste, non ravvisabili ed anzi escluse sostanzialmente dalla Corte territoriale che ha rilevato l’effettività e la continuità del vincolo di subordinazione tra le parti nell’ambito di tutto il rapporto lavorativo.

15. Correttamente, pertanto, ai fini della eccezione di decadenza dell’azione giudiziaria L. n. 183 del 2010, ex art. 32, i giudici di seconde cure hanno ritenuto che l’unico termine di decadenza che il T. doveva impedire, come in realtà aveva fatto, era quello decorrente dal recesso della società dal rapporto in essere, in relazione all’ultimo contratto, qualificato come licenziamento.

16. Il secondo motivo del ricorso principale è parimenti infondato.

17. La norma del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 69 bis, introdotta dalla L. 28 giugno 2012, n. 92, non può spiegare alcun effetto in relazione al rapporto dedotto in giudizio attesa la statuita riqualificazione del rapporto, originariamente instaurato in seguito alla stipulazione di contratti a progetto, in uno di natura subordinata fin dal primo contratto del 3.9.2007, in relazione al quale la disposizione invocata è successiva.

18. Il terzo, quarto e quinto motivo, da trattarsi congiuntamente per connessione, non sono meritevoli di accoglimento in quanto, al di là del formale richiamo, contenuto nella epigrafe dei motivi di impugnazione in esame, al vizio di violazione e falsa applicazione di legge, l’ubi consistam delle censure sollevate deve piuttosto individuarsi nella negata congruità dell’interpretazione fornita dalla Corte territoriale del contenuto rappresentativo degli elementi di prova complessivamente acquisiti, dei fatti di causa o dei rapporti tra le parti ritenuti rilevanti.

19. Si tratta, quindi, di argomentazioni critiche dirette a censurare una tipica erronea ricognizione della fattispecie concreta, di necessità mediata dalla contestata valutazione delle risultanze probatorie di causa e, pertanto, di tipiche censure dirette a denunciare un vizio di motivazione in cui sarebbe incorso il provvedimento impugnato: vizio comunque insussistente atteso che, nel caso in esame, devono ritenersi soddisfatti i requisiti minimi previsti dall’art. 360 c.p.c., n. 5, ai fini del controllo della legittimità della motivazione nella prospettiva dell’omesso esame di fatti decisivi controversi tra le parti (per tutte Cass. n. 8053/2014).

20. Infine, giova ribadire che la valutazione delle risultanze delle prove ed il giudizio di attendibilità dei testi, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad una esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti (Cass. 4.7.2017 n. 16647).

21. Ciò premesso deve ritenersi, in punto di diritto, che gli accertamenti svolti dalla Corte di merito siano rispettosi dei criteri generali in tema di distinzione tra rapporto di natura autonoma e subordinata, muovendosi nell’ambito dei principi elaborati da questa Corte che assegnano alla soggezione del lavoratore al potere direttivo della parte datoriale un ruolo fondamentale ai fini del discrimen tra le due categorie di rapporti e, nella specie, ritenuta sussistente per l’inserimento stabile del T. nell’organizzazione, per la soggezione ad ordini e direttive di provenienza dei preposti della società, tali da terminare tempi, modi e priorità della prestazione lavorativa); il resto è accertamento di merito sottratto, come si è detto, al sindacato di legittimità.

22. Il primo motivo del ricorso incidentale è anche esso infondato.

23. E’ opportuno rilevare che i giudici di seconde cure, oltre ad avere sottolineato che il provvedimento espulsivo era illegittimo in quanto non conteneva alcuna motivazione, hanno poi precisato che la società aveva dato prova del giustificato motivo oggettivo di recesso (eliminazione dalla compagine aziendale degli ispettori etici in esito alla modifica delle condizioni contrattuali con i fornitori, dal 2015 tenuti a garantire alla committente il rispetto, da parte loro e dei propri sub-fornitori, delle norme di sicurezza) e che non vi era stata violazione dell’obbligo di repechage, per cui la tutela doveva essere quella risarcitoria di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 6.

24. La sentenza è conforme all’orientamento di legittimità, cui si intende dare seguito, secondo cui nel regime di tutela obbligatoria, in caso di licenziamento inefficace per violazione del requisito di motivazione della L. n. 604 del 1966, ex art. 2, comma 2, come modificato dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 37, trova applicazione l’art. 8 della medesima legge in virtù di una interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata della novella del 2012 che ha modificato anche la L. n. 300 del 1970, art. 18, prevedendo, nella medesima ipotesi di omessa motivazione del licenziamento, una tutela esclusivamente risarcitoria (Cass. 5.9.2016 n. 17589).

25. Il secondo motivo del ricorso incidentale è, invece, inammissibile.

26. Invero, la doglianza è stata formulata come “error in procedendo”, in relazione agli artt. 112 e 115 c.p.c., ma, in realtà, è finalizzata a censurare la valutazione delle risultanze istruttorie da parte della Corte territoriale.

27. Il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera però interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicchè la denuncia della violazione delle predette regole da parte dei giudici di merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme procedurali, sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, bensì un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione e, dunque, nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 134 del 2012 (cfr. Cass. 12.10.2017 n. 23940; Cass. 30.11.2016 n. 24434).

28. Nè è ravvisabile, poi, la violazione dell’art. 112 c.p.c., sotto il profilo dell’omessa pronuncia, che riguarda l’omissione di qualsiasi decisione su un capo della domanda o su un’eccezione di parte o su un’istanza che richiede una statuizione di accoglimento o rigetto, tale da dare luogo all’inesistenza di una decisione sul punto per la mancanza di un provvedimento indispensabile alla soluzione del caso concreto (Cass. 23.2.1995 n. 2085), salva l’ipotesi in cui ricorrano gli estremi di una reiezione implicita della pretesa o della deduzione difensiva ovvero di un loro assorbimento in altre declaratorie (Cass. 25.2.2005 n. 4079; Cass. 29.7.2004 n. 14486).

29. Nel caso in esame, invece, sul punto dell’obbligo di repechage la Corte di merito si è espressa ritenendo, con un accertamento di merito adeguato e motivato e, pertanto, insindacabile in questa sede, che non vi era stata violazione del predetto obbligo.

30. L’impostazione della censura, si ribadisce quale error in procedendo e non come violazione di legge, non consente a questo Collegio di valutare ulteriori profili di illegittimità della condotta dell’odierna controricorrente.

31. Alla stregua di quanto esposto sia il ricorso principale che quello incidentale devono essere rigettati.

32. La soccombenza reciproca induce a compensare tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.

33. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti processuali, come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale e quello incidentale. Compensa tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale e di quello incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso principale e per il ricorso incidentale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 18 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 25 novembre 2019