Cassazione: le condizioni di legittimità del doppio licenziamento di un lavoratore

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 2274/2024 del 23 gennaio 2024, si pronuncia in merito ad un contenzioso riguardante due licenziamenti disciplinari intimati nei riguardi di un funzionario.

Il primo licenziamento (per indebita consulenza a favore di società di indagati per bancarotta fraudolenta) era stato dichiarato legittimo.

Il secondo licenziamento era stato intimato sulla base dell’addebito di due comportamenti abusivi in favore della famiglia alla quale facevano capo le società indagate per bancarotta; veniva dichiarato l’annullamento del licenziamento, in quanto ritenuto sanzione eccessiva.

Nelle more del giudizio in merito al secondo licenziamento, l’impugnazione del primo licenziamento veniva rigettata dalla Cassazione, dunque l’accertamento in ordine alla legittimità del primo licenziamento è divenuto definitivo.

Si determinava quindi una perdita di interesse del datore di lavoro ad insistere per l’annullamento della pronuncia dichiarativa dell’inefficacia del secondo licenziamento, perché tale inefficacia è ora conclamata per il maturare del giudicato in merito al primo licenziamento.

La Suprema Corte ribadisce il principio consolidato per cui, in tema di rapporto di lavoro subordinato, il datore di lavoro, qualora abbia già intimato al lavoratore il licenziamento per una determinata causa o motivo, può legittimamente intimare un secondo licenziamento, fondato su una diversa causa o motivo, restando quest’ultimo del tutto autonomo e distinto rispetto al primo, sicché entrambi gli atti di recesso sono in sé astrattamente idonei a raggiungere lo scopo della risoluzione del rapporto, dovendosi ritenere il secondo licenziamento produttivo di effetti solo nel caso in cui venga riconosciuto invalido o inefficace il precedente.

Ciò significa che è legittima l’intimazione di un secondo licenziamento, per quanto esso nasca come destinato a non avere effetti, se il primo licenziamento non sia caducato.

Ne deriva un’autonomia tra i due licenziamenti, tale per cui l’inefficacia del secondo non può essere giudizialmente dichiarata sulla base di un dato provvisorio, quale derivante dalla pronuncia ancora impugnabile resa sul primo licenziamento.

In tale frangente, il giudice del secondo licenziamento, se il giudizio sul primo licenziamento non sia ancora giunto a pronuncia con sentenza passata in giudicato, deve pronunciare sulla legittimità o meno di esso e non sul nesso tra lo stesso ed il primo.

Trattandosi di due atti sostanziali autonomi, il secondo nasce come inefficace perché successivo ad altro munito di analoghi effetti, ma può divenire successivamente efficace o definitivamente inefficace, allorquando il processo sul primo si definisca con sentenza passata in giudicato.

Quindi, era giustificato che il datore di lavoro proponesse il ricorso per cassazione, stante il fatto che, all’epoca, la sentenza sul primo licenziamento non era ancora definitiva. Tuttavia, con il sopravvenire del giudicato in merito alla legittimità del primo licenziamento, si è realizzata la perdita di interesse del datore di lavoro alla contestazione in merito alla legittimità del secondo licenziamento.

La soppressione di ANPAL: e ora?

Con il DPCM n.230 del 22 novembre 2023 che contiene il regolamento di Riorganizzazione del Ministero del Lavoro, è soppressa l’ANPAL – Agenzia Nazionale Politiche Attive del Lavoro con decorrenza 1° marzo 2024.

Le risorse umane, finanziarie e strumentali sono trasferite al Ministero del Lavoro.

Parte del personale è trasferito ad INAPP ex ISFOL.

ANPAL oltre a gestire le politiche attive del lavoro ed i cosiddetti Navigator ha avuto una parte importante nella gestione del Reddito di Cittadinanza tramite Anpal Servizi Spa.

I risultati non sono tuttavia stati ottimali anche per quanto attiene la gestione dei Centri per l’Impiego.

Ad ANPAL era affiancata ANPAL Servizi che succedeva ad Italia Lavoro come società in House controllata da ANPAL.

ANPAL SERVIZI SPA era una società per azioni con unico azionista il Ministero dell’Economia e della Finanze, con funzioni di ente strumentale di ANPAL per la realizzazione delle politiche attive del lavoro, il rafforzamento dei servizi per l’impiego, la ricollocazione dei disoccupati in Naspi, la promozione della collaborazione tra scuole e aziende con i percorsi scuola – lavoro.

Nel luglio 2022, l’economista Cristina Tajani era stata nominata presidente di ANPAL Servizi e vi decadeva nel marzo 2023 a seguito della decisione della Ministra del Lavoro Marina Calderone che revocava il Consiglio di Amministrazione a due anni dalla Sua scadenza.

Era quindi nominato presidente Massimo Temussi che rassegnava le proprie dimissioni il 17 gennaio 2024 per assumere la responsabilità della Direzione Generale delle Politiche Attive per il Lavoro presso il Ministero del Lavoro.

A seguito della soppressione di ANPAL con il decreto 230/2023, ANPAL SERVIZI diviene Sviluppo Lavoro Italia Spa con compiti di raccordo tra Stato e Regioni per il mercato del lavoro.

SVILUPPO LAVORO ITALIA SPA è una società in house del Ministero del Lavoro che dovrebbe assumere il ruolo di braccio operativo del Ministero stesso per un migliore sviluppo delle politiche del lavoro anche attraverso forme di integrazione tra programmazione nazionale e regionale dei Fondi europei ed il mercato del lavoro.

Per quanto riguarda invece ANPAL, tutte le funzioni da questa esercitata vengono trasferite al Ministero del Lavoro come ad esempio la gestione del programma GOL (Garanzia Occupabilità Lavoratori) nonché le risorse del PNRR e quelle di REACT EU – Assistenza alla Ripresa per la Coesione e i Territori d’Europa.

ANPAL inoltre coordinava il Fondo Sociale Europeo (FSE).

In fase transitoria, le funzioni di ANPAL trasferite al Ministero continuano ad essere svolte dal personale dell’Agenzia.

Resta operativo il NUL Numero Unico del Lavoro.

Il Consiglio di Amministrazione di ANPAL è stato dall’inizio presieduto dal dottor Maurizio Del Conte e quindi dal professor Domenico Parisi.

Con DPR 7 giugno 2021 era conferito l’incarico di Commissario straordinario al dottor Raffaele Tangorra con contestuale decadenza delle cariche del Consiglio di Amministrazione e della Presidenza.

Fabio Petracci

Rientro dei Cervelli: Le novità alla luce delle recenti modifiche.

Un recente articolo dal titolo “Lies, Damned Lies, and Statistics: un’indagine per comprendere le reali dimensioni della diaspora dei giovani italiani[1]”, a cura della Fondazione Nord-Est e Talented Italians in UK dell’Eurostat, ha destato un certo clamore mediatico. Invero, analizzando i flussi migratori degli italiani nel decennio 2011/2021, gli autori hanno scoperto che 1.3 milioni di loro, in una fascia d’età compresa tra i 20 e 34 anni, sono andati a vivere all’estero. Lo studio ha altresì evidenziato due importanti aspetti della nuova migrazione:

A) a differenza dei numeri ufficiali Istat, secondo cui gli italiani andati all’estero, nel periodo analizzato, sarebbero 450 mila circa, la realtà dei fatti è ben più drammatica. Secondo gli autori questo dato dev’essere moltiplicato per 3, per dare un’immagine reale dello stato del fenomeno. Esiste, infatti, un divario notevole tra il numero dei giovani emigrati che si iscrivono all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (AIRE), e che poi risultano conteggiati nei dati Istat, e quelli risultanti, invece, dagli uffici statistici dei paesi stranieri di arrivo; e

B) la grande percentuale (30%) di persone laureate che abbandonano l’Italia. Il c.d. brain drain, fuga dei cervelli, genera, secondo una stima del centro studi di Confindustria, una perdita di un punto di Pil all’anno, pari a 14 miliardi di euro.

Le cause di questo fenomeno sono principalmente legate alla cultura economica e sociale italiana, che, inevitabilmente, si riflette nella mancanza di un’adeguata offerta di opportunità e anche di retribuzioni. Per di più gli autori ritengono che sia assai verosimile che le stesse cause che inducono i giovani italiani ad andar via, scoraggino i giovani di altri paesi a venire in Italia, nonostante la sua rinomata bellezza.

Per invertire questo fenomeno servono politiche credibili ed affidabili. Uno degli strumenti adottati per invertire la rotta è stato il decreto Crescita nel 2019, che prevedeva un’agevolazione per chi avesse fatto ritorno in Italia. Tuttavia, la manovra recentemente approvata dal Consiglio dei ministri, in esame in questo articolo, ha ridotto notevolmente gli incentivi e con essi anche l’attrattività del ritorno.

Premessa

Il 28 dicembre scorso è stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale il D. Lgs. 20/2023 di attuazione della riforma fiscale in materia di fiscalità internazionale. L’articolo 5, rubricato nuovo regime agevolativo a favore dei lavoratori impatriati, e seguenti modificano il precedente regime, art. 16, comma 3, del D.Lgs. 147/2015, e la successiva modifica introdotta con l’art. 5, commi 2 bis, ter, e quater del D.L. 34/2019.

Il recente Decreto si inserisce nella lunga scia di provvedimenti[2], emanati dal governo, per incentivare il rientro in Italia dei cosiddetti “cervelli in fuga”, ovvero figure professionali di alto livello, che abbiano acquisito una notevole esperienza professionale all’estero. A differenza dei provvedimenti precedenti, tuttavia, l’ultimo intervento del governo Meloni riduce in maniera significati i benefici fiscali nei confronti degli impatriati[3].

Condizioni Generali a favore dei lavoratori impatriati

Ai sensi dell’art. 7 della nuova disposizione, il regime si applica ai contribuenti che trasferiscono la residenza fiscale[4] nel territorio dello Stato a partire dal 1º gennaio 2024 e che percepiscono, ai sensi dell’art. 5, i seguenti redditi:

  1. redditi di lavoro dipendente,
  2. redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente, e
  3. redditi di lavoro autonomo derivanti dall’esercizio di arti e professioni.

Per tali contribuenti è previsto un abbattimento dell’imponibile fiscale del 50% entro un limite massimo di €600.000 euro[5]. Si tratta di due novità rispetto al precedente dettato normativo che prevedeva un’agevolazione del 70%, che raggiungeva il 90% per i lavoratori che trasferivano la loro residenza al Centro-Sud e nessun un tetto massimo reddituale. La normativa richiede che per usufruire delle suddette agevolazioni debbano ricorrere le seguenti condizioni:

  1. i lavoratori si impegnano a risiedere fiscalmente in Italia per un periodo di tempo corrispondete a quello di cui al comma 3, ossia cinque anni;
  2. i lavoratori non devono essere stati fiscalmente residenti in Italia nei tre periodi d’imposta precedenti il loro trasferimento. Se il lavoratore presta la propria attività lavorativa, al suo rientro in Italia, alle dipendenze dello stesso datore di lavoro oppure in favore di un soggetto appartenente al medesimo gruppo, il requisito di permanenza all’estero è di:
  • Sei anni, se il contribuente non ha lavorato in Italia a favore dello stesso datore di lavoro oppure di un soggetto appartenente al suo stesso gruppo;
  • Sette anni, se il contribuente, prima del suo trasferimento all’estero, ha lavorato alle dipendenze del medesimo datore di lavoro oppure di altro datore di lavoro appartenente allo stesso gruppo.
  1. l’attività lavorativa deve essere prestata per la maggior parte del periodo d’imposta nel territorio dello Stato;
  2. i lavoratori devono essere in possesso requisiti di elevata qualificazione o specializzazione come definiti dal D.Lgs 108/2012 e dal D.Lgs. 206/2007.

Per quanto riguarda la definizione di soggetti appartenenti al medesimo gruppo, essi si identificano in coloro che hanno un rapporto di controllo diretto o indiretto ai sensi dell’articolo 2359, comma 1, del Codice civile oppure che sono sottoposti al comune controllo diretto o indiretto da parte di un altro soggetto. La norma precisa che, qualora la residenza fiscale non sia mantenuta per almeno 4 anni consecutivi al rientro in Italia, il lavoratore decade dai benefici e l’Agenzia delle Entrate provvede al recupero delle imposte nel frattempo risparmiate e dei relativi interessi.

Sulla base dei nuovi requisiti appare chiaro che vi siano numerose differenze rispetto alla precedente normativa. In particolare, è stato introdotto il requisito dell’elevata specializzazione e qualificazione che deve possedere il lavoratore richiedente, ai sensi del D.Lgs 108/2012 e dal D.Lgs. 206/2007.

Ne consegue che il nuovo regime viene riservato a coloro che risultino in possesso di:

  • un titolo di istruzione superiore, rilasciato da autorità competenti nel Paese dove è stato conseguito, che attesti il completamento di un percorso di istruzione superiore di durata almeno triennale e della relativa qualifica professionale superiore, come rientrante nei livelli:
  • 1 (legislatori, imprenditori e alta dirigenza);
  • 2 (professioni intellettuali, scientifiche e di elevata specializzazione) e
  • 3 (professioni tecniche) della classificazione ISTAT delle professioni CP 2011, attestata dal paese di provenienza e riconosciuta in Italia[6];
  • dei requisiti previsti dal D.LGS 206/2017 limitatamente all’esercizio delle professioni ivi regolamentate.

Risulta allungato sia il periodo di residenza all’estero (3 anni contro i precedenti 2) sia quello di permanenza in Italia al momento del rientro (5 anni contro i precedenti 2).

A differenza della precedente normativa, i nuovi incentivi fiscali non trovano più applicazione per i soggetti che rientrano in Italia per svolgere attività d’impresa, che prima, invece, erano soggetti ad un trattamento agevolato.

Rispetto alle versioni precedenti del testo, infine, la versione definitiva ora contempla la possibilità di svolgere attività lavorativa in Italia in continuità con quella svolta all’estero. Ciò riguarda tutti i lavoratori che rientrano con un trasferimento infragruppo in cui il nuovo datore di lavoro appartenga allo stesso gruppo multinazionale del datore di lavoro estero.

Lavoratori con Figli Minori

L’abbattimento dell’imponibile fiscale di cui al comma 1, dell’art. 5, raggiunge il 60% (invece del 50%) per il lavoratore impatriato che:

  1. si trasferisce in Italia con un figlio minore;
  2. diventi genitore ovvero adotti un minorenne durante il periodo di fruizione del regime. In tal caso il maggior beneficio fiscale inizia a decorrere dal periodo d’imposta in corso al momento della nascita o dell’adozione e per il tempo residuo di fruibilità dell’agevolazione.

In entrambe le ipotesi è richiesto come condicio sine qua non che il figlio minore o adottato sia residente nel territorio dello Stato insieme al lavoratore che si avvale del beneficio.

Iscrizione AIRE

Resta confermata, invece, la norma per cui il beneficio fiscale spetta:

  1. ai cittadini italiani iscritti all’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (AIRE), e
  2. a quelli che non sono iscritti all’AIRE purché siano stati fiscalmente residenti in un altro Stato ai sensi di una convenzione contro le doppie imposizioni sui redditi nel periodo di tre anni richiesto dal comma 1, lettera a).

Proroga Triennale

A differenza del precedente regime, il nuovo testo di legge adottato dal governo Meloni non prevede una proroga dei benefici fiscali per ulteriori 5 anni, in caso di acquisto di un immobile di tipo residenziale oppure in presenza di prole minorenne a carico al rientro in Italia.

Tuttavia, i lavoratori che trasferiranno la residenza anagrafica in Italia nell’anno 2024, potranno beneficiare di una proroga delle agevolazioni, per ulteriori 3 periodi di imposta, a condizione che essi diventino proprietari, entro il 31 dicembre 2023 e, in ogni caso nei 12 mesi precedenti al trasferimento, di un’unità immobiliare di tipo residenziale adibita ad abitazione principale in Italia.

Docenti e Ricercatori

Le nuove modifiche non riguardano gli incentivi fiscali per i “docenti e ricercatori” che rientrano a lavorare in Italia, per essi, infatti, continuano a rimanere valide le vecchie regole sia come misura percentuale delle agevolazioni, sia per quanto riguarda i requisiti. L’art. 44 del D.L. 78/2010, al quale si rimanda, statuisce un’esenzione del 90% del reddito derivante da lavoro autonomo o dipendente per i docenti e ricercatori a condizione che trasferiscano la propria residenza in Italia.

Di Francesco Rizzo Marullo
Avvocato cassazionista e consulente fiscale negli Stati Uniti abilitato presso l’agenzia delle Entrate American (IRS)

 


[1]Per maggiori informazioni si inviata alla consultazione del sito della Fondazione Nord Est: https://www.fnordest.it/web/fne/content.nsf/0/207F7347275379C9C1258A4E002C8CCC/$file/Paper%20FINALE%20-%20Ottobre%202023.pdf?openelement

[2] Il primo provvedimento risale al 2003, con il D.L. 269/2003.

[3] È bene ricordare che l’attuale testo è stato oggetto di numerose modifiche, dopo le polemiche scaturite da una circolazione “non autorizzata” della bozza del provvedimento a fine ottobre.

[4] Ai sensi dell’articolo 2 del TUIR.

[5] Purché nel rispetto dei limiti previsti dai regolamenti UE per gli aiuti de minimis, pari a 200mila euro nell’arco di tre anni.

[6] Si veda l’art.1, comma 1, lett.a del D.Lgs. 108/2012 dal titolo: Attuazione della Direttiva 2009/50/CE sulle condizioni d’ingresso e soggiorno di Paesi Terzi che intendano svolgere lavori altamente qualificati. Entrato in vigore l’8/08/2012 in G.U. n. 171 del 24/07/2012.

Decontribuzione delle lavoratrici madri con figli.

La legge di Bilancio 2024 rintracciabile nell’art. 1 c. da 180 – 182 della legge 30 dicembre 2023 n. 213, ha introdotto un nuovo esonero previdenziale a favore delle lavoratrici con figli. L’esonero, essendo una misura di carattere generale che viene applicata solo sulla quota dei contributi a carico della lavoratrice, NON rientra tra gli aiuti di stato e di conseguenza non è soggetta all’autorizzazione della Commissione Europea. Poiché non è un incentivo all’assunzione, l’applicazione della stessa non è subordinato al possesso del documento unico di regolarità contributiva (DURC)

SOGGETTI BENEFICIARI DELL’ESONERO – CARATTERISTICHE DELLE LAVORATRICI

L’applicazione dell’esonero contributivo in esame è rivolto alle lavoratrici madri dipendenti da datori di lavoro, sia pubblici che privati indipendentemente che siano qualificati o meno come imprenditori con esclusione dei rapporti di lavoro domestico.

All’art. 1 c. 180 (l.213/2020) precisa che l’esonero è destinato alle lavoratrici che nel periodo compreso dal 1/1/2024 al 31/12/2026 siano madri di tre o più figli di cui il più piccolo abbia un età inferiore a 18 anni (17 anni e 364 giorni);

In via sperimentale, solo per il 2024, come previsto all’art. 1 c. 181 (l. 213/2023) l’esonero spetta alle lavoratrici madri in presenza di due figli di cui il più piccolo abbia un età inferiore a 10 anni (9 anni e 364 giorni).

Il requisito si ritiene soddisfatto nel momento della nascita del terzo figlio (o successivo) relativi al periodo 2024/2026, mentre in via sperimentale per il solo 2024 al momento della nascita del secondo figlio.

L’esonero, considerato la parificazione tra filiazione naturale e gli istituti dell’adozione (D. Lgs. n. 151/2001) è applicabile anche in situazioni di figlio in adozione o affidamento.

L’INPS con la circolare n. 27 del 31 gennaio 2024 ha fornito indicazioni e istruzioni per la relativa gestione degli adempimenti previdenziali che sono collegati alla misura dell’esonero contributivo.

RAPPORTI DI LAVORO RIENTRANTI NELL’AGEVOLAZIONE

L’agevolazione si applica a tutti i rapporti di lavoro dipendente a tempo indeterminato sia già instaurato che in via di instaurazione nel periodo di vigenza dell’esonero.

Rientrano tra i rapporti oggetto dell’agevolazione anche:

  • il contratto di lavoro part/time sempre a tempo indeterminato;
  • il contratto di apprendistato, in virtù della sua equiparazione al contratto a tempo indeterminato;
  • rapporti instaurati in attuazione del vincolo associativo stretto con una cooperativa di lavoro (l. 142/2001);
  • rapporti a tempo indeterminato stipulati a scopo di somministrazione.

L’INPS precisa che non produce alcuna decadenza dal diritto a beneficiare della riduzione contributiva al verificarsi dei seguenti eventi:

  • premorienza di uno o più figli;
  • eventuale uscita di uno o più figli dal nucleo familiare;
  • ipotesi di non convivenza di uno o più figli;
  • affidamento esclusivo al padre.

APPLICAZIONE ESONERO

L’applicazione dell’esonero spetta a partire dal mese di gennaio 2024, laddove la lavoratrice madre sia già in possesso dei requisiti richiesti, o dal mese di realizzazione dell’evento , per i casi in cui il presupposto (nascita secondo figlio o ulteriore figlio) si verifichi nel corso dell’anno.

Come precisato dalla circolare INPS, in caso di nascita di un figlio che fa sorgere il diritto dell’agevolazione o il compimento del limite di età che determina la cessazione dell’agevolazione, l’esonero spetta per l’intero mese in cui si verifica l’evento.

CARATTERISTICHE DELL’ESONERO

Come precisato dalla circolare INPS 27/2024, fermo restando l’aliquota di computo delle prestazioni pensionistiche (non c’è alcuna decurtazione dell’aliquota di computo delle prestazioni pensionistiche per le lavoratrici) la misura dell’agevolazione, consiste in un esonero del 100% dei contributi IVS al loro carico nel limite massimo di € 3.000,00 annui da riparametrare su base mensile.

Viene prevista la compatibilità con altri rapporti, quindi la lavoratrice titolare di più rapporti può avvalersi dell’esonero per ciascun rapporto di lavoro.

La soglia massima di esonero della contribuzione di cui usufruisce la lavoratrice è:

  • periodo di paga mensile € 250,00 (€ 3.000,00/12)
  • rapporti instaurati o cessati nel corso del mese, riproporzionamento € 8,06 (€ 250,00/31) per ogni giorno di fruizione dell’esonero contributivo).

Le soglie su esposte, trovano applicazione senza alcuna riparametrazione anche nei rapporti di lavoro part-time.

ADEMPIMENTO DELLE LAVORATRICI MADRI

Le lavoratrici che essendo in possesso dei requisiti previsti dalla normativa, avendo diritto all’esonero devono comunicare al proprio datore di lavoro la volontà di fruire della misura in oggetto. Nel caso specifico è necessario comunicare i codici fiscali dei figli al fine di comprovare la sussistenza del diritto all’esonero. Si ritiene opportuno precisare l’importanza di tale adempimento poiché in assenza, l’INPS procede alla revoca del beneficio con eventuale restituzione di quanto già eventualmente fruito a tale titolo. La lavoratrice può comunicare direttamente al proprio datore di lavoro quanto richiesto, o avvalersi di un apposito applicativo messo a disposizione dell’INPS .

 

(FAC SIMILE COMUNICAZIONE)

Spett.le AZIENDA

La sottoscritta _____________ in forza presso la Vostra azienda dal____________ con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato dal____________ consapevole delle sanzioni penali richiamate dall’art. 76 ai sensi del D.P.R. n. 445/2000 in caso di dichiarazioni mendaci e di formazione o uso di atti falsi, dichiara di essere madre dei figli sotto indicati:

COGNOME E NOME DATA DI NASCITA CODICE FISCALE

________________ _______________ _________________________

________________ _______________ _________________________

________________ ________________ ________________________

________________ ________________ ________________________

In base alle informazioni riportate e ai dati forniti

DICHIARO

Di aver diritto alla fruizione dell’esonero a favore delle lavoratrici madri di cui all’art. 1, commi 180 – 182 della legge 30 dicembre 2023, n. 213, a partire dal periodo ___________ e fino a tutto il periodo _____________.

 

Firma della lavoratrice

_______________________

 

STUDIO CONSULENZA LAVORO
Cdl Paolo Grimaldi

Nuove frontiere dell’Economia e del Lavoro: dopo lo Smart Working arriva il Chronoworking

Si sente parlare di Chronoworking o di Crono- lavoro.

Qualcuno in maniera forse prematura intravede in questi termini una vera e propria rivoluzione per il mondo del lavoro.

Ci riferiamo al termine Chronoworking coniato dalla giornalista britannica Ellen Scott che ce lo presenta come un’evoluzione naturale del concetto di benessere sul posto di lavoro che dovrebbe accordare la prestazione con i bioritmi del lavoratore.

È forse presto per valutarne la portata e il destino soprattutto in termini così futuribili. Il concetto però va attentamente esaminato.

Ordinariamente, come sappiamo, il rapporto di lavoro si snoda e disciplina in termini di luogo e di tempo. In questo caso sarebbe operata un’importante rivoluzione.

L’autrice, come già accennato, opera un collegamento tra l’organizzazione della giornata lavorativa ed i bioritmi dei dipendenti.

Limitiamoci, per ora, a considerare il tutto come un fattore di libera organizzazione del tempo di lavoro.

Andiamo quindi a verificare l’ambito in cui si pone questo nuovo concetto di lavoro.

Se si vuole collegare il sorgere di questa tendenza a superare i rigidi termini di contenimento della prestazione lavorativa, il riferimento va al periodo post pandemico, allorquando l’organizzazione del lavoro era costantemente alla ricerca di moduli creativi per superare le difficoltà di contatto e trattenere il personale. Si proponeva così lo Smart Working, la settimana lavorativa ridotta ed altro, aprendo la strada a modelli ancora maggiormente creativi.

Lo stesso istituto del Lavoro Agile o Smart Working se rigidamente collegato agli orari di lavoro ed a regole rigide, assume un significato alquanto limitato.

Una volta sganciata la prestazione dal limite di luogo e quindi da un assiduo e costante controllo, è quasi automatico l’affidamento della stessa ad un orario verificabile, ma organizzato dal lavoratore, se non addirittura ad un semplice vincolo quantitativo e qualitativo di produzione da tradursi in un valore orario e quindi economico.

Il superamento di questi limiti sino ad oggi intrinseci alla prestazione di lavoro subordinato non ne esauriscono il concetto e pertanto si dovrà sempre parlare di rapporto di lavoro dipendente.

Essi appaiono infatti come una nuova forma di flessibilità.

Il termine flessibilità nell’ambito del lavoro evoca esperienze non sempre felici soprattutto per i prestatori di lavoro.

Dobbiamo però affrontare queste novità senza preconcetti per verificare se, ove la tipologia del lavoro lo renda possibile, l’organizzazione del tempo di lavoro affidata al dipendente non rappresenti non solo un miglioramento dell’organizzazione e della produzione, ma pure, al di là dei bioritmi, una migliore organizzazione della vita del lavoratore.

Ne dovrebbe quindi derivare una diminuzione dello stress che oggi connota molti rapporti di lavoro, consentendo ai dipendenti di lavorare in modo più equilibrato e sostenibile, aumentando la soddisfazione.

Appare evidente come una simile organizzazione del lavoro non possa coinvolgere tutte le tipologie di prestazione.

Ne risultano evidentemente esclusi tutti quei rapporti di lavoro che coinvolgono rapporti diretti con l’utenza e la clientela che ineriscono a schemi orari di contatto e presenza fisica, come pure i rapporti che presuppongono relazione di controllo e gerarchiche con altro personale.

Chiaramente la contrattazione collettiva non appare idonea a disciplinare una relazione di lavoro dove è il singolo lavoratore ad organizzare individualmente i tempi ed i modi della propria prestazione.

È altresì vero che la mancanza di una cornice di regolazione legale o collettiva potrebbe introdurre abusi e distorsioni.

Sarebbe quindi opportuno ricorrere ad una disciplina quadro di natura collettiva per poi regolare in maniera conforme gli accordi individuali.

Fabio Petracci

Salario Minimo e Appalti. Dal contratto Multiservizi alla normativa in tema di appalti e di lavoro. Due trattamenti differenziati per appalti pubblici e non

Nonostante in sede istituzionale sia momentaneamente chiuso il discorso sul salario minimo, sempre peraltro sollecitato da molteplici indirizzi giurisprudenziali, proprio nell’ambito degli appalti dove la protezione del lavoro rischia di essere minore, sorgono per committente ed appaltatore importanti obblighi per il rispetto dei minimi retributivi.

Ciò dimostra la perenne vitalità ed il carattere fondamentale dell’articolo 36 della Carta Costituzionale.

Per quanto riguarda i più recenti indirizzi giurisprudenziali, i giudici del lavoro sono giunti a sindacare i minimi tabellari negoziati dalle sigle sindacali, verificandoli in ragione dei parametri costituzionali. (Cassazione 2 ottobre 2023 n.27722).

Tornando alla materia degli appalti, viene alla ribalta il contratto Multiservizi che il Tribunale di Milano con sentenza 11 settembre 2023, in forza dell’articolo 3 della legge n.12/2001 applicabile alle cooperative, ha ritenuto non affine all’oggetto dell’appalto considerato e quindi non applicabile ai dipendenti dall’appaltatore.

Il concetto di affinità all’oggetto dell’appalto (vedasi anche Tribunale di Genova 31/2022) riporta in qualche modo al contratto collettivo applicato nel settore dal committente.

È così introdotto un ulteriore elemento di complessità in qualche modo in controtendenza con gli ultimi interventi legislativi di sostanziale flessibilità (Legge Biagi – d.lgs. n.276/2003) che hanno abrogato il vincolo di parità di trattamento retributivo tra i dipendenti del committente e quelli dell’appaltatore.

Nel frattempo, è pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n.52 del 2 marzo 2024, il decreto legge 2 marzo 2024 n.19.

Tra le disposizioni di maggiore interesse, troviamo le modifiche apportate al d.lgs. n. 276/2003 articolo 29, che nel nuovo testo al comma 1-bis stabilisce che al personale impiegato nell’appalto di opere o servizi e nell’eventuale subappalto è corrisposto un trattamento economico complessivo non inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale e territoriale maggiormente applicato nel settore e per la zona il cui ambito di applicazione sia strettamente connesso con l’attività oggetto dell’appalto.

Il testo precedente in vigore sino al 1° marzo 2024 nulla prevedeva in merito.

In realtà, la nuova normativa in tema di applicazione della contrattazione collettiva era già stata introdotta con il nuovo codice degli appalti, che all’art. 11, comma 1 stabilisce che “Al personale impiegato nei lavori, servizi e forniture oggetto di appalti pubblici e concessioni è applicato il contratto collettivo nazionale e territoriale in vigore per il settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni di lavoro, stipulato dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e quello il cui ambito di applicazione sia strettamente connesso con l’attività oggetto dell’appalto o della concessione svolta dall’impresa anche in maniera prevalente”.

Notiamo infatti che il predetto articolo 11 del codice degli appalti trova applicazione esclusiva negli appalti pubblici e fa riferimento ai contratti stipulati dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative.

Quest’ultimo riferimento invece manca nell’ambito generale lavoristico rappresentato dal nuovo testo dell’articolo 29 del d.lgs. n.276/2003 laddove il riferimento va al trattamento economico complessivo non inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale e territoriale maggiormente applicato nel settore e per la zona il cui ambito di applicazione sia strettamente connesso con l’attività oggetto dell’appalto.

Quindi il trattamento retributivo in questo caso va inteso in senso generale e complessivo alla contrattazione di zona e di settore.

Fabio Petracci