Jobs Act – tutele crescenti e reintegra – l’insussistenza del fatto contestato

Licenziamento – articolo 18 legge 300/1970 come modificato dall’articolo 1, comma 42 della legge n.92 del 2012.

Insussistenza del fatto contestato – comprende anche l’ipotesi del fatto sussistente, ma privo del carattere di illiceità – in tal caso si applica la sanzione della reintegrazione.

Lo afferma una recente sentenza della Corte di Cassazione che di seguito viene trascritta e che ha confermato analoga pronuncia concernente rapporto di lavoro disciplinato dal Jobs Act.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 08-11-2019, n. 28926

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – rel. Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –

Dott. PICCONE Valeria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 4540-2018 proposto da:

OBI ITALIA S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA SALLUSTIO 9, presso lo studio dell’avvocato LORENZO SPALLINA, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato LORENZO BOMBACCI;

– ricorrente –

contro

F.O.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 522/2017 della CORTE D’APPELLO di ANCONA, depositata il 27/11/2017 R.G.N. 387/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 23/05/2019 dal Consigliere Dott. PAOLO NEGRI DELLA TORRE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SANLORENZO RITA che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato LORENZO BOMBACCI.

Svolgimento del processo

1. Con sentenza n. 522/2017, pubblicata il 27 novembre 2017, la Corte di appello di Ancona ha confermato la sentenza, con la quale il Tribunale della medesima sede aveva dichiarato illegittimo il licenziamento per giusta causa intimato, in data 24 febbraio 2016, a F.O. da OBI Italia S.r.l. in relazione a plurimi addebiti allo stesso contestati con lettere del 13 gennaio e del 15 febbraio 2016, con la condanna della società alla reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento di una indennità risarcitoria determinata in dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

2. La Corte di appello ha ritenuto a sostegno della propria decisione: – quanto al fatto che il lavoratore, all’epoca gerente del punto vendita di (OMISSIS), avesse consigliato di ripianare un ammanco di cassa mediante versamenti personali dei dipendenti e omesso di informare la direzione aziendale dell’accaduto, che la relativa contestazione era stata tardivamente formulata, posto che l’ammanco si era verificato nell'(OMISSIS); – quanto al fatto di aver consentito che alcuni dipendenti fossero segnalati ai clienti come installatori accreditati dal punto vendita, che tale condotta, comunque limitata a pochi ed eccezionali casi di urgenza, fosse tollerata in virtù di una prassi aziendale consolidata e risalente nel tempo; – quanto alla vendita a prezzo ridotto di taluni quantitativi di pellet, che non era emerso dall’istruttoria che la merce fosse integra e senza difetti, risultando, in ogni caso, tra le facoltà del gestore del punto vendita, anche quella di operare sconti in caso di deterioramento; – quanto al fatto, oggetto di una precedente contestazione disciplinare, di essersi espresso in modo inurbano durante un colloquio telefonico con un rappresentante sindacale, che il relativo procedimento era stato archiviato, con conseguente operatività del divieto di bis in idem; – quanto al fatto di avere impedito di effettuare rimborsi ai clienti e di avere obbligato i dipendenti a convincere gli stessi ad aderire a cambi merci, che non si trattava di costrizione ma di persuasione, come emerso in sede istruttoria, integrando la condotta così addebitata, pur parzialmente inosservante delle direttive aziendali, una mancanza soggetta a sanzione disciplinare conservativa e non espulsiva, come anche il dimostrato uso abituale di linguaggio scurrile nell’ambiente di lavoro, anch’esso oggetto di contestazione; – che infine fosse insufficiente la prova del fatto di avere spinto una lavoratrice madre a dimettersi o a chiedere la riduzione di orario e, quanto al fatto di avere rivolto un’accusa di tossicodipendenza ad una dipendente, che tale addebito, alla stregua delle risultanze istruttorie, dovesse essere ridimensionato.

3. Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza la società, affidandosi a cinque motivi, assistiti da memoria.

4. Il lavoratore è rimasto intimato.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo, deducendo la violazione o falsa applicazione di norme di diritto con riferimento alla L. n. 300 del 1970, art. 7 e agli artt. 1175 e 1375 c.c., la ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto tardiva la contestazione disciplinare, senza considerare che la valutazione del principio di immediatezza deve essere condotta in base al criterio di relatività, e cioè avendo riguardo alle circostanze di natura oggettiva (come la complessità e l’articolazione dell’impresa sul territorio) che possono ritardare la percezione o l’accertamento dei fatti, ed inoltre senza considerare che ciò che rileva, ai fini dell’indagine circa la tempestività della contestazione, non è il momento dell’astratta conoscibilità dell’infrazione commessa ma quello in cui il datore di lavoro ne acquisisca una reale e piena conoscenza.

2. Con il secondo viene dedotta la violazione o falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, commi 4 e 5, per avere la Corte di appello, confermando la decisione di primo grado, ritenuto che dovesse applicarsi la tutela della reintegrazione nel posto di lavoro, sebbene in caso di tardività della contestazione, come nell’ipotesi di fatto sussistente ma privo di illiceità, la tutela da riconoscersi a favore del lavoratore potesse essere soltanto quella risarcitoria.

3. Con il terzo e con il quarto viene dedotto il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 per omesso esame di fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti, fatto consistito (3) nella difficoltà incontrata dalla società nell’accertamento dei fatti a causa della condotta degli altri dipendenti del punto vendita, fra cui in particolare il comportamento connivente dell’area manager; (4) in una delle condotte contestate, avente ad oggetto il ripetuto impiego di modi ineducati nei confronti di taluni dipendenti.

4. Con il quinto viene dedotta la violazione o falsa applicazione degli artt. 2119 e 2697 c.c. e degli artt. 220 e 229 c.c.n.l. Commercio per avere la Corte di appello, con l’affermazione che l’unico fatto di rilievo disciplinare dimostrato in giudizio era costituito dall’uso abituale di linguaggio scurrile nell’ambiente di lavoro, offerto una valutazione assolutamente riduttiva dei fatti di causa e del tutto contraria alle risultanze istruttorie.

5. Il primo motivo è infondato.

6. Il principio dell’immediatezza della contestazione mira, da un lato, ad assicurare al lavoratore incolpato il diritto di difesa nella sua effettività, così da consentirgli il pronto allestimento del materiale difensivo per poter contrastare più efficacemente il contenuto degli addebiti, e, dall’altro, nel caso di ritardo della contestazione, a tutelare il legittimo affidamento del prestatore – in relazione al carattere facoltativo dell’esercizio del potere disciplinare, nella cui esplicazione il datore di lavoro deve comportarsi in conformità ai canoni della buona fede – sulla mancanza di connotazioni disciplinari del fatto incriminabile (Cass. n. 13167/2009, fra altre numerose conformi).

7. Come pure è stato ripetutamente affermato nella giurisprudenza di questa Corte, il criterio dell’immediatezza deve essere inteso in senso relativo, poichè si deve tener conto delle ragioni che possono far ritardare la contestazione, tra cui il tempo necessario per il compimento delle indagini dirette ad accertare i fatti e la complessità dell’organizzazione aziendale: la valutazione in proposito compiuta dal giudice di merito è insindacabile in sede di legittimità se sorretta da motivazione adeguata e priva di vizi logici (Cass. n. 281/2016).

8. Nella specie, la Corte di appello, con una congrua e corretta motivazione, comunque non oggetto di (ammissibile) censura, ha ritenuto tardiva la contestazione disciplinare, in relazione agli addebiti concernenti il ripianamento dell’ammanco di cassa e la svendita di pellet, osservando come, essendo stato informato di entrambi i fatti l’area manager, e cioè la figura apicale dell’azienda nel punto vendita, secondo quanto l’istruttoria aveva consentito di accertare, era da ritenere che la datrice di lavoro ne avesse avuto piena e immediata conoscenza e ciò anche sul rilievo – conforme a consolidato principio di diritto (Cass. n. 15467/2004; n. 9894/1993) – che il ritardo nella contestazione dell’addebito non può essere giustificato dal fatto che i diretti superiori gerarchici del lavoratore abbiano omesso di riferire tempestivamente agli organi titolari del potere disciplinare in ordine all’infrazione posta in essere dal dipendente.

9. Il secondo motivo è parimenti infondato.

10. La Corte territoriale ha invero accertato, in relazione a taluni addebiti, la materiale insussistenza del fatto, così come contestato (con riferimento all’uso di un linguaggio scurrile e irrispettoso delle prerogative sindacali, l’intervenuta consumazione del potere disciplinare per lo stesso fatto storico e violazione del principio di ne bis in idem, essendo stato archiviato un precedente procedimento disciplinare); ha poi accertato, in relazione ad altri addebiti, elementi idonei ad escludere la illiceità della condotta: come l’esistenza di una prassi consolidata e risalente nel tempo, tollerata dall’azienda, per l’addebito avente ad oggetto il consenso prestato all’attività di installazione da parte di dipendenti del punto vendita, la cui prova, peraltro, ha osservato la Corte non essere stata neppure raggiunta con certezza; e come il fatto che nelle facoltà del gestore del punto vendita fosse compresa anche quella di praticare sconti, specie in caso di merce deteriorata, per l’addebito relativo alla contestata “svendita” di bancali di pellet.

11. Ne consegue che la Corte ha correttamente richiamato e applicato il principio, per il quale l’insussistenza del fatto contestato, di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18 come modificato dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 42, “comprende l’ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, sicchè in tale ipotesi si applica la tutela reintegratoria, senza che rilevi la diversa questione della proporzionalità tra sanzione espulsiva e fatto di modesta illiceità” (Cass. n. 20540/2015; conformi, fra le molte: Cass. n. 18418/2016; n. 11322/2018).

12. Il terzo e il quarto motivo, da trattare congiuntamente in quanto connessi, risultano inammissibili per effetto della preclusione di cui all’art. 348 ter c.p.c., u.c., (c.d. “doppia conforme), a fronte di giudizio di secondo grado introdotto con reclamo depositato il 25 agosto 2017 e, pertanto, in epoca successiva all’entrata in vigore della norma.

13. Nè la ricorrente, al fine di evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, ha indicato le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. n. 5528/2014 e successive conformi).

14. Egualmente inammissibile risulta il quinto motivo di ricorso.

15. Al riguardo si deve innanzitutto ribadire che “la violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (sindacabile, quest’ultima, in sede di legittimità, entro i ristretti limiti del “nuovo” art. 360 c.p.c., n. 5): Cass. n. 13395/2018.

16. In realtà la ricorrente, sotto il velo della denuncia del vizio di cui all’art. 360, n. 3, lungi dal dedurre una violazione in senso proprio, sotto il profilo dell’affermazione o della negazione dell’esistenza della norma in contestazione, ovvero dal dedurre una falsa applicazione determinata da un errore di sussunzione, ha inteso rimettere in discussione l’accertamento di fatto posto in essere dal giudice del merito con riferimento alla gravità dei fatti contestati e alla loro idoneità a integrare la fattispecie della giusta causa, anche tenuto conto delle previsioni della contrattazione collettiva in materia di licenziamento in tronco.

17. In conclusione, il ricorso deve essere respinto.

18. Non vi è luogo a pronuncia sulle spese del giudizio, essendo il lavoratore rimasto intimato.

P.Q.M.

La Corte respinge il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 23 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 8 novembre 2019.

Nota.

Nel caso di specie, si procedeva al licenziamento di un dipendenti per fatti non solo contestati tardivamente ma la cui materialità non lasciava trasparire alcuna valenza disciplinare. Il rapporto di lavoro risulterebbe sorto anteriormente al regime delle tutele crescenti introdotto con il Jobs Act DLGS 23/2015.

Prima dell’entrata in vigore del Jobs Act e quindi limitatamente ai lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, la reintegra nel caso di licenziamento privo di giusta causa avveniva allorquando fosse stata accertata l’insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientrava tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili.

Successivamente all’entrata in vigore delle cosiddette “Tutele Crescenti”la reintegra opera esclusivamente come testualmente stabilito dalla legge di fronte all’insussistenza materiale del fatto contestato al lavoratore.

Già in precedenza ed in tema di interpretazione del concetto di “fatto materiale” di cui al DLGS 23/2015 , la Cassazione – Sezione Lavoro n.12174/2019 . La Suprema Corte ha voluto così assolutamente identificare l’insussistenza del fatto materiale di cui al DLGS 23/2015 all’insussistenza del fatto contestato di cui all’articolo 18, comma 4 della legge 300/70, con un ragionamento che viene di seguito testualmente riprodotto:

“Il medesimo criterio razionale che ha già portato questa Corte a ritenere che “quanto alla tutela reintegratoria, non è plausibile che il Legislatore, parlando di “insussistenza del fatto contestato”, abbia voluto negarla nel caso di fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, ossia non suscettibile di alcuna sanzione” (in termini, ab imo, Cass. n. 20540 del 2015), induce il convincimento, sia pure in presenza di un dato normativo, parzialmente mutato, che la irrilevanza giuridica del fatto, pur materialmente verificatosi, determina la sua insussistenza anche ai fini e per gli effetti previsti dal D.Lgs. n. 23 del 2015, art. 3, comma 2.”

Giova ricordare che il DLGS 23/2015 è già stato in parte dichiarato incostituzionale con la pronuncia della Consulta n.194/2018 in merito alla predeterminazione delle forme di risarcimento.

Sono inoltre state emesse n.2 ordinanze; una del Tribunale di Milano in data 5.8.2019 che rinvia alla Corte di Giustizia le differenze di trattamento tra lavoratori soggetti alla legge 223/91 ed il cennato DLGS 23/2015, nonché la coeva ordinanza del Tribunale di Bari del 18.4.2019 che rinvia alla Corte Costituzionale le previsioni di legge che stabiliscono un minore risarcimento nel caso di licenziamento affetto da vizio di forma.

Buoni pasto e riposi per maternità

Riposi per maternità e buoni pasto.

Alcune lavoratrici fruivano delle 2 ore di riposo qualificati dall’articolo 39 del DLGS 151/2001 come riposi giornalieri della lavoratrice madre da fruire durante il primo anno di vita del bambino.

Avutane risposta negativa, agivano in giudizio per vedersi riconosciuto il diritto in questione oltre all’indennità obiettivi di cui all’articolo 4 del CCNL delle Funzioni Centrali (già  Ministeri) del 2005 per il periodo di assenza, ed ulteriori istituti determinati dalla presenza in servizio.

Nel primi due gradi di giudizio, le lavoratrici ottenevano ragione ed alla fine il Ministero datore di lavoro ricorreva alla Corte di Cassazione.

Quest’ultima confermava i punti concernenti le indennità premiali equiparando l’assenza per maternità alla presenza in servizio, nel mentre riteneva non dovuti i buoni pasto,  ritenendo  che l’equiparazione del periodo di assenza per maternità di cui al già citato articolo 39, comma 1 vale esclusivamente ai fini della durata del rapporto di lavoro in ordine alla retribuzione, ma non per le modalità concrete con le quali viene svolta la prestazione lavorativa, In altri termini, specifica la Corte di Cassazione,  l’art. 39 è diretto a favorire la conciliazione tra la vita professionale e quella familiare, stabilendo nei confronti della lavoratrice madre o del padre il diritto ad una o due ore di riposo giornaliero (a seconda della durata della giornata lavorativa) per accudire i figli, entro il primo anno di età, senza specificare la collocazione temporale dei riposi, ma limitandosi a stabilire che, qualora essi siano due, possano anche essere cumulati, ma senza equiparazione alcuna ai periodi effettivamente lavorati.

Di seguito il testo integrale della sentenza:

Cassazione Sezione Lavoro, Sentenza 28-11-2019, n. 31137

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – rel. Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 27021-2014 proposto da:

AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI, C.F. (OMISSIS), successore dell’AMMINISTRAZIONE AUTONOMA DEI MONOPOLI DI STATO – AAMS, DIREZIONE REGIONALE PER LA LOMBARDIA, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia in ROMA, ALLA VIA DEI PORTOGHESI 12, ope legis;

– ricorrente –

contro

B.B., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE ANGELICO 54, presso lo studio dell’avvocato TERESA SANTULLI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato ANTONELLA GALLO;

– controricorrente –

e contro

BU.GI., S.M.G., SA.MA.MA.RO., V.C.;

– intimati – avverso la sentenza n. 726/2014 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 05/08/2014 R.G.N. 391/12;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26/09/2019 dal Consigliere Dott. LUCIA TRIA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CIMMINO Alessandro, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato FABIO D’ADDARIO per delega Avvocato ANTONELLA GALLO.

Svolgimento del processo

1. La sentenza attualmente impugnata (depositata il 5 agosto 2014) respinge l’appello dell’Agenzia delle Dogane avverso la sentenza del Tribunale di Milano n. 6025/2011, di accoglimento integrale del ricorso proposto da B.B. e dai litisconsorti indicati in epigrafe, onde ottenere – a seguito della nascita dei propri figli negli anni dal (OMISSIS) – dalla loro datrice di lavoro, Agenzia delle Dogane, “il riconoscimento dell’incidenza” dei rispettivi permessi di allattamento, dei periodi di astensione obbligatoria per maternità e/o dei congedi parentali ai fini dell’attribuzione del diritto ai buoni pasto, all’indennità di produttività d’ufficio, all’indennità di obiettivo istituzionale, al cumulo dei periodi di riposo per allattamento con i permessi retribuiti e con i periodi di utilizzo della c.d. banca ore.

La Corte d’appello di Milano, per quel che qui interessa, precisa che:

a) deve essere respinto il primo motivo di gravame che riguarda l’indennità di produttività (di cui all’art. 4 del CCNL 15 gennaio 2005) in relazione ai periodi di congedo suddetti, in quanto l’art. 55 del CCNL del Comparto delle Agenzie fiscali sottoscritto il 28 maggio 2004 stabilisce che, in caso di congedo parentale e di interdizione anticipata dal lavoro, al dipendente spetta l’intera retribuzione, comprese le quote di incentivi eventualmente previste dalla contrattazione integrativa;

b) deve anche essere precisato che il CCNI dell’Agenzia delle Dogane del 29 luglio 2008 (quadriennio 2002-2005) prevede la liquidazione ai dipendenti dell’indennità di professionalità (ora indennità di obiettivo istituzionale) e dell’indennità di produttività ufficio (artt. 14 e 15);

c) quanto stabilito dall’art. 55 cit. trova anche riscontro nel D.L. n. 112 del 2008, art. 71, comma 5, convertito dalla L. n. 133 del 2008, che in via eccezionale, ai fini della distribuzione delle somme dei fondi per la contrattazione integrativa (di regola derivante dalla presenza in ufficio), ha sancito l’equiparazione alla presenza in servizio della assenze dal servizio dei dipendenti dovute, fra l’altro, al congedo di maternità, compresa l’interdizione anticipata dal lavoro, nonchè al congedo di paternità;

d) di conseguenza, tale equiparazione vale per la ripartizione delle componenti variabili della retribuzione, regolate dalla contrattazione integrativa, come quelle in esame;

e) le suindicate disposizioni normative e contrattuali consentono di superare l’art. 4 del CCNI 15 dicembre 2005 e l’art. 3, comma 2, della “Preintesa sulla utilizzazione delle risorse del Fondo per le politiche di sviluppo delle risorse umane e per la produttività” del 9 dicembre 2008, secondo cui gli incentivi in questione sono da parametrare alle “ore ordinarie di servizio effettivamente prestato”;

f) invero, il suddetto criterio vale come regola generale, ma tale regola generale non trova applicazione per le ipotesi di assenza per cui è causa, come si è detto;

g) è da condividere l’equiparazione – contestata dall’Agenzia – delle ore di permesso per allattamento alle ore di effettiva presenza in ufficio effettuata dal primo Giudice a tutti i fini oggetto della presente causa;

h) ciò vale, in particolare, anche per l’erogazione dei buoni pasto, indipendentemente dal rientro in azienda e anche in assenza di pausa;

i) la suddetta equiparazione è, infatti, espressamente stabilita dal D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 39 secondo cui i permessi in questione “sono considerati ore lavorative agli effetti della durata e della retribuzione del lavoro” ed anche la giurisprudenza di legittimità si è pronunciata in tal senso;

I) non rileva, in contrario, l’eventuale mancanza di pausa, perchè la pausa costituisce un diritto del lavoratore la cui presenza in ufficio si protragga oltre le sei ore, non un onere al quale possa essere subordinata l’attribuzione dei buoni pasto, come di desume dall’art. 40 del CCNL cit.;

m) in tal senso depongono sia il D.P.C.M. 18 novembre 2005, art. 5, lett. c) – che prevede l’attribuibilità dei buoni pasto anche se l’orario di lavoro non stabilisce una pausa per il pasto – sia lo stesso art. 39 cit., secondo cui il permesso per l’allattamento implica il “diritto ad uscire dall’azienda”, diritto che non può precludere il riconoscimento del buono pasto pure in assenza di una pausa;

n) del resto, sia il Comitato Nazionale di Parità (9 marzo 1999), sia l’ARAN (nota del 15 gennaio 1999), sia il Ministero delle Attività Produttive (provv. del 2 febbraio 2006) hanno espressamente previsto la spettanza dei buoni pasto in caso di fruizione dei permessi per l’allattamento;

o) infine, il carattere generale dell’equiparazione di cui all’art. 39 cit. impone di considerare le ore di permesso per l’allattamento quali ore di effettivo servizio sia per l’attribuzione degli incentivi di cui alla contrattazione collettiva, sia per il cumulo con i periodi di fruizione delle ore accantonate nella “banca ore”, pure nei casi in cui tale cumulo copra l’intera giornata lavorativa e la presenza in servizio venga quindi a mancare del tutto;

p) tale conclusione trova conferma nella circolare dell’INPS n. 95-bis del 6 settembre 2006;

o) per tutte le anzidette ragioni la sentenza appellata va integralmente confermata.

2. Il ricorso dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli (Direzione regionale per la Lombardia), rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, domanda la cassazione della sentenza per tre motivi; resistono, con un unico controricorso, B.B. e gli altri litisconsorti indicati in epigrafe.

3. Entrambe le parti depositano anche memorie ex art. 378 c.p.c.

Motivi della decisione

1 – Profili preliminari.

1. Preliminarmente va respinta l’eccezione dei controricorrenti di inammissibilità del ricorso ex art. 360-bis c.p.c., n. 1, per essere la sentenza impugnata conforme alla giurisprudenza di legittimità e non offrendosi nel ricorso argomenti validi per modificare il suddetto indirizzo.

Deve essere, infatti, precisato che tale eccezione è basata sull’erroneo presupposto dell’esistenza, con riguardo alle questioni qui dibattute, di una giurisprudenza di questa Corte “consolidata” che sarebbe stata seguita dalla Corte d’appello, mentre le questioni controverse sono da considerare per la maggior parte sostanzialmente nuove per la giurisprudenza di legittimità.

1.1. Peraltro, per costante orientamento di questa Corte, le situazioni di inammissibilità indicate nell’art. 360-bis c.p.c., comma 1, non integrano dei nuovi motivi di ricorso accanto a quelli previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, in quanto sono state configurate dal legislatore come strumenti utili alla specifica funzione di “filtro”, dei ricorsi per cassazione di agevole soluzione, sicchè sarebbe contraddittorio trarne la conseguenza di ritenere ampliato il catalogo dei vizi denunciabili (vedi, per tutte: Cass. 29 ottobre 2012, n. 18551; Cass. 8 aprile 2016, n. 6905).

In particolare, quanto all’ipotesi di cui all’art. 360-bis c.p.c., n. 1 – che viene qui in considerazione – è stato precisato che la funzione di filtro dell’ipotesi di inammissibilità prevista dalla disposizione consiste nell’esonerare la Suprema Corte dall’esprimere compiutamente la sua adesione al persistente orientamento di legittimità, così consentendo una più rapida delibazione dei ricorsi “inconsistenti” (Cass. SU 21 marzo 2017, n. 7155).

1.2. Il presente ricorso non risponde a tale schema proprio perchè le censure con esso proposte non contestano alcun orientamento “consolidato” di questa Corte cui si sarebbe uniformata la Corte territoriale ed è quindi necessario esaminarle nel merito.

2. – Sintesi dei motivi di ricorso.

1. Il ricorso è articolato in tre motivi.

1.1. Con il primo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 7, comma 5 e art. 45; del D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 22, comma 5, e dell’art. 4 del CCNI del 15 novembre 2005 nonchè dell’art. 3, comma 2 della “Preintesa sulla utilizzazione delle risorse del Fondo per le politiche di sviluppo delle risorse umane e per la produttività” del 9 dicembre 2008 e degli artt. 1362 c.c. e ss., con riguardo al riconoscimento dell’indennità di produttività, avvenuto in base all’art. 55 del CCNL Comparto Agenzie Fiscali del 28 maggio 2004 e al D.L. 25 giugno 2008, n. 112, art. 71 convertito dalla L. 6 agosto 2008, n. 133.

Ad avviso della Agenzia ricorrente l’interpretazione sul punto della Corte d’appello – fondata sulla equiparazione delle ore di congedo per maternità/paternità alla presenza in ufficio del dipendente, ai fini della corresponsione dell’indicata indennità – sarebbe erronea perchè, ponendosi in contrasto con la normativa invocata e in particolare con l’art. 4 del CCNI (volto a premiare la presenza dei dipendenti in ufficio, in coerenza con il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 7, comma 5), si è tradotta nella equiparazione tra ore di assenza ed ore di lavoro effettivo, in caso di congedo parentale, per tutta la durata dei periodi cui si riferiscono le domande dei dipendenti (i cui figli sono nati negli anni dal (OMISSIS)).

Di conseguenza la Corte territoriale ha disposto la liquidazione dell’indennità di produttività – secondo il criterio adottato e contestato – anche per gli anni dal 2002 al 2006, in cui la disciplina era dettata dal citato art. 4 del CCNI, così facendo retroagire illegittimamente gli effetti del D.L. n. 112 del 2008, art. 71, comma 5, convertito dalla L. n. 133 del 2008, di cui l’Agenzia aveva dato applicazione già a partire dall’anno 2007.

Il suddetto art. 71, comma 5, ha previsto, ai fini della distribuzione delle somme dei fondi per la contrattazione integrativa, l’equiparazione alla presenza in servizio della assenze dal servizio dei dipendenti dovute, fra l’altro, al congedo di maternità, compresa l’interdizione anticipata dal lavoro nonchè al congedo di paternità.

Tuttavia tale norma non solo era priva di efficacia retroattiva, ma è stata abrogata dal D.L. 1 luglio 2009, n. 78, art. 17, comma 23, lett. d), convertito dalla L. 3 agosto 2009, n. 102, sicchè essa può essere applicata soltanto alle assenze effettuate nel periodo compreso tra la vigenza del D.L. n. 112 del 2008 e quella del D.L. n. 78 del 2009.

Di tutto questo la Corte d’appello non ha tenuto conto.

1.2. Con il secondo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 39 e dell’art. 98 del CCNL 28 maggio 2004, in riferimento al riconoscimento dei buoni pasto.

Si rileva che tale statuizione è fondata sulla ritenuta applicabilità dell’equiparazione delle ore di permesso per allattamento all’effettiva presenza in ufficio ai fini dell’attribuzione dei buoni pasto e a prescindere dalla pausa per consumazione del pasto, mentre di tratta di un diritto riconosciuto al lavoratore a condizione che la sua presenza sul lavoro si protragga oltre le sei ore.

Si sostiene che una simile interpretazione si pone in contrasto con le norme sopra richiamate nonchè con la natura giuridica dei buoni pasto quale stabilita dalla giurisprudenza di legittimità ed indicata anche dall’ARAN (nota n. 9186 del 26 ottobre 2006).

Nè il Giudice d’appello ha correttamente valutato la posizione lavorativa dei ricorrenti – che, in ogni giornata lavorativa, hanno svolto 5,12 ore di lavoro effettivo e si sono giovati di 2 ore di riposo per allattamento – secondo le indicazioni della contrattazione collettiva.

Infatti, anche se i permessi per l’allattamento non comportano restrizioni sul fronte del trattamento retributivo, tuttavia non è ragionevole attribuire ai lavoratori che ne usufruiscono anche quegli speciali trattamenti assistenziali (quali sono i buoni pasto) previsti in favore dei lavoratori che non si allontanano dal luogo di lavoro.

1.3. Con il terzo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 39, comma 2, in riferimento al disposto riconoscimento in favore dei dipendenti di tutti gli ulteriori emolumenti richiesti, sempre sulla base dell’erronea premessa dell’equiparazione delle ore di permesso per allattamento all’effettiva presenza in ufficio.

Con riguardo a tali emolumenti la contrattazione collettiva non reca alcuna specifica disciplina.

Pertanto l’unica disposizione cui fare riferimento è il citato art. 39, comma 2, ove si riconosce “il diritto della donna ad uscire dall’ufficio” per fruire di brevi periodi di riposo, che concorrono nella durata dell’orario di lavoro, pur non configurandosi come attività lavorativa.

Tuttavia, dalla lettura del testo della disposizione si desume che il riconoscimento del suddetto diritto implica che l’interessata abbia fatto ingresso in ufficio o abbia effettivamente svolto la prestazione lavorativa.

Pertanto, sarebbe palesemente illegittima l’interpretazione – adottata dalla Corte d’appello – secondo cui, sulla base di tale norma, si arriva a riconoscere a dipendenti anche del tutto assenti dal servizio, per qualsiasi motivo, degli emolumenti accessori, a carattere speciale e tassativo, previsti esclusivamente per i dipendenti effettivamente presenti in ufficio.

3. – Esame delle censure.

3. L’esame delle censure porta al rigetto del primo e del terzo motivo di ricorso e all’accoglimento del secondo motivo, per le ragioni di seguito esposte.

4. Il primo motivo – con il quale si contesta il riconoscimento dell’indennità di produttività – è inammissibile per la parte in cui viene denunciata la violazione dell’art. 4 del CCNI del 15 novembre 2005 nonchè dell’art. 3, comma 2, della “Preintesa sulla utilizzazione delle risorse del Fondo per le politiche di sviluppo delle risorse umane e per la produttività” del 9 dicembre 2008, in primo luogo, perchè tali censure sono proposte senza osservare il principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione, in base al quale il ricorrente, qualora proponga delle censure attinenti all’esame o alla valutazione di documenti o atti processuali, è tenuto a trascriverne nel ricorso il contenuto essenziale e nel contempo a provvedere al relativo deposito insieme con il ricorso per cassazione stesso oppure a fornire alla Corte elementi sicuri per consentirne l’individuazione e il reperimento negli atti processuali (di recente: Cass. SU 23 settembre 2019, n. 23552 e n. 23553).

Il suddetto principio di applica anche ai contratti collettivi integrativi perchè come chiarito da questa Corte, con un consolidato e condiviso indirizzo, l’esenzione dall’onere di depositare, unitamente con il ricorso per cassazione, il contratto collettivo del settore pubblico su cui il ricorso si fonda deve intendersi limitata ai contratti nazionali, con esclusione di quelli integrativi, atteso che questi ultimi, attivati dalle Amministrazioni sulle singole materie e nei limiti stabiliti dai contratti collettivi nazionali, tra i soggetti e con le procedure negoziali che questi ultimi prevedono, hanno una dimensione di carattere decentrato rispetto al Comparto, pure nell’ipotesi in cui siano parametrati al territorio nazionale in ragione dell’Amministrazione interessata e per essi non è previsto, a differenza dei contratti collettivi nazionali, il particolare regime di pubblicità di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 47, comma 8, (vedi, per tutte: Cass. 11 aprile 2011, n. 8231; Cass. 12 ottobre 2016, n. 20554; Cass. 9 giugno 2017, n. 14449).

A maggior ragione il principio suddetto trova applicazione con riguardo agli altri atti della contrattazione collettiva diversi dai contratti collettivi nazionali di lavoro, quale è nella specie la suddetta Preintesa.

4.1. La mancata estensione per i contratti integrativi dell’esenzione dal duplice onere di depositare il contratto e di riportare nel ricorso il contenuto della normativa collettiva integrativa di cui censuri l’illogica o contraddittoria interpretazione comporta anche che la denuncia di tale ultimo vizio non possa essere formulata facendo esclusivo riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3 ma debba essere prospettata come violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale di cui agli artt. 1362 c.c. e ss..

Ciò significa che il ricorrente non solo deve fare puntuale riferimento alle regole legali d’interpretazione, mediante specifica indicazione dei canoni asseritamente violati ed ai principi in esse contenuti, ma deve, altresì, precisare in qual modo e con quali considerazioni il Giudice del merito se ne sia discostato, con l’ulteriore conseguenza dell’inammissibilità del motivo di ricorso che si fondi sull’asserita violazione delle norme ermeneutiche e si risolva, in realtà, nella proposta di una interpretazione diversa da quella adottata nella sentenza impugnata (tra le tante: Cass. 30 aprile 2010, n. 10554; Cass. 10 maggio 2018, n. 11254; Cass. 26 luglio 2019, n. 20294).

4.3. Nel presente motivo la Agenzia ricorrente si è limitata ad includere, nella rubrica, gli artt. 1362 c.c. e ss. tra le norme asseritamente violate, senza alcuna successiva specificazione al riguardo, nei sensi dianzi detti, nell’ambito delle argomentazioni delle censure.

4.4. Per il resto il primo motivo non è fondato.

4.4.1. In primo luogo va precisato che nella presente controversia non viene in considerazione l’astensione facoltativa per maternità (cui fa riferimento la Agenzia ricorrente in memoria), ma quella obbligatoria oltre ai congedi di maternità, di paternità e parentali, come chiaramente indicato nella sentenza impugnata.

4.4.2. Deve anche essere osservato che l’art. 55 CCNL del Comparto Agenzie fiscali del 28 maggio 2004 invocato dalla Corte d’appello ha avuto applicazione a partire dall’1 gennaio 2002, come risulta dallo stesso contratto, art. 2, comma 1 ove si precisa che: “il presente contratto concerne il periodo 1 gennaio 2002 – 31 dicembre 2005 per la parte normativa ed il periodo 1 gennaio 2002 – 31 dicembre 2003 per la parte economica”.

Pertanto, diversamente da quel che sostiene l’Agenzia ricorrente, la suindicata disposizione era applicabile anche per gli anni dal 2002 al 2006, come ritenuto dalla Corte territoriale, senza che nella sentenza impugnata sia stata effettuata alcuna illegittima retroazione degli effetti del D.L. n. 112 del 2008, art. 71, comma 5, convertito dalla L. n. 133 del 2008 (di cui l’Agenzia aveva dato applicazione a partire dall’anno 2007).

4.4.3. Detto questo, dalla piana lettura dell’art. 55 del CCNL del Comparto delle Agenzie fiscali cit. risulta che, con esso, si è fra l’altro stabilito che, oltre a quanto previsto dalle disposizioni in materia di tutela della maternità contenute nel D.Lgs. n. 151 del 2001, “ai fini del trattamento economico le parti concordano quanto segue: a) nel periodo di astensione obbligatoria, ai sensi del D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 16 e art. 17, commi 1 e 2 alla lavoratrice o al lavoratore, anche nell’ipotesi di cui al citato D.Lgs., art. 28 spetta l’intera retribuzione fissa mensile nonchè l’indennità di Agenzia di cui all’art. 87 (indennità di Agenzia) e l’indennità di posizione organizzativa di cui all’art. 28 (retribuzione di posizione e di risultato), ove spettante, e le quote di incentivo eventualmente previste dalla contrattazione integrativa”.

Questo regime ha trovato anche riscontro nel D.L. n. 112 del 2008, art. 71, comma 5, convertito dalla L. n. 133 del 2008, che in via eccezionale, ai fini della distribuzione delle somme dei fondi per la contrattazione integrativa (di regola derivante dalla presenza in ufficio), ha sancito l’equiparazione alla presenza in servizio della assenze dal servizio dei dipendenti dovute, fra l’altro, al congedo di maternità, compresa l’interdizione anticipata dal lavoro, nonchè al congedo di paternità.

4.4.4. Tale comma 5 è stato abrogato dal D.L. 1 luglio 2009, n. 78, art. 17, comma 23, lett. d), convertito dalla L. 3 agosto 2009, n. 102, che ha stabilito che gli effetti di tale abrogazione dovessero concernere le assenze effettuate successivamente alla data di entrata in vigore del suddetto D.L. n. 78 del 2009 (1 luglio 2009).

Tuttavia, ai fini che qui interessano, la suddetta abrogazione non ha rilievo in quanto il suindicato art. 55 CCNL cit. non risulta essere mai stato modificato o eliminato dalla contrattazione collettiva nazionale del Comparto Agenzie fiscali.

Anzi nell’art. 44 del CCNL 12 febbraio 2018 del Comparto Funzioni centrali Periodo 2016-2018 – applicabile ai dipendenti di tutte le Amministrazioni di tale Comparto, indicate all’art. 3 del CCNQ sulla definizione dei Comparti di contrattazione collettiva del 13 luglio 2016, ivi comprese l’Agenzia delle Entrate e l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, destinatarie dei precedenti CCNL del comparto Agenzie Fiscali (art. 1, comma 6, del suddetto CCNL) – si riprende, sostanzialmente, il contenuto precettivo del suddetto art. 55 (allargandone anche l’ambito applicativo) stabilendosi che:

“1. Al personale dipendente si applicano le vigenti disposizioni in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità contenute nel D.Lgs. n. 151 del 2001, come modificato e integrato dalle successive disposizioni di legge, con le specificazioni di cui al presente articolo.

2. Nel periodo di congedo per maternità e per paternità di cui al D.Lgs. n. 151 del 2001, artt. 1617 e 28 alla lavoratrice o al lavoratore spettano l’intera retribuzione fissa mensile, inclusi i ratei di tredicesima ove maturati, le voci del trattamento accessorio fisse e ricorrenti, compresa l’indennità di posizione organizzativa, nonchè i premi correlati alla performance secondo i criteri previsti dalla contrattazione integrativa ed in relazione all’effettivo apporto partecipativo del dipendente, con esclusione dei compensi per lavoro straordinario e delle indennità per prestazioni disagiate, pericolose o dannose per la salute”.

4.4.5. Poichè, com’è noto, la contrattazione collettiva integrativa si svolge sulle materie, con i vincoli e nei limiti stabiliti dai contratti collettivi nazionali è da escludere che tale contrattazione possa contenere norme che non rispettino i suddetti vincoli e limiti, tanto che le clausole che siano in contrasto con essi sono nulle, non possono essere applicate e sono sostituite ai sensi dell’art. 1339 c.c. e art. 1419 c.c., comma 2, (D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 40).

A maggior ragione, la contrattazione integrativa (al pari di quella nazionale) deve rispettare le norme di legge riguardanti le materie di propria competenza.

Ne deriva che la contrattazione collettiva integrativa, nell’assicurare livelli di efficienza e produttività dei servizi pubblici, incentivando l’impegno e la qualità della performance individuale dei dipendenti ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 45 e destinando al trattamento economico accessorio collegato alla performance individuale una quota prevalente del trattamento accessorio complessivo comunque denominato, grazie allo stanziamento di apposite risorse aggiuntive per la contrattazione integrativa, è tenuta all’effettivo rispetto dei principi in materia di misurazione, valutazione e trasparenza della performance e in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche Amministrazioni (D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 40).

4.4.6. Pertanto, essa non può non rispettare la norma, introdotta dal D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, art. 9, comma 3, (entrato in vigore il 15 novembre 2009), secondo cui “nella valutazione di performance individuale non sono considerati i periodi di congedo di maternità, di paternità e parentale”, ivi collegata al successivo art. 19 del medesimo D.Lgs. – per questa parte non modificato dal D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 74, art. 13 – nell’ambito delle risorse destinate al trattamento economico accessorio, collegato alla performance, il contratto collettivo nazionale dovesse, fra l’altro, stabilire la quota delle risorse destinate a remunerare, rispettivamente, la performance organizzativa e quella individuale.

In base al D.Lgs. n. 1 agosto 2011, n. 141 (art. 6, comma 1) è stato, fra l’altro, stabilito che la differenziazione retributiva in fasce prevista dall’art. 19 cit. e dall’art. 31, comma 2, (riguardante i dipendenti delle Regioni, degli Enti territoriali e del Servizio sanitario nazionale) dello stesso D.Lgs. n. 150 del 2009 dovesse applicarsi a partire dalla tornata di contrattazione collettiva successiva a quella relativa al quadriennio 2006-2009 (che interessa per il presente giudizio) e che, “nelle more dei relativi rinnovi contrattuali, potessero essere utilizzate le eventuali economie aggiuntive destinate all’erogazione dei premi dal D.L. 6 luglio 2011, n. 98, art. 16, comma 5, convertito dalla L. 15 luglio 2011, n. 111“.

Successivamente – sempre nelle more dei predetti rinnovi contrattuali e in attesa dell’applicazione del D.Lgs. n. 150 del 2009 cit., art. 19 (che ha collegato l’attribuzione del trattamento accessorio alla performance individuale sulla base di criteri di selettività e riconoscimento del merito) – con il D.L. 6 luglio 2012, n. 95, art. 5, commi da 11 a 11-sexies (entrato in vigore il 7 luglio 2012 e convertito dalla L. 7 agosto 2012, n. 135) è stata disposta una disciplina transitoria sulla valutazione del dipendenti pubblici ai fini dell’attribuzione del trattamento accessorio collegato alla performance.

Nell’ambito di tale disciplina è stata ribadita, al suddetto art. 5, comma 11-ter l’importante e significativa norma secondo cui “nella valutazione della performance individuale non sono considerati i periodi di congedo di maternità, di paternità e parentale”.

Il D.Lgs. n. 25 maggio 2017, n. 14 (Modifiche al D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, in attuazione dalla L. 7 agosto 2015, n. 124, art. 17, comma 1, lett. r) nel modificare il D.Lgs. n. 150 cit., art. 9 ha mantenuto fermo il suindicato comma 3, riguardante l’irrilevanza dei periodi di congedo di maternità, di paternità e parentale ai fini della nella valutazione della performance individuale, irrilevanza che – in base alla ratio legis – comporta che le Pubbliche Amministrazioni, nel procedere all’anzidetta valutazione, non possono considerare negativamente le assenze dal servizio per i suddetti motivi.

4.4.7. In base a tale norma, in altre parole, se normalmente – essendo da combattere l’assenteismo – ai fini del punteggio derivante dalla valutazione degli obiettivi comuni e comportamenti organizzativi che concorre a comporre il punteggio complessivo della performance del personale non dirigente, si attribuisce rilievo anche alla regolare presenza in servizio nel tempo di lavoro (in termini cognitivi, relazionali e fisici), quando ricorrono le suddette particolari ipotesi di assenza dal servizio, l’apporto individuale della/del dipendente deve essere valutato in relazione all’attività di servizio svolta ed ai risultati conseguiti e verificati, nonchè sulla base della qualità e quantità della sua effettiva partecipazione ai progetti e programmi di produttività, prescindendo dai periodi di congedo goduti dagli interessati per le indicate finalità, cioè considerando utili (quindi come effettiva presenza) i periodi di congedo di maternità, di paternità, e parentale.

Si tratta, quindi, di un regime derogatorio (applicabile anche ai dirigenti, mutatis mutandis) che può considerarsi il frutto del bilanciamento fra più interessi di rilevanza costituzionale: da un lato il buon andamento della Pubblica Amministrazione di cui all’art. 97 Cost. e il dovere dei cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche “di adempierle con disciplina ed onore”, di cui all’art. 54 Cost., comma 2 e dall’altro la tutela della maternità e della genitorialità in senso ampio garantita, in particolare, dagli artt. 31 e 37 Cost., oltre che dall’art. 3 Cost.

4.4.8. A tale ultimo riguardo va ricordato che la Corte costituzionale ha più volte affermato che gli istituti dell’astensione dal lavoro, obbligatoria e facoltativa, ora denominati congedi, quello dei congedi parentali e i riposi giornalieri non hanno più come esclusiva funzione la protezione della salute della donna ed il soddisfacimento delle esigenze puramente fisiologiche del minore, ma sono diretti ad appagare i bisogni affettivi e relazionali del bambino per realizzare il pieno sviluppo della sua personalità, sicchè devono essere riconosciuti anche ai genitori adottanti, adottivi e agli affidatari, con modalità adeguate alla peculiarità della loro situazione (Corte Cost. sentenza n. 104 del 2003 e precedenti ivi richiamati, nonchè sentenze n. 105 e n. 158 del 2018 e nello stesso senso: Cass. 25 febbraio 2010, n. 4623).

4.4.9. In sintesi, dal quadro normativo e contrattuale fin qui delineato nei suoi tratti essenziali si traggono, per quanto qui interessa, le seguenti conclusioni:

a) a decorrere dall’1 gennaio 2002, in base all’art. 55 CCNL del Comparto Agenzie fiscali cit. – cui correttamente ha fatto riferimento la Corte d’appello per il riconoscimento agli attuali controricorrenti dell’indennità di produttività per il suddetto Comparto è stato stabilito che, ai fini del trattamento economico, nel periodo di astensione obbligatoria, ai sensi del D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 16 e art. 17, commi 1 e 2 compresa quindi l’interdizione anticipata dal lavoro, alla lavoratrice o al lavoratore, anche nell’ipotesi di cui al citato D.Lgs., n. 28 (Congedo di paternità), spetta l’intera retribuzione fissa mensile nonchè l’indennità di Agenzia di cui all’art. 87 (indennità di Agenzia) e l’indennità di posizione organizzativa di cui all’art. 28 (retribuzione di posizione e di risultato), ove spettante, e le quote di incentivo eventualmente previste dalla contrattazione integrativa”;

b) ai fini della presente controversia è irrilevante la sopravvenuta abrogazione del D.L. n. 112 del 2008, art. 71, comma 5, convertito dalla L. n. 133 del 2008 (che per la distribuzione delle somme dei fondi per la contrattazione integrativa, di regola collegata alla presenza in ufficio, aveva sancito in via eccezionale l’equiparazione alla presenza in servizio della assenze dal servizio dei dipendenti dovute, fra l’altro, al congedo di maternità, compresa l’interdizione anticipata dal lavoro, nonchè al congedo di paternità) da parte del D.L. 1 luglio 2009, n. 78, art. 17, comma 23, lett. d), convertito dalla L. 3 agosto 2009, n. 102 (abrogazione i cui effetti si sono prodotti con riguardo alle assenze effettuate successivamente luglio 2009, data di entrata in vigore del suddetto D.L. n. 78 del 2009);

c) infatti, quel che conta è che il suindicato art. 55 CCNL cit. non risulta essere mai stato modificato o eliminato dalla contrattazione collettiva nazionale del Comparto Agenzie fiscali, succedutasi nel tempo;

d) anzi nell’art. 44, comma 2″ del CCNL 12 febbraio 2018 del Comparto Funzioni centrali-Periodo 2016-2018 – applicabile ai dipendenti di tutte le Amministrazioni di tale Comparto, indicate all’art. 3 del CCNQ sulla definizione dei Comparti di contrattazione collettiva del 13 luglio 2016, ivi comprese l’Agenzia delle Entrate e l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, destinatarie dei precedenti CCNL del comparto Agenzie Fiscali (art. 1, comma 6, del suddetto CCNL) – riprendendosi, sostanzialmente, il contenuto precettivo del suddetto art. 55 (allargandone anche l’ambito applicativo) si stabilisce che: “nel periodo di congedo per maternità e per paternità di cui al D.Lgs. n. 151 del 2001, artt. 1617 e 28 alla lavoratrice o al lavoratore spettano l’intera retribuzione fissa mensile, inclusi i ratei di tredicesima ove maturati, le voci del trattamento accessorio fisse e ricorrenti, compresa l’indennità di posizione organizzativa, nonchè i premi correlati alla performance secondo i criteri previsti dalla contrattazione integrativa ed in relazione all’effettivo apporto partecipativo del dipendente, con esclusione dei compensi per lavoro straordinario e delle indennità per prestazioni disagiate, pericolose o dannose per la salute”;

e) del resto, dal punto di vista sistematico, si può ricordare che identica disposizione è anche contenuta nell’art. 43, comma 2 CCNL 21 maggio 2018 del diverso Comparto, sempre di nuova definizione, Funzioni locali (Periodo 2016-2018);

f) alla stessa ottica, per quanto riguarda la disciplina generale del lavoro pubblico contrattualizzato, risponde la norma secondo cui “nella valutazione di performance individuale non sono considerati i periodi di congedo di maternità, di paternità e parentale”, introdotta dal D.Lgs. n. 150 del 2009, art. 9, comma 3, (entrato in vigore il 15 novembre 2009) e non modificata dal D.Lgs. n. 14 del 2017, art. 7 e da collegare al successivo D.Lgs. n. 150 cit., art. 19.

4.4.10. Di qui la spettanza dell’indennità di produttività (comunque denominata nonchè degli emolumenti analoghi) ai dipendenti dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli indicati in epigrafe, visto che, in base alla suddetta normativa, ai lavoratori che fruiscono di periodi di congedo di maternità, di paternità e parentale spetta l’intera retribuzione, comprese le quote di incentivi eventualmente previste dalla contrattazione integrativa, il che (fra l’altro) esclude che ai fini della determinazione e della corresponsione dell’indennità di produttività (ma lo stesso varrebbe per l’indennità di risultato da attribuire ai dirigenti) possano essere valutati negativamente i suddetti periodi di congedo.

Tutto questo porta al complessivo rigetto del primo motivo di ricorso.

5. Per analoghe ragioni va dichiarato infondato anche il terzo motivo di ricorso, con il quale si contesta la disposta attribuzione dei richiesti incentivi di cui alla contrattazione collettiva e il riconoscimento del possibile cumulo delle ore accantonate nella “banca ore” con i periodi di fruizione, pure nei casi in cui tale cumulo copra l’intera giornata lavorativa e la presenza in servizio venga quindi a mancare del tutto.

5.1. Poichè, come rileva la stessa ricorrente, con riguardo a tali emolumenti la contrattazione collettiva non reca alcuna specifica disciplina è quindi necessario fare riferimento, prioritariamente, all’anzidetto principio generale secondo cui i periodi di congedo di maternità, di paternità e parentale non possono avere incidenza retributiva negativa (salvo che per particolari emolumenti), visto che anche i riposi giornalieri in parola hanno la medesima funzione dei suddetti periodi di congedo (Corte Cost. sentenze n. 179 del 1993 e n. 104 del 2003 e precedenti ivi richiamati).

Alla luce del suddetto principio – e, si sottolinea, in assenza di norme della contrattazione collettiva sul punto – si deve leggere l’unica disposizione cui è possibile fare riferimento, che è il D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 39, commi 1 e 2, secondo cui:

“1. Il datore di lavoro deve consentire alle lavoratrici madri, durante il primo anno di vita del bambino, due periodi di riposo, anche cumulabili durante la giornata. Il riposo è uno solo quando l’orario giornaliero di lavoro è inferiore a sei ore.

2. I periodi di riposo di cui al comma 1 hanno la durata di un’ora ciascuno e sono considerati ore lavorative agli effetti della durata e della retribuzione del lavoro. Essi comportano il diritto della donna ad uscire dall’azienda”.

5.2. Premesso che i suddetti riposi sono usufruibili anche dal padre (Corte Cost. sentenza n. 179 del 1993 nonchè Cass. 2 ottobre 1997, n. 9618), l’unica interpretazione della norma conforme al suindicato quadro normativo e contrattuale appare essere quella adottata dalla Corte d’appello, nel senso del carattere generale della equiparazione dei periodi di riposo di cui all’art. 39 cit., commi 1 e 2, alle ore lavorative “agli effetti della durata e della retribuzione del lavoro”.

Tale equiparazione porta alla spettanza dei diritti riconosciuti al riguardo nella sentenza impugnata, mentre la lettura suggerita dall’Agenzia ricorrente in base alla quale il riconoscimento del diritto in contestazione implicherebbe che l’interessata (o l’interessato) abbiano fatto ingresso in ufficio o abbiano effettivamente svolto la prestazione lavorativa – appare porsi in contrasto con i suindicati principi che governano la materia, tanto più che l’eventuale attribuzione degli emolumenti accessori in oggetto nella peculiare ipotesi in cui la presenza in servizio venga a mancare del tutto si può verificare solo laddove il cumulo delle ore accantonate nella “banca ore” con i periodi di fruizione copra l’intera giornata lavorativa.

5.3. Peraltro, come si sottolinea nella sentenza impugnata, la soluzione adottata dalla Corte d’appello trova conferma nella circolare dell’INPS n. 95-bis del 6 settembre 2006, che, come tutte le circolari della P.A. non è fonte del diritto ma può essere utile come presupposto chiarificatore della posizione espressa dall’Amministrazione su un dato oggetto (Cass. 12 gennaio 2016, n. 280; Cass. 14 dicembre 2012, n. 23042; Cass. 27 gennaio 2014, n. 1577; Cass. 6 aprile 2011, n. 7889).

Ebbene, nell’anzidetta circolare, a proposito alla possibilità di cumulare le “ore di recupero” – ossia le ore espletate oltre il previsto orario giornaliero di lavoro ed accumulate con il sistema della “banca ore” – con i periodi di riposo per allattamento di cui al D.Lgs. n. 151 del 2001, artt. 39 e ss. si è precisato che, ai fini della fruizione di tali riposi, è possibile considerare le suddette “ore di recupero” come “ore di lavoro effettivo” in altra giornata rispetto a quella di effettuazione delle ore stesse.

Infatti, ai fini del diritto ai riposi giornalieri in argomento e al relativo trattamento economico, deve essere preso a riferimento l’orario giornaliero contrattuale normale – quello, cioè, in astratto previsto – e non l’orario effettivamente osservato in concreto nelle singole giornate. Ne consegue pertanto che i riposi in questione sono riconoscibili anche laddove la somma delle ore di recupero e delle ore di allattamento esauriscano l’intero orario giornaliero di lavoro comportando di fatto la totale astensione dall’attività lavorativa.

5.4. Va altresì ricordato che il suindicato criterio secondo cui ai fini dell’attribuzione dei suddetti riposi si deve fare riferimento all’orario giornaliero normale e non al numero di ore di lavoro in concreto effettuate nelle singole giornate, trova ampi riscontri nella giurisprudenza di questa Corte (vedi, per tutte: Cass. 19 gennaio 1990, n. 292 e Cass. 20 dicembre 1986, n. 7800).

6. Va, infine, esaminato il secondo motivo – con il quale l’Agenzia ricorrente contesta il riconoscimento dei buoni pasto – che è da accogliere.

6.1. Per fermo indirizzo di questa Corte il valore dei pasti o il c.d. buono pasto, salva diversa disposizione, non è un elemento della retribuzione “normale” concretandosi lo stesso in una agevolazione di carattere assistenziale collegata al rapporto di lavoro da un nesso meramente occasionale (Cass. 14 luglio 2016, n. 14388; Cass. 1 dicembre 1998, n. 12168; Cass. 17 luglio 2003, n. 11212; Cass. 1 luglio 2005, n. 14047; Cass. 21 luglio 2008, n. 20087; Cass. 8 agosto 2012, n. 14290; Cass. 6 luglio 2015, n. 13841;).

Deve essere, al riguardo, precisato che il buono pasto è un beneficio che non viene attribuito senza scopo, in quanto la sua corresponsione è finalizzata a far sì che, nell’ambito dell’organizzazione del lavoro, si possano conciliare le esigenze del servizio con le esigenze quotidiane del lavoratore, al quale viene così consentita – laddove non sia previsto un servizio mensa – la fruizione del pasto, i cui costi vengono assunti dall’Amministrazione, al fine di garantire allo stesso il benessere fisico necessario per la prosecuzione dell’attività lavorativa, nelle ipotesi in cui l’orario giornaliero corrisponda a quello contrattualmente stabilito per la fruizione del beneficio (vedi: D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 7, comma 1) nonchè Cass. 14 luglio 2016, n. 14388 cit. nonchè Cass. 1 dicembre 1998, n. 12168 cit.).

6.2. Si tratta, quindi, di un istituto che trova riscontro nella disciplina UE dell’organizzazione dell’orario di lavoro che – anche sulla base dei Trattati – è sempre stata collegata alla promozione del miglioramento dell’ambiente di lavoro, nel senso di garantire un più elevato livello di protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori (vedi, per tutti: direttive 93/104/CE e 2000/34/CE, cui è stata data attuazione con il D.Lgs. n. 8 aprile 2003, n. 66; Carta dei diritti fondamentali UE, art. 31).

Ma deve essere sottolineato che, proprio per la suindicata natura, il buono pasto non è configurabile come un corrispettivo obbligatorio della prestazione lavorativa, in quanto la sua corresponsione – quale agevolazione di carattere assistenziale – piuttosto che porsi in collegamento causale con il lavoro prestato dipende dalla sussistenza di un nesso meramente occasionale con il rapporto di lavoro, secondo la relativa configurazione della contrattazione collettiva cioè con riguardo all’orario di lavoro (settimanale e giornaliero) ivi stabilito per la fruizione dei buoni pasto, nella cornice indicata dal D.Lgs. 8 aprile 2003, n. 66, art. 8 (Attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE concernenti taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro).

In base al comma 1 di tale ultimo articolo: “qualora l’orario di lavoro giornaliero ecceda il limite di sei ore il lavoratore deve beneficiare di un intervallo per pausa, le cui modalità e la cui durata sono stabilite dai contratti collettivi di lavoro, ai fini del recupero delle energie psico-fisiche e della eventuale consumazione del pasto anche al fine di attenuare il lavoro monotono e ripetitivo”.

6.3. Tale norma trova riscontro nel CCNL 28 maggio 2004 del Comparto Agenzie fiscali cit. ove si stabilisce che l’orario ordinario di lavoro è di 36 ore settimanali è articolato su cinque giorni (art. 33, comma 1) e che se la prestazione di lavoro giornaliera ecceda le sei ore continuative, il personale, purchè non turnista, imbarcato o discontinuo, ha diritto a beneficiare di un intervallo di almeno 30 minuti per la pausa al fine del recupero delle energie psicofisiche e della eventuale consumazione del pasto (artt. 33, comma 5, e art. 40).

Da ciò si evince che l’effettuazione della pausa pranzo è condizione per l’attribuzione del buono pasto e che tale effettuazione, a sua volta, come regola generale, presuppone che il lavoratore osservi in concreto un orario di lavoro giornaliero di almeno sei ore, sicchè la suddetta attribuzione compete solo per le giornate in cui si verifichino le suindicate condizioni.

6.4. Non va del resto dimenticato che, come risulta dall’Accordo sindacale per la concessione dei buoni pasto nel Comparto Ministeri, sottoscritto in data 30 aprile 1996 – integrato dall’accordo sindacale del 12 dicembre 1996 – nell’originaria previsione della corresponsione dei buoni pasto ai dipendenti (con l’attribuzione dello stanziamento previsto dalla L. n. 550 del 1995, art. 2, comma 11, secondo la direttiva della Presidenza del consiglio in data 7 febbraio 1996, in via preliminare rispetto alla definizione del nuovo contratto collettivo nazionale di lavoro di Comparto per il biennio economico 1996-1997) è stato precisato che essa era finalizzata a “favorire l’estensione dell’orario di lavoro Europeo nelle Amministrazioni dello Stato, per incrementarne l’efficienza, la fruibilità dei servizi, i rapporti interni ed esterni”.

Pertanto, fin dalle prime applicazioni è stato chiaro che si trattava di un beneficio legato non alla prestazione di lavoro in quanto tale, ma alle modalità concrete del suo svolgimento orario e quindi alla relativa organizzazione, essendo diretto a consentire il recupero delle energie psico-fisiche – con una pausa a ciò finalizzata e da utilizzare per l’eventuale consumazione del pasto, laddove non sia organizzato un servizio mensa – dei lavoratori destinatari di un’estensione dell’orario di lavoro, estensione diretta a incrementare la qualità e la quantità dei servizi offerti dalle pubbliche Amministrazioni, secondo gli standard esistenti in ambito Europeo.

6.5. Ne deriva che, diversamente da quanto affermato dalla Corte d’appello, l’equiparazione dei periodi di riposo di cui al D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 39, comma 1 alle ore lavorative non può valere per l’attribuzione dei buoni pasto alle persone che si trovino delle condizioni degli attuali controricorrenti.

Del resto, come si legge nello stesso art. 39, comma 2 la suddetta equiparazione vale “agli effetti della durata e della retribuzione del lavoro”, non per le modalità concrete con le quali viene svolta la prestazione lavorativa giornaliera, dal punto di vista dell’orario effettivamente osservato dal dipendente.

In altri termini, l’art. 39 è diretto a favorire la conciliazione tra la vita professionale e quella familiare, stabilendo nei confronti della lavoratrice madre o del padre il diritto ad una o due ore di riposo giornaliero (a seconda della durata della giornata lavorativa) per accudire i figli, entro il primo anno di età, senza specificare la collocazione temporale dei riposi, ma limitandosi a stabilire che, qualora essi siano due, possano anche essere cumulati.

6.6. La disposizione stessa stabilisce poi la suindicata equiparazione, ma solo con riguardo alla retribuzione e alla durata del lavoro.

Dal punto di vista del trattamento retributivo, come si è detto sopra, l’indicata equiparazione, in linea generale, non consente diversità di trattamento in danno dei dipendenti che si trovino nelle condizioni degli attuali controricorrenti, salve restando situazioni particolari (come, ad esempio: i compensi per lavoro straordinario e le indennità per prestazioni disagiate, pericolose o dannose per la salute, ove non ne ricorrano i presupposti).

Per quanto si riferisce alla “durata del lavoro” la suindicata disposizione deve essere messa in correlazione con le norme legislative e contrattuali che per tutelare gli interessi fondamentali che presiedono alla maternità/paternità – consentono agli interessati, che ne facciano richiesta, di essere favoriti nell’utilizzo dell’orario flessibile (vedi: D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 7, comma 3, nonchè art. 36, comma 2, CCNL Comparto Agenzie fiscali 28 maggio 2004 cit.).

6.7. E’, quindi, certamente fuori dall’ambito applicativo dell’art. 39 cit. l’attribuzione dei buoni pasto, la quale non riguarda nè la durata nè la retribuzione del lavoro e che certamente non può dirsi finalizzata a favorire la conciliazione tra la vita professionale e quella familiare dei dipendenti.

Infatti, la concessione dei buoni pasto nasce dalle scelte organizzative dell’Amministrazione di appartenenza in materia di orario di lavoro dei dipendenti dirette a conciliare l’estensione dell’orario di lavoro (secondo gli standard Europei) con l’esigenza di offrire, nello stesso tempo, ai lavoratori che effettuano un orario prolungato la possibilità recuperare le loro energie psicofisiche con una pausa da utilizzare per l’eventuale consumazione di un pasto, laddove non esista un servizio mensa, sulla base della normativa UE in materia di orario di lavoro (direttive 93/104/CE e 2000/34/CE) e, in particolare, del D.Lgs. n. 66 del 2003, art. 8 di attuazione di tale normativa.

6.8. Tutto questo, con riguardo alla presente fattispecie, trova conferma nell’art. 98 del CCNL 28 maggio 2004 Comparto Agenzie fiscali cit. che fissa le condizioni di attribuzione dei buoni pasto, stabilendo fra l’altro che:

“1. Hanno titolo all’attribuzione del buono pasto i dipendenti del comparto delle Agenzie fiscali, aventi un orario di lavoro settimanale articolato su cinque giorni o su turnazioni di almeno otto ore continuative, a condizione che non possano fruire a titolo gratuito di servizio mensa od altro servizio sostitutivo presso la sede di lavoro.

2. Il buono pasto viene attribuito per la singola giornata lavorativa nella quale il dipendente effettua un orario di lavoro ordinario superiore alle sei ore, con la relativa pausa prevista dall’art. 33, comma 5 (orario di lavoro), all’interno della quale va consumato il pasto”.

Mentre il successivo art. 99, comma 4, precisa che: “l’attribuzione del buono pasto non può in alcun modo ed a nessun titolo essere sostituita dalla corresponsione dell’equivalente in denaro”.

6.9. Nè può valere in contrario il D.P.C.M. 18 novembre 2005, art. 5, lett. c), – prevedente l’attribuibilità dei buoni pasto anche se l’orario di lavoro non stabilisce una pausa per il pasto – sia perchè il suddetto decreto è stato abrogato dal D.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207, art. 358, comma 1, lett. i) a decorrere dall’8 giugno 2011 (secondo quanto disposto dallo stesso D.P.R. n. 207 cit., art. 359, comma 1) sia perchè comunque, anche per il passato, nella gerarchia delle fonti, rispetto alla suindicata normativa è da considerare prevalente la disciplina, di origine UE, derivante dal D.Lgs. n. 66 del 2003, art. 8 e dalla conforme contrattazione collettiva.

6.10. Va precisato che non vi è un’incompatibilità assoluta tra la spettanza dei buoni pasto e la fruizione dei permessi per l’allattamento, ma tale spettanza dipende dalla ricorrenza in concreto dei relativi presupposti, a partire dall’osservanza di un orario effettivo praticato dall’interessata/o superiore a quello previsto per fruire della pausa.

In altre parole, non essendo il valore dei pasti o il c.d. buono pasto, un elemento della retribuzione “normale”, per la relativa attribuzione si deve fare riferimento all’orario in concreto osservato nelle singole giornate lavorative e non all’orario giornaliero contrattuale normale – quello, cioè, in astratto previsto – al contrario di quanto accade ai fini del diritto ai riposi giornalieri D.Lgs. n. 151 del 2001, ex art. 39 (vedi sopra 5.3 e 5.4).

6.11. Nella presente controversia è pacifico che tutti gli attuali controricorrenti per le giornate lavorative per le quali rivendicano i buoni pasto hanno osservato, in concreto, un orario pari a 5 ore e 12 minuti, fruendo dei riposi giornalieri D.Lgs. n. 151 del 2001, ex art. 39. Pertanto sono stati effettivamente presenti nell’Azienda per un numero di ore inferiore alle sei giornaliere previste anche dal CCNL, conseguentemente non hanno maturato il diritto alla pausa ai sensi del D.Lgs. n. 66 del 2003, art. 8 e del CCNL da applicare e quindi è da escludere il loro diritto all’attribuzione dei buoni pasto.

6.12. Tale conclusione, del resto, trova conferma:

a) nella recente risposta del 16 aprile 2019, n. 2 del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali all’Interpello promosso dall’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale con riguardo al diritto alla pausa pranzo e alla conseguente attribuzione dei buoni pasto o alla fruibilità del servizio mensa per le lavoratrici che usufruiscono dei riposi giornalieri “per allattamento” di cui al D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 39;

b) nella nota 10 ottobre 2012 n. 40527 del Dipartimento della Funzione Pubblica, ove è stato precisato che: “il diritto al buono pasto sorge per il dipendente solo nell’ipotesi di attività lavorativa effettiva dopo la pausa stessa”;

c) nelle Istruzione in data 21 gennaio 2013 fornite dall’Agenzia delle Entrate, nella quali ai fini della concessione del buono pasto ai propri dipendenti, sono considerati “presupposti imprescindibili l’effettuazione della pausa e la prosecuzione dell’attività lavorativa”.

6.13. Di qui l’accoglimento del secondo motivo di ricorso, con conseguente cassazione sul punto della sentenza impugnata.

IV – Conclusioni.

7. In sintesi, il primo e il terzo motivo di ricorso vanno respinti, mentre il secondo motivo deve essere accolto.

8. La sentenza impugnata va quindi cassata, in relazione al motivo accolto, concernente il riconoscimento del diritto dei ricorrenti ai buoni pasto.

9. Poichè non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, con il rigetto della domanda volta ad ottenere l’attribuzione del diritto ai buoni pasto, proposta dagli attuali controricorrenti nel ricorso introduttivo del giudizio.

10. Per quanto riguarda le spese dell’intero processo, in considerazione della complessità delle questioni trattate e dell’esito complessivo della controversia, si ritiene conforme a giustizia: 1) per i gradi di merito del giudizio: confermare la liquidazione complessiva effettuata nelle sentenze di primo e di secondo grado, disponendo la condanna al relativo pagamento nei confronti dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli ma solo per i tre quarti del totale, con compensazione del restante quarto e distrazione, ove prevista; 2) per il presente giudizio di cassazione: condannare l’Agenzia ricorrente al pagamento dei tre quarti del totale delle spese processuali come liquidate in dispositivo, con compensazione fra le parti del restante quarto e distrazione in favore della Avv. Antonella Gallo e della Avv. Teresa Santulli, dichiaratesi antistatarie.

11. Ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 1, si ritiene opportuno enunciare i seguenti principi di diritto:

a) nel lavoro pubblico contrattualizzato per il personale dipendente cui si applicano le vigenti disposizioni in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità contenute nel D.Lgs. n. 151 del 2001 i periodi di congedo per maternità, paternità e parentale nonchè riposi giornalieri di cui all’art. 39 suddetto D.Lgs. – i quali, in base alla giurisprudenza della Corte costituzionale, non hanno più come esclusiva funzione la protezione della salute della donna ed il soddisfacimento delle esigenze puramente fisiologiche del minore ma sono diretti ad appagare i bisogni affettivi e relazionali del bambino per realizzare il pieno sviluppo della sua personalità, sicchè devono essere riconosciuti anche ai genitori adottanti, adottivi e agli affidatari, con modalità adeguate alla peculiarità della loro rispettiva situazione – in linea generale, non possono avere incidenza negativa sul trattamento retributivo complessivo degli interessati, con esclusione di particolari e specifici compensi (quali, ad esempio i compensi per lavoro straordinario e delle indennità per prestazioni disagiate, pericolose o dannose per la salute, ove non ne ricorrano i presupposti);

b) nel pubblico impiego contrattualizzato l’effettuazione della pausa pranzo è condizione per l’attribuzione del buono pasto e tale effettuazione, a sua volta presuppone, come regola generale, che il lavoratore osservi in concreto un orario di lavoro giornaliero di almeno sei ore (oppure altro orario superiore minimo indicato dalla contrattazione collettiva), sicchè la suddetta attribuzione compete solo per le giornate in cui si verifichino le suindicate condizioni (D.Lgs. n. 66 del 2003, art. 8). Del resto, l’istituto dei buoni pasto è stato introdotto nel nostro ordinamento per favorire l’estensione dell’orario di lavoro Europeo nelle Amministrazioni pubbliche nazionali, onde incrementarne l’efficienza, la fruibilità dei servizi, i rapporti interni ed esterni. Ne consegue che i buoni pasto non possono essere attribuiti ai lavoratori che nella qualità di destinatari delle disposizioni in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità contenute nel D.Lgs. n. 151 del 2001 osservano in concreto un orario giornaliero effettivo inferiore alle suddette sei ore. Infatti, con riguardo ai buoni pasto, non può valere l’equiparazione dei periodi di riposo di cui al D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 39, comma 1 alle ore lavorative, come si desume agevolmente dallo stesso art. 39, comma 2 ove si precisa che la suddetta equiparazione vale “agli effetti della durata e della retribuzione del lavoro”. L’attribuzione dei buoni pasto, non riguarda nè la durata nè la retribuzione del lavoro essendo finalizzata a compensare l’estensione dell’orario lavorativo disposta dalla P.A. (per le suindicate finalità) con una agevolazione di carattere assistenziale diretta a consentire agli interessati il recupero delle proprie energie psico-fisiche.

P.Q.M.

La Corte rigetta il primo e il secondo motivo di ricorso; accoglie il secondo motivo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, rigetta la domanda volta ad ottenere l’attribuzione del diritto ai buoni pasto, proposta dagli attuali controricorrenti nel ricorso introduttivo del giudizio.

Per le spese processuali così dispone:

1) per i gradi di merito del giudizio: conferma la liquidazione complessiva effettuata nelle sentenze di primo e di secondo grado, disponendo la condanna al relativo pagamento nei confronti dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli ma solo per i 3/4 del totale, con compensazione del restante 1/4 e distrazione, ove prevista;

2) per il presente giudizio di cassazione: condanna l’Agenzia ricorrente al pagamento di Euro 200,00 per esborsi e quantifica le spese processuali nella complessiva somma di Euro 8000,00 (ottomila/00), ponendo a carico della ricorrente i 3/4 del totale, con compensazione fra le parti del restante 1/4 e distrazione in favore della Avv. Antonella Gallo e della Avv. Teresa Santulli, dichiaratesi antistatarie.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione lavoro, il 26 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 28 novembre 2019

Si può privare il Segretario Comunale delle funzioni prima della scadenza del mandato?

Cassazione civile Sezione  Lavoro, Sentenza  02-08-2019, n. 20842

Segretario Comunale privazione dell’incarico prima della scadenza del medesimo – diritto alla reintegra insussistenza – diritto al risarcimento del danno sussiste in presenza di adeguati elementi probatori.

La Corte di Cassazione con la recente sentenza di seguito trascritta svolge tutta una serie di considerazioni in merito alla peculiarità del rapporto di lavoro dei segretari comunali.

In forza di tale specialità e del rapporto strettamente fiduciario che lega il segretario al vertice dell’amministrazione, la Corte ritiene che la professionalità del segretario comunale debba trovare tutela nell’ambito del rapporto temporale che lo lega all’amministrazione e che nel caso di privazione delle funzioni questi non possa chiedere la reintegra nelle funzioni , ma esclusivamente nel danno la cui prova non è in re ipsa, ma deve essere oggetto di dimostrazione.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 02-08-2019, n. 20842

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 25859-2014 proposto da:

F.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE GIULIO CESARE 61, presso lo studio dell’avvocato VINCENZO CALARCO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIOVANNI CAGLIANONE;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI BOLTIERE, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MARIA CRISTINA 8, presso lo studio dell’avvocato GOFFREDO GOBBI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato YVONNE MESSI;

– MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia ex lege in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI, 12;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 252/2014 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il 03/06/2014 R.G.N. 395/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 23/05/2019 dal Consigliere Dott. CATERINA MAROTTA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CIMMINO ALESSANDRO, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato NORBERTO MANENTI per delega Avvocato GIOVANNI CAGLIANONE;

udito l’Avvocato GOFFREDO GOBBI.

Svolgimento del processo

1. F.M., nominata segretario comunale del Comune di Boltiere in data 26 febbraio 2005, si vedeva revocare tale incarico in data 12 settembre 2006, ben prima della sua naturale scadenza (2009), per violazione dei doveri d’ufficio ai sensi del D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 100, del D.P.R. n. 465 del 1997, art. 15 e dell’art. 18 del c.c.n.l. di categoria.

Con ricorso al Tribunale di Brescia, proposto nei confronti del Comune di Boltiere e del Ministero dell’Interno, la F. impugnava detta revoca chiedendo la reintegrazione nelle funzioni, il pagamento delle retribuzioni maturate medio tempore ed il risarcimento degli ulteriori danni patrimoniali e non patrimoniali subiti per effetto della revoca illegittima.

2. Il Tribunale annullava il provvedimento di revoca, respingeva la domanda di reintegrazione e accoglieva solo parzialmente quella risarcitoria (riconoscendo un quantum di danno patrimoniale ridotto rispetto a quello preteso e, quanto al profilo non patrimoniale, attribuendo il danno solo in relazione al pregiudizio all’integrità psico-fisica).

3. La decisione era confermata dalla Corte d’appello di Brescia.

La Corte territoriale dichiarava preliminarmente l’inammissibilità dell’appello notificato anche al Ministero dell’Interno senza che vi fossero censure nella parte in cui il giudice di primo grado aveva espressamente escluso ogni responsabilità in capo all’Agenzia Autonoma, assolvendola da ogni pronuncia di condanna.

Quindi rigettava l’impugnazione incidentale del Comune di Boltiere ritenendo che l’insussistenza dei presupposti per la revoca emergesse da una serie di significativi e concordanti elementi.

Quanto all’appello della F., riteneva infondata la pretesa volta ad ottenere la reintegra considerando che la Giunta Municipale era decaduta in data 7/6/2009 e che si trattava di nomina di durata corrispondente a quella del mandato del Sindaco.

Rilevava che l’appellante avesse configurato il danno alla professionalità in dipendenza della sola privazione delle mansioni di segretario comunale e che fossero mancate deduzioni di circostanze concrete atte a dimostrare la sussistenza di un danno risarcibile. Precisava, al riguardo, che il segretario comunale revocato o comunque privo di incarico è posto a disposizione dell’Agenzia autonoma per le attività dell’Agenzia stessa nonchè per incarichi di supplenza o di reggenza ovvero per altre funzioni ed evidenziava che le circostanze che la F. non avesse rivestito più incarichi di segretario comunale, salvo alcune supplenze o reggenze, e fosse stata poi posta in mobilità e infine transitata presso la Prefettura di Bergamo, con cancellazione dall’Albo dei Segretari comunali, non costituissero conseguenza immediata e diretta della perdita dell’incarico o comunque non costituissero prova del verificarsi in concreto di un danno alla professionalità. Sottolineava che anche il mancato conferimento di convenzioni con altri Comuni fosse dipeso da decisioni che involgevano esclusivamente la responsabilità dei Comuni medesimi.

Quanto alle altre voci di danno esistenziale riteneva che la modestissima percentuale di danno biologico accertata (4-5%) non consentisse, in assenza di specifiche deduzioni di ritenere provato che la revoca avesse comportato anche un radicale peggioramento a titolo definitivo delle abitudini di vita della lavoratrice.

Escludeva la fondatezza delle rivendicazioni relative alla retribuzione di risultato ed alla maggiorazione della retribuzione di posizione essendo mancata, quanto alla prima di dette voci, la prova che qualora l’incarico non fosse stato revocato gli obiettivi sarebbero stati raggiunti, non potendo identificarsi l’elevata probabilità del raggiungimento con l’accertata assenza di una violazione dei doveri d’ufficio a base delle revoca e rilevando, quanto alla maggiorazione della retribuzione di posizione, che non avesse l’appellante dimostrato la sussistenza delle condizioni per l’attribuzione nella misura massima richiesta (e cioè l’esistenza di risorse disponibili e le capacità generali) dovendo altresì essere escluso che nel corso del rapporto tale maggiorazione fosse stata già corrisposta nella misura rivendicata.

Quantificava le differenze spettanti a titolo di danno patrimoniale in Euro 41.896,32 e riteneva nuova la questione, posta dall’appellante, del mantenimento del trattamento in godimento non solo fino alla scadenza dell’incarico ma anche per il biennio successivo.

4. Per la cassazione della sentenza F.M. ha proposto ricorso sulla base di sette motivi ai quali hanno opposto difese il Comune di Boltiere e il Ministero dell’Interno.

5. Il Comune di Boltiere ha depositato memoria.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia nullità della sentenza o del procedimento ex art. 360 c.p.c., n. 4, violazione degli artt. 342, 348 bis, 348 ter, 434, 436 bis e 437 c.p.c. in relazione alla dichiarazione di inammissibilità dell’appello nei confronti del Ministero dell’Interno.

Rileva che nella sentenza di primo grado l’estraneità del Ministero era stata affermata solo in relazione alla condanna al risarcimento del danno mentre tale Ministero era stato evocato in giudizio in appello in relazione alla domanda di reintegrazione poichè senza la presenza in giudizio di tale Ministero ogni statuizione di reintegrazione rivolta al solo Comune di Boltiere sarebbe risultata di difficile, se non impossibile, esecuzione concreta.

2. Il motivo è infondato.

La pronuncia di inammissibilità della Corte d’appello è stata effettuata in via preliminare con riguardo alla posizione del Ministero come delineata in causa dalla prospettazione di cui al ricorso introduttivo del giudizio ed intesa come limitata alla sola condanna al risarcimento.

Riguardo a tale affermazione, che appare del tutto in linea con le stesse conclusioni di cui al ricorso di primo grado come riportate nella stessa sentenza impugnata (“….ha convenuto in giudizio il Comune di Boltiere e l’Agenzia Autonoma per la Gestione dell’Albo dei Segretari Comunali… chiedendo l’accertamento dell’illegittimità del provvedimento di revoca, con condanna del Comune alla reintegrazione nell’incarico e di entrambe le parti convenute al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali patiti per effetto della revoca”), la ricorrente oppone che l’appello nei confronti del Ministero si sarebbe reso necessario in relazione alle contestazioni concernenti il rigetto della domanda di reintegrazione.

Tuttavia non risulta che già in primo grado la F. avesse avanzato anche domanda di reintegrazione nei confronti dell’Agenzia Autonoma per la Gestione dell’Albo dei Segretari Comunali e Provinciali e sul punto il motivo di ricorso è assolutamente privo di specificità, non riportando il contenuto dell’atto introduttivo del giudizio. Nè vale a superare la suddetta carenza la circostanza che la cancellazione dall’Albo sarebbe sopravvenuta rispetto al maturare delle preclusioni nel giudizio di primo grado e che perciò in sede di appello si sarebbe reso necessario richiedere la reintegrazione anche nei confronti dell’Agenzia (v. pag. 6 del ricorso per cassazione), trattandosi, evidentemente, di un ampliamento del thema decidendum non consentito in sede di gravame.

E’ comunque opportuno ricordare che la disciplina del rapporto di lavoro dei segretari comunali è stata ripetutamente interpretata dalla giurisprudenza di questa Corte (v. in particolare Cass. 15 maggio 2012, n. 7510) che ha delineato i seguenti principi:

a) il rapporto di impiego di questi dipendenti è sempre stato caratterizzato dalla non coincidenza dell’amministrazione datrice di lavoro con quella che ne utilizza le prestazioni (così Cass., Sez. Un., 20 giugno 2007, n. 14288); con l’importante riforma del relativo ordinamento introdotta dalla L. n. 127 del 1997 e dal D.P.R. n. 465 del 1997 (le cui norme sono state, poi, trasfuse nel D.Lgs. n. 18 agosto 2000, n. 267 Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, contenente il regime definitivo), l’amministrazione datrice di lavoro dei segretari è diventata l’Agenzia autonoma per la gestione dell’albo dei segretari comunali e provinciali, avente personalità giuridica di diritto pubblico (D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 102, oggi abrogato a seguito dell’intervenuta soppressione dell’Agenzia per effetto del D.L. n. 78 del 2010, convertito con L. n. 122 del 2010);

b) è rimasta confermata la peculiarità della non coincidenza – di regola, salvo i pochi casi di permanenza in disponibilità, con utilizzazione diretta da parte dell’Agenzia, ai sensi del D.P.R. n. 465 del 1997, art. 7, comma 1, – dell’amministrazione datrice di lavoro (Agenzia) con quella che ne utilizza le prestazioni (Comune o Provincia);

c) in ragione di tale distinzione, nelle controversie giudiziarie relative al rapporto tra segretario comunale ed ente utilizzatore non sussiste una situazione di litisconsorzio necessario con la predetta Agenzia (v. Cass. 16 luglio 2010, n. 16698; Cass. 11 agosto 2016, n. 17065);

d) tutti gli atti di gestione del rapporto di lavoro del segretario comunale, compresi quelli posti in essere dall’amministrazione locale nell’ambito del rapporto di lavoro con la stessa instaurata (tra cui la revoca dall’incarico ai sensi della L. 15 maggio 1997, n. 127, art. 17, comma 71), rappresentano manifestazione di poteri propri del privato datore di lavoro (così Cass., Sez. Un., 24 maggio 2006 n. 12224);

e) la non coincidenza dell’amministrazione datrice di lavoro con quella presso la quale il segretario presta servizio può tuttavia avere quale conseguenza che entrambi tali soggetti, ciascuno per la propria parte, siano stati tenuti a cooperare per consentire al dipendente di riprendere la propria prestazione lavorativa e che l’inadempimento di ciascuna di tali proprie e specifiche obbligazioni generi l’obbligazione risarcitoria di cui all’art. 1218 c.c. (questa Corte, infatti, ha da tempo affermato che è da riconoscere al privato una tutela piena nei confronti di un atto che appartiene alla gestione di un rapporto di lavoro assunto dalla PA con le capacità e i poteri del datore di lavoro privato: vedi, per tutte: Cass., Sez. Un., 19 ottobre 1998, n. 10370; Cass., Sez. Un., 16 febbraio 2009, n. 3677; Cass. 3 marzo 2012, n. 3419).

Quindi, nella specie, se legittimamente era stata proposta anche nei confronti dell’Agenzia una domanda risarcitoria, la mancata impugnazione da parte della F. della sentenza di primo grado nella parte in cui questa aveva escluso ogni responsabilità dell’Agenzia in relazione ai danni patiti dalla ricorrente aveva processualmente definito la posizione del Ministero dell’Interno (subentrato all’Agenzia) senza che fatti sopravvenuti potessero in qualche modo rimetterla in discussione.

3. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 99 dell’art. 100 medesimo D.Lgs., della L. n. 300 del 1980, art. 18, del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 63, dell’art. 2058 c.c. tutti letti e interpretati anche alla luce dell’art. 97 Cost., comma 2, in relazione al rigetto della domanda di reintegrazione.

Rileva che l’ordinamento di settore in caso di revoca della nomina prevede la reintegrazione e richiama al riguardo Cass., Sez. Un., 1 febbraio 2007, n. 2233.

Sostiene che, contrariamente a quanto affermato in sentenza, tra cessazione del mandato sindacale e cessazione dell’incarico non vi è alcun automatismo, ma solo la possibilità offerta al sindaco subentrante di nominare un nuovo e diverso segretario decorso il termine di sessanta giorni dall’insediamento ed entro il termine di 120 giorni, spirato il quale l’incarico si intende confermato.

4. Il motivo è infondato.

Va innanzitutto ricordato che la dipendenza funzionale del segretario dall’organo di vertice dell’ente locale (competente per la nomina e la revoca) si traduce nella configurazione di un rapporto caratterizzato dall’elemento fiduciario, che si esprime nella regola secondo cui la nomina ha durata corrispondente a quella del mandato del sindaco o del presidente della provincia che lo ha nominato, con cessazione automatica dall’incarico con la fine del mandato, pur dovendo il titolare della carica continuare ad esercitare le funzioni sino alla nomina del nuovo segretario (D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 99, comma 2). La nomina è disposta non prima di sessanta giorni e non oltre centoventi giorni dalla data di insediamento del sindaco e del presidente della provincia, decorsi i quali il segretario già in carica è confermato (art. 99, comma 3). A tal fine il sindaco, o il presidente della provincia, individua il nominativo del segretario prescelto, a norma delle disposizioni contenute nell’art. 11, e ne chiede l’assegnazione al competente consiglio di amministrazione dell’Agenzia, il quale provvede entro sessanta giorni dalla richiesta.

Quanto al procedimento di nomina del segretario comunale o provinciale questa Corte ha affermato che lo stesso (al pari di quello di revoca) ha natura negoziale di diritto privato, in quanto posto in essere dall’ente locale con la capacità e i poteri del datore di lavoro (v. Cass. 31 ottobre 2017, n. 25960; Cass. 15 maggio 2012, n. 7510; Cass. 9 febbraio 2007, 25969; Cass., Sez. Un., 20 giugno 2005, n. 16876; Cass., Sez. Un., 12 agosto 2005, n. 166876).

La natura fiduciaria dell’incarico, che termina con la scadenza dell’organo amministrativo elettivo di riferimento, è stata, in particolare, affermata da questa Corte con riferimento alla tipologia e alla varietà dei compiti di collaborazione e di assistenza giuridico – amministrativa nei confronti degli organi comunali in ordine alla conformità dell’azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti in piena coerenza con il ruolo del segretario quale controllore di legalità (D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 97, comma 2) nonchè alle funzioni consultive, referenti e di assistenza alle riunioni del consiglio e della giunta (D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 97, comma 4, lett. a) – v. Cass. 23 agosto 2008, n. 12403; Cass. 1 luglio 2008, n. 17974 e da ultimo Corte Costituzionale n. 23 del 22 febbraio 2019 -.

Peraltro le indicate funzioni si sono anche arricchite con la legislazione successiva: in particolare, con la L. n. 190 del 2012 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione), nonchè con il D.Lgs. n. 33 del 2013 (Riordino della disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni) che attribuiscono al segretario comunale, di norma, il ruolo di responsabile della prevenzione della corruzione e quello di responsabile della trasparenza.

Nè, in ragione di detta fiduciarietà, che evidentemente non si esaurisce con l’atto di nomina, può dirsi che sussista un diritto soggettivo alla riconferma.

Il segretario comunale è, infatti, destinato a cessare automaticamente dalle proprie funzioni al mutare del sindaco (salvo conferma), eppure anche in tal caso è garantito nella stabilità del suo status giuridico ed economico e del suo rapporto d’ufficio, restando iscritto all’Albo dopo la mancata conferma e restando perciò a disposizione per successivi incarichi.

La legge è chiara nello stabilire che il segretario decade “automaticamente dall’incarico con la cessazione del mandato del sindaco”, tuttavia lo stesso è chiamato a continuare nelle sue funzioni per un periodo non inferiore a due e non superiore a quattro mesi, in attesa di eventuale conferma, a garanzia della stessa continuità dell’azione amministrativa.

Tale essendo il quadro in cui si colloca la pretesa reintegratoria del ricorrente, va detto che, anche a voler ritenere applicabile (per l’analoga fiduciarietà che caratterizza l’affidamento dell’incarico dirigenziale) il principio affermato da Cass. n. 3677/2009 cit. con riferimento alla revoca dell’incarico dirigenziale in ipotesi di non sussistenza della giusta causa per il recesso anticipato dal contratto a tempo determinato ed al diritto del dirigente alla riassegnazione di tale incarico precedentemente revocato, per il tempo residuo di durata (che, nel caso in esame, comprenderebbe anche quello dell’automatica obbligatoria prosecuzione in attesa di eventuale conferma), detratto il periodo di illegittima revoca, tuttavia la stessa non è decisiva perchè sconta la circostanza, pacifica agli atti, che la F. a far data dal 3/1/2012 (e dunque ben prima della pronuncia di primo grado) prestava servizio presso la Prefettura di Bergamo ed era stata cancellata dall’Albo dei Segretari Comunali (v. pag. 6 del ricorso per cassazione). Dunque aveva perso uno dei requisiti necessari perchè si potesse ricostituire il rapporto.

5. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 267 del 2000, artt. 9799100 e 101 del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 19, dell’art. 2103 c.c., degli artt. 1218, 1223 e 2059 c.c. nonchè omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio in relazione al rigetto della domanda di risarcimento del danno alla professionalità.

Sostiene che la perdita delle mansioni e il collocamento in disponibilità fossero già significativi del danno alla professionalità.

6. Il motivo è infondato.

Se è vero che il demansionamento ben può essere foriero di danni al bene immateriale della dignità professionale del lavoratore, è del pari vero che – per costante giurisprudenza di questa S.C. – essi non sono in re ipsa e devono pur sempre essere dimostrati (seppure, eventualmente, a mezzo presunzioni e/o massime di esperienza) da chi si assume danneggiato (cfr., ex aliis, Cass., Sez. Un., 24 marzo 2006, n. 6572).

Il principio è stato ulteriormente precisato in successive decisioni in particolare evidenziandosi che il risarcimento del danno professionale, non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale, non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo (così Cass. 14 novembre 2016, n. 23146; Cass. 17 novembre 2016, n. 23432) e che, se la relativa prova può essere acquisita in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo precipuo rilievo quella per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro dell’operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) potendosi, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno (così Cass. 19 dicembre 2008, n. 29832 e negli stessi termini Cass. 18 settembre 2015, n. 18431), tuttavia il ricorso alle presunzioni è consentito a condizione che sia stata allegata la natura del pregiudizio e che il ricorrente abbia dedotto e provato circostanze diverse ed ulteriori rispetto al mero inadempimento, che possano essere valorizzate per risalire dal fatto noto a quello ignoto (v. Cass. 19 agosto 2016, n. 17214).

In tema di prova del danno da dequalificazione professionale ex art. 2729 c.c., non è allora sufficiente a fondare una corretta inferenza presuntiva il semplice richiamo di categorie generali (come la qualità e quantità dell’attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la gravità del demansionamento, la sua durata e altre simili), dovendo il giudice di merito procedere, pur nell’ambito di tali categorie, ad una precisa individuazione dei fatti che assume idonei e rilevanti ai fini della dimostrazione del fatto ignoto, alla stregua di canoni di probabilità e regole di comune esperienza (v. Cass. 18 agosto 2016, n. 17163).

Nella specie, il giudice di merito, facendo corretta applicazione degli indicati principi, con accertamento di fatto non surrogabile in questa sede, ha ritenuto che la F. si fosse limitata a prospettare un danno in re ipsa senza dedurre una sola circostanza concreta atta a dimostrare la sussistenza di un danno risarcibile e così omettendo di fornire al giudicante i parametri necessari per giungere ad una valutazione seppure presuntiva.

Alle suddette considerazioni la ricorrente oppone, in modo inammissibile, una diversa lettura delle risultanze di cause.

Nè del resto è sostenibile che la perdita dell’incarico, proprio per il peculiare funzionamento e per la dinamica professionale del segretario comunale, possa identificare un fatto ex se generatore di un danno alla professionalità.

7. Con il quarto motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1223 e 2059 c.c. ed omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione al rigetto della domanda di danno esistenziale.

8. Il motivo è infondato.

Anche in questo caso a fronte di specifiche argomentazioni del giudice a quo (il quale ha ritenuto che la modestissima percentuale di danno biologico derivata – 4-5% – non fosse consentito, in assenza di specifiche deduzioni che la revoca avesse comportato un radicale peggioramento a titolo definivo delle abitudini di vita della lavoratrice) la ricorrente – lungi dal denunciare l’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge – allega un’erronea ricognizione, da parte della Corte territoriale, della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa: operazione che non attiene all’esatta interpretazione della norma di legge, inerendo prettamente alla valutazione del giudice di merito.

Nella parte in cui lamenta l’omesso esame del fatto decisivo il motivo è inammissibile.

Le Sezioni Unite di questa Corte, nell’interpretare il novellato art. 360 c.p.c., n. 5, hanno stabilito che “l’omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, non integra l’omesso esame circa un fatto decisivo previsto (dall’art. 360 c.p.c., n. 5), quando il fatto, storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti” (Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014, n. 8053).

E nel caso di specie il fatto storico rappresentato dall’entità del danno è stato preso in considerazione dalla sentenza, alle pp. 6 e 7.

Le censure sollevate dall’odierna ricorrente tendono piuttosto a negare la congruità dell’interpretazione fornita dalla Corte territoriale del contenuto rappresentativo degli elementi di prova complessivamente acquisiti e dei fatti di causa, ma una simile impostazione critica appare con evidenza diretta a censurare una (tipica) erronea ricognizione della fattispecie concreta, di necessità mediata dalla contestata valutazione delle risultanze probatorie ma ciò non è conforme alla nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

9. Con il quinto motivo la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 41 del c.c.n.l. di categoria, dell’art. 1 del c.c.n.l. decentrato integrativo, dell’art. 2697 c.c. alla luce dell’art. 24 Cost. e del principio di riferibilità o vicinanza o disponibilità della prova, degli artt. 2727 e 2729 c.c..

Lamenta il mancato riconoscimento della maggiorazione della retribuzione di posizione e rileva che tale emolumento è solo correlato alle condizioni oggettive e soggettive, al cui esistere se ne determina l’insorgenza.

10. Il motivo è infondato.

L’art. 41 del c.c.n.l. fa riferimento anche ad ulteriori condizioni che devono ricorrere affinchè la maggiorazione possa essere pretesa dal segretario, giacchè la disposizione è chiara innanzitutto nel prevedere che i criteri ed i parametri delle maggiorazioni devono essere stabiliti in sede di contrattazione decentrata integrativa nazionale, ed inoltre nel fissare il limite delle risorse disponibili e del rispetto delle capacità di spesa.

E’ evidente, pertanto, che detti limiti rilevano nella predeterminazione complessiva della spesa del personale, nel senso che l’ente, il quale è anche chiamato ad individuare la indennità di posizione spettante al dirigente o al personale dipendente titolare di posizione organizzativa, dovrà tener conto del principio della tendenziale equiparazione stabilito dal comma 5 della medesima disposizione (e cioè che la retribuzione di posizione del segretario non sia inferiore a quella stabilita per la funzione dirigenziale più elevata nell’ente in base al contratto collettivo dell’area della dirigenza o, in assenza di dirigenti, a quello del personale incaricato della più elevata posizione organizzativa).

Ove, però, ciò non avvenga la disposizione contrattuale non può far sorgere il diritto soggettivo ad una equiparazione che prescinda del tutto dalla disponibilità delle risorse, perchè ciò equivarrebbe a legittimare spese non compatibili con le capacità dell’ente territoriale (v. Cass. 6 ottobre 2016, n. 20065).

Peraltro, ai sensi dell’art. 1 del c.c.i. nazionale, la maggiorazione della retribuzione di posizione cui all’art. 41 del c.c.n.l. spetta solo in presenza di condizioni oggettive (riferite all’Ente ed alla sua complessità organizzativa – in funzione del numero delle Aree o Settori presenti nell’Ente, della funzione di sovraintendenza e coordinamento di dirigenti o responsabili di servizio, laddove non siano state conferite, all’interno o all’esterno, le funzioni di direzione generale -, funzionale – presenza di particolari uffici o di particolari forme di gestione dei servizi – ed a ragioni di disagio ambientale – sedi di alta montagna, estrema carenza di organico, situazioni anche transitorie di calamità naturale o difficoltà socioeconomiche – e soggettive (in ragione di incarichi speciali di responsabilità di singoli servizi affidati al segretario).

La Corte territoriale, dopo aver fatto puntuale riferimento alle condizioni legittimanti l’erogazione della maggiorazione in questione, ha correttamente ritenuto (con valutazione che supera la questione dell’operatività in concreto degli oneri probatori) che dal complesso del materiale probatorio a sua disposizione non fosse emerso che l’indennità predetta era stata corrisposta alla F. nel periodo di svolgimento dell’incarico di segretario e che pertanto non sussistessero elementi di prova, pur presuntiva, a sostegno della pretesa.

11. Con il sesto motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2729 c.c..

Lamenta il mancato riconoscimento della voce retribuzione di risultato evidenziando che il giudice di appello ben avrebbe potuto far ricorso al ragionamento presuntivo in dipendenza del fatto che nel periodo di vigenza dell’incarico la F. lo aveva sempre svolto al meglio.

12. Il motivo è infondato.

Le deduzioni dell’odierno ricorrente in realtà si risolvono nella mera doglianza circa la dedotta erronea attribuzione da parte del giudice del merito agli elementi valutati di un valore ed un significato difformi dalle sue aspettative e nell’inammissibile pretesa di una lettura dell’asserto probatorio diversa da quella nel caso operata dai giudici di merito (“la lavoratrice non ha allegato alcunchè da cui desumere la possibilità di ottenimento dei risultati, nè risulta che abbia mai percepito la retribuzione di risultato”).

Del resto, quando si imputi al giudice di merito, in mancanza di una presa di posizione nella motivazione da esso resa, di non avere applicato un ragionamento presuntivo che la situazione delle emergenze fattuali probatorie emersa nel giudizio avrebbe invece giustificato, si è del tutto al di fuori della logica della c.d. falsa applicazione dell’art. 2729 c.c..

In tal caso, infatti, quello che si imputa al giudice è l’omesso esame della situazione fattuale, cioè del fatto noto o dei fatti noti, che, se fossero stati considerati, avrebbero dovuto condurre alla conoscenza di un fatto ignoto e, dunque, anch’esso ignorato nella motivazione.

Si ricade, quindi, nell’ipotesi che le Sezioni Unite nella citata sentenza n. 8053/2014, nello scrutinare il significato dell’espressione fatto di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 hanno individuato come omesso esame di un fatto secondario.

13. Con il settimo motivo la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 437 c.p.c. e conseguente omessa pronuncia in relazione all’art. 112 c.p.c..

Lamenta che la Corte territoriale abbia ritenuto nuova la domanda relativa alla corresponsione delle retribuzioni nei due anni successivi alla scadenza dell’incarico rispetto a quanto dalla medesima percepito nel periodo di disponibilità, essendo questa da considerarsi inclusa nella domanda di risarcimento del danno maturato e maturando ritualmente avanzata.

14. Il motivo è inammissibile.

La Corte territoriale non ha omesso alcuna pronuncia ma ha ritenuto che la voce di danno prospettata dalla ricorrente solo in grado di appello integrasse una domanda nuova, come tale inammissibile ai sensi dell’art. 437 c.p.c., fondata sui diritti riconosciuti al segretario revocato durante il periodo di disponibilità.

Ha, inoltre, evidenziato che si trattava anche di danno del tutto eventuale che poteva ricorrere solo se nel corso della disponibilità non fossero stati affidati altri incarichi e che in ogni caso in ordine allo stesso non si era mai svolto alcun contraddittorio.

Se è vero che la certezza che deve sussistere per rendere risarcibile il danno futuro non è la stessa di quella che caratterizza il danno presente, tuttavia questa Corte ha affermato che per ritenere tale danno sussistente non basta la mera eventualità di un pregiudizio futuro, essendo invece sufficiente la rilevante probabilità che esso si verifichi.

Tale rilevante probabilità di conseguenze pregiudizievoli è configurabile come danno futuro immediatamente risarcibile solo qualora l’effettiva diminuzione patrimoniale appaia come il naturale sviluppo di fatti concretamente accertati ed inequivocamente sintomatici di quella probabilità, secondo un criterio di normalità fondato sulle circostanze del caso concreto (v. Cass. 27 aprile 2010, n. 10072).

Il motivo di ricorso non consente di ritenere che una richiesta di danno futuro sulla base di fatti sintomatici della probabilità di verifica dello stesso fosse stata ritualmente dedotta sin dal ricorso di primo grado.

15. Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato.

16. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate nella misura di cui al dispositivo.

17. Va dato atto dell’applicabilità del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del presente giudizio che liquida, in quanto al Comune di Boltiere, in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 3.500,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge e rimborso forfetario in misura del 15% e, quanto al Ministero dell’Interno, in Euro 2.500,00 per compensi professionali oltre sperse prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 23 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 2 agosto 2019

Licenziamento legge 104 e abusi.

Legge 104 – abuso e licenziamento.

La Corte di Cassazione è stata investita di un caso dove un lavoratore dopo aver dichiarato che la persona assistita non era ricoverata a tempo pieno, fruisce di tutta una serie di permessi giornalieri.

Il datore di lavoro scopre che la persona da questi assistita è in realtà ospitata presso una struttura assistenziale di natura alberghiera e non ospedaliera. A causa della dichiarazione mendace, il lavoratore viene licenziato. Impugna il licenziamento. Il suo ricorso è respinto in tutti i gradi di giudizio, sino a quando la cassazione ribalta il verdetto ritenendo che l’ospitalità presso una struttura alberghiera non equivale al ricovero che, secondo la Cassazione, deve intendersi quale ricovero ospedaliero.

Va ricordato come la legge 183/2010 abbia modificato il testo della legge 104/1992 inserendo all’articolo 33 comma 3 la specifica condizione che per la concessione dei permessi la persona assistita non doveva essere ricoverata a tempo pieno.

La Cassazione ha ritenuto che per ricovero debba intendersi esclusivamente il ricovero ospedaliero.

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent.14-08-2019, n. 21416

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – rel. Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – est. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 26136-2017 proposto da:

R.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DELLA MARATONA N. 87, presso lo studio dell’avvocato SABINA COLLETTI, rappresentato e difeso dall’avvocato DARIO VLADIMIRO GAMBA;

– ricorrente –

contro

AZIENDA SANITARIA LOCALE ASL (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ARCHIMEDE 112, presso lo studio dell’avvocato CHIARA MAGRINI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato CLAUDIA ZUCCA;

– controricorrente – avverso la sentenza n. 762/2017 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 07/09/2017 R.G.N. 546/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 18/06/2019 dal Consigliere Dott. LUCIA TRIA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SANLORENZO Rita, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso;

udito l’Avvocato DARIO VLADIMIRO GAMBA;

udito l’Avvocato CHIARA MAGRINI.

Svolgimento del processo

1. Con ricorso L. n. 92 del 2014, ex art. 1, comma 47, al Tribunale di Torino R.G., dipendente della ASL TO5 in qualità di operatore tecnico autista, impugnava il licenziamento per giusta causa comminatogli con Delib. Direttore Generale 25 luglio 2016, n. 370 per avere il predetto, in sede di dichiarazione resa in data 10 luglio 2014, dichiarato che il soggetto disabile per il quale beneficiava dei permessi ai sensi della L. n. 104 del 1992, art. 33, comma 3, non fosse ricoverato stabilmente presso alcuna struttura.

2. Il Tribunale, in esito alla fase sommaria, respingeva la domanda.

3. La decisione era confermata in sede di opposizione.

4. Il reclamo proposto dal R. era respinto dalla Corte d’appello di Torino.

La Corte territoriale, per quel che qui interessa, precisava che: a) il dipendente con l’indicata dichiarazione – sottoscritta nelle forme della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà D.P.R. n. 445 del 2000, ex art. 47 e ss. – aveva affermato che la madre, in relazione alla quale usufruiva dei benefici della L. n. 104 del 1992, art. 33 non era “ricoverata a tempo pieno presso alcuna struttura”, mentre la ASL, a seguito di controlli, aveva appurato che già da due anni la signora soggiornava presso una residenza sostanzialmente alberghiera; b) in sede disciplinare era stata contestata unicamente la dichiarazione falsa resa alla datrice di lavoro, senza indagare se sussistessero le condizioni per la fruizione dei suddetti benefici, ciò, però, muovendo dalla premessa che tali benefici comportano notevoli oneri economici e organizzativi e trovano la loro giustificazione solo nella effettiva tutela delle persone disabili; c) quanto all’elemento soggettivo, doveva essere evidenziata la diversità dei criteri e dei presupposti dell’accertamento della responsabilità, rispettivamente in sede penale e in sede disciplinare, sicchè, a prescindere dall’avvenuta archiviazione del procedimento penale, nella sede deputata all’accertamento della responsabilità disciplinare la dichiarazione mendace contestata andava considerata frutto di dolo o, almeno, di grave negligenza; d) l’illecito era da reputarsi di tale gravità da meritare la massima sanzione espulsiva tenendo conto del fatto che la dichiarazione falsa era stata resa nelle forme della dichiarazione sostitutiva di atto notorio da un soggetto legato da un vincolo fiduciario con il datore di lavoro destinatario.

2. Avverso tale decisione R.G. ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi.

3. La ASL (OMISSIS) ha resistito con controricorso.

4. In seguito a rinvio a nuovo ruolo la discussione della causa è stata nuovamente fissata per l’odierna udienza.

5. Entrambe le parti hanno depositano memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione della L. n. 104 del 1992, art. 33, commi 3, 4 e 7-bis, sostenendosi che la Corte d’appello avrebbe confermato il licenziamento del ricorrente sulla base di un fatto inesistente rappresentato dall’illegittima fruizione dei permessi di cui al richiamato art. 33.

2. Con il secondo motivo si denunciano: a) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55-bis nonchè dell’art. 29, comma 2 c.c.n.l. 1 settembre 1995; b) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., rilevandosi che la questione dell’illegittima fruizione dei permessi citati non avrebbe dovuto essere presa in considerazione dalla Corte d’appello, visto che non era stata contestata e neppure introdotta in giudizio dalla datrice di lavoro, sicchè la sentenza impugnata sarebbe anche affetta dal vizio di ultrapetizione.

3. Con il terzo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione della L. n. 104 del 1992, art. 33, commi 3, 4 e 7-bis, dell’art. 2106 c.c. nonchè degli artt. 28 e 29, comma 1, del c.c.n.l. 1 settembre 1995, perchè la Corte territoriale, violando le norme richiamate e i principi generali della materia, avrebbe confermato il licenziamento sulla base di un comportamento privo di qualunque illiceità, visto che in sede penale il procedimento a carico del R. era stato archiviato in quanto era stata esclusa l’ascrivibilità di una falsa dichiarazione o reticenza essendosi ritenuto che il termine ‘ricoverò nell’ambito del citato art. 33 fosse da riferire soltanto alle strutture di tipo sanitario e non a quelle di tipo alberghiero come quella in cui si trovava la madre dell’interessato.

In questa situazione, non essendo compresa la condotta contestata neppure tra quelle indicate dal c.c.n.l. come meritevole di sanzione disciplinare, la Corte d’appello avrebbe, in definitiva, considerato meritevole del licenziamento un comportamento privo di illiceità, muovendo da una erronea accezione del termine ricovero, come se fosse da riferire anche al soggiorno in strutture residenziali.

4. Con il quarto motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione della L. n. 183 del 2010, art. 30, comma 3, dell’art. 13 del c.c.n.l. 19 aprile 2004, dell’art. 29, comma 9, del c.c.n.l. 1 settembre 1995, in via subordinata si deduce che la Corte d’appello non si sarebbe attenuta ai criteri legislativi e contrattuali sulla proporzionalità tra infrazione e sanzione, avendo del tutto ignorato al riguardo le previsioni del c.c.n.l. che indicano le ipotesi in cui è applicabile il licenziamento senza preavviso.

5. Va preliminarmente respinta l’eccezione di improcedibilità del ricorso formulata dall’Azienda controricorrente per non avere il R. prodotto l’integrale testo del c.c.n.l. in relazione al quale ha formulato parte delle censure.

Questa Corte ha da tempo affermato che l’improcedibilità del ricorso per cassazione a norma dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, non può conseguire al mancato deposito del contratto collettivo di diritto pubblico, ancorchè la decisione della controversia dipenda direttamente dall’esame e dall’interpretazione delle relative clausole, atteso che, in considerazione del peculiare procedimento formativo, del regime di pubblicità, della sottoposizione a controllo contabile della compatibilità economica dei costi previsti, l’esigenza di certezza e di conoscenza da parte del giudice è già assolta, in maniera autonoma, mediante la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 47, comma 8, sì che la successiva previsione, introdotta dal D.Lgs. n. 40 del 2006 (che all’art. 7 ha apportato modifiche all’art. 369 c.p.c. prevedendo che il comma 2, n. 4 di tale articolo è sostituito dal seguente: “4. Gli atti processuali, i documenti, i contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda”), deve essere riferita ai contratti collettivi di diritto comune (Cass., Sez. Un., 12 ottobre 2009, n. 21558; Cass., Sez. Un., 4 novembre 2009, n. 23329; Cass. 11 aprile 2011, n. 23329).

6. Tanto precisato, il ricorso, nei motivi in cui è articolato, da trattarsi congiuntamente in quanto intrinsecamente connessi, è fondato per le ragioni di seguito illustrate.

7. Ai fini di un ordinato iter motivazionale occorre, preliminarmente, ricostruire la ratio legis dell’istituto del permesso mensile retribuito di cui alla L. 5 febbraio 1992, n. 104, art. 33, comma 3, alla luce dei suoi presupposti e delle vicende normative che lo hanno caratterizzato.

7.1. In termini generali può dirsi che la norma ha individuato le condizioni cui è subordinato il godimento del diritto e i soggetti che ne sono titolari.

Si tratta di una misura a sostegno dei disabili il cui presupposto è costituito dall’esistenza dello stato di handicap grave della persona da assistere, accertato dagli organi competenti e tale da richiedere un intervento assistenziale permanente e continuativo (ai sensi della L. n. 104 del 1992, art. 3: “1. E’ persona handicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione.

2. La persona handicappata ha diritto alle prestazioni stabilite in suo favore in relazione alla natura e alla consistenza della minorazione, alla capacità complessiva individuale residua e alla efficacia delle terapie riabilitative.

3. Qualora la minorazione, singola o plurima, abbia ridotto l’autonomia personale, correlata all’età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione, la situazione assume connotazione di gravità. Le situazioni riconosciute di gravità determinano priorità nei programmi e negli interventi dei servizi pubblici.

4. La presente legge si applica anche agli stranieri e agli apolidi, residenti, domiciliati o aventi stabile dimora nel territorio nazionale. Le relative prestazioni sono corrisposte nei limiti ed alle condizioni previste dalla vigente legislazione o da accordi internazionali”).

7.3. La normativa specifica in tema di permessi per l’assistenza a familiari disabili di cui alla indicata L. n. 104 del 1992, è la risultante dell’intreccio di diverse disposizioni, che sono state modificate in più occasioni nel corso del tempo. In particolare, l’art. 33, comma 3 di tale legge, nella sua originaria formulazione, così disponeva: “3. Successivamente al compimento del terzo anno di vita del bambino, la lavoratrice madre o, in alternativa, il lavoratore padre, anche adottivi, di minore con handicap in situazione di gravità parente o affine entro il terzo grado, convivente, hanno diritto a tre giorni di permesso mensile, fruibili anche in maniera continuativa a condizione che la persona con handicap in situazione di gravità non sia ricoverata a tempo pieno”.

7.4. La disposizione è stata modificata una prima volta con la L. 8 marzo 2000, n. 53 che, all’art. 19, comma 1, lett. a), ha previsto la copertura da contribuzione figurativa dei giorni di permesso retribuito di cui al comma 3 cit. art. e, all’art. 20, ha sancito l’applicabilità delle disposizioni della L. n. 104 del 1992, art. 33 “ai genitori ed ai familiari lavoratori, con rapporto di lavoro pubblico o privato, che assistono con continuità e in via esclusiva un parente o un affine entro il terzo grado portatore di handicap, ancorchè non convivente”.

7.5. Dalla lettura congiunta della L. n. 104 del 1992, art. 33 con la L. n. 53 del 2000, art. 20 la prevalente giurisprudenza amministrativa (ex plurimis, Consiglio di Stato, sezione quarta, 22 maggio 2012, n. 2964; Consiglio di Stato, sezione sesta, 1 dicembre 2010, n. 8382) ha desunto la eliminazione del requisito della convivenza anche per i permessi mensili retribuiti di cui all’art. 33, comma 3 nonchè l’introduzione dei diversi requisiti della continuità ed esclusività dell’assistenza ai fini della concessione delle agevolazioni in questione.

7.6. La disposizione normativa è stata oggetto di ulteriore modifica ad opera della L. 4 novembre 2010, n. 183 (c.d. Collegato Lavoro) che, all’art. 24, ha sostituito il comma 3 con il seguente: “3. A condizione che la persona handicappata non sia ricoverata a tempo pieno, il lavoratore dipendente, pubblico o privato, che assiste persona con handicap in situazione di gravità, coniuge, parente o affine entro il secondo grado, ovvero entro il terzo grado qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i sessantacinque anni di età oppure siano anche essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti, ha diritto a fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito coperto da contribuzione figurativa, anche in maniera continuativa. Il predetto diritto non può essere riconosciuto a più di un lavoratore dipendente per l’assistenza alla stessa persona con handicap in situazione di gravità. Per l’assistenza allo stesso figlio con handicap in situazione di gravità, il diritto è riconosciuto ad entrambi i genitori, anche adottivi, che possono fruirne alternativamente”.

7.7. La Legge del 2010 ha, inoltre, con l’art. 23, delegato il Governo a riordinare l’intera materia relativa a congedi, aspettative e permessi, al fine di realizzare un “coordinamento formale e sostanziale” delle prescrizioni in vigore (comma 2, lett. a).

7.8. E’ stata apertamente dichiarata la necessità di “garantire la coerenza giuridica, logica e sistematica della normativa e… adeguare, aggiornare e semplificare il linguaggio normativo” (lett. a); al contempo, si è sottolineata l’esigenza di risistematizzare le tipologie dei permessi, con la ridefinizione dei presupposti oggettivi e dei requisiti soggettivi (lett. c e d), semplificando gli oneri di allegazione della documentazione richiesta (lett. e).

In particolare, il legislatore, nel ridefinire la categoria dei lavoratori legittimati a fruire dei permessi per assistere persone in situazione di handicap grave, ha ristretto la platea dei beneficiari.

Infatti, se, da un lato, ha eliminato la limitazione del compimento del terzo anno di età del bambino per la fruizione del permesso mensile retribuito da parte del lavoratore dipendente genitore del minore in situazione di disabilità grave (potendo i genitori, in forza della modifica, fruire, alternativamente, del permesso mensile retribuito anche per assistere figli portatori di handicap in età inferiore ai tre anni), dall’altro, ha riconosciuto il diritto a fruire dei tre giorni di permesso mensile al lavoratore dipendente, pubblico o privato, che assista persona con handicap in situazione di gravità, coniuge, parente o affine entro il secondo grado.

Solo in casi particolari l’agevolazione in questione può essere estesa ai parenti e agli affini di terzo grado delle persone da assistere.

Infatti, l’estensione del diritto a fruire dei benefici in questione ai parenti e affini di terzo grado è stata prevista nei casi in cui il coniuge o i genitori della persona affetta da grave disabilità: a) abbiano compiuto i sessantacinque anni di età; b) siano affetti da patologie invalidanti; c) siano deceduti o mancanti.

7.9. Il citato L. n. 183 del 2010, art. 24 se, dunque, da un lato, ha eliminato i requisiti della continuità ed esclusività dell’assistenza per fruire dei permessi mensili retribuiti, dall’altro, nel modificare della L. n. 104 del 1992, l’art. 33, comma 3, ha introdotto il principio del referente unico per ciascun disabile, ovvero del riconoscimento del permesso mensile retribuito a non più di un lavoratore dipendente per l’assistenza alla stessa persona con handicap in situazione di gravità, fatta salva la possibilità per i genitori, anche adottivi, di fruirne alternativamente, per l’assistenza dello stesso figlio affetto da grave disabilità. Nella formulazione dell’art. 33, comma 3, come sostituito dalla L. n. 183 del 2010, art. 24, comma 1, lett. a), è stato, peraltro, espunto espressamente il requisito della convivenza.

7.10. Il legislatore è intervenuto nuovamente nella materia dei permessi mensili retribuiti spettanti per l’assistenza a persone con disabilità grave, in sede di attuazione della delega contenuta nella L. n. 183 del 2010, art. 23. Tale delega è stata attuata dal D.Lgs. n. 119 del 2011, in particolare dall’art. 6.

7.11. il D.Lgs. n. 119 del 2011, art. 6, comma 1, lett. a), ha aggiunto un periodo al comma 3 della L. n. 104 del 1992, art. 33 relativo alla disciplina della particolare fattispecie del cumulo dei permessi mensili retribuiti in capo al dipendente che presti assistenza nei confronti di più persone in situazione di handicap grave, allorquando ricorrano determinate situazioni ivi elencate.

7.12 Da ultimo la Corte costituzionale, con la sentenza n. 213 del 2016, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della L. n. 104 del 1992, art. 33, comma 3, nella parte in cui non include il convivente – nei sensi di cui in motivazione – tra i soggetti legittimati a fruire del permesso mensile retribuito per l’assistenza alla persona con handicap in situazione di gravità, in alternativa al coniuge, parente o affine entro il secondo grado.

7.13. In tale pronuncia è stato rimarcato che il permesso mensile retribuito di cui all’art. 33, comma 3, è espressione dello Stato sociale che eroga una provvidenza in forma indiretta, tramite facilitazioni e incentivi ai congiunti che si fanno carico dell’assistenza di un parente disabile grave. Trattasi di uno strumento di politica socio-assistenziale, che, come quello del congedo straordinario di cui al D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 42, comma 5, è basato sul riconoscimento della cura alle persone con handicap in situazione di gravità prestata dai congiunti e sulla valorizzazione delle relazioni di solidarietà interpersonale ed intergenerazionale.

Nell’interpretazione del giudice delle leggi, la tutela della salute psicofisica del disabile, costituente la finalità perseguita dalla L. n. 104 del 1992, postula anche l’adozione di interventi economici integrativi di sostegno alle famiglie “il cui ruolo resta fondamentale nella cura e nell’assistenza dei soggetti portatori di handicap” (Corte Cost. sentenze n. 203 del 2013; n. 19 del 2009; n. 158 del 2007 e n. 233 del 2005).

8. Nel novero di tali interventi si iscrive il diritto al permesso mensile retribuito in questione.

8.1. Infatti, alla luce dei suoi presupposti e delle vicende normative che lo hanno caratterizzato, la ratio legis dell’istituto in esame consiste nel favorire l’assistenza alla persona affetta da handicap grave in ambito familiare rendendo incompatibile con la fruizione del diritto all’assistenza da parte dell’handicappato solo una situazione nella quale il livello di assistenza sia garantito in un ambiente ospedaliero o del tutto similare.

8.2. Solo strutture di tal genere, infatti, possono farsi integralmente carico sul piano terapeutico ed assistenziale delle esigenze del disabile, con ciò rendendo non indispensabile l’intervento, a detti fini, dei familiari.

8.3. L’interesse primario cui è preposta la norma in questione è, del resto, quello di “assicurare in via prioritaria la continuità nelle cure e nell’assistenza del disabile che si realizzino in ambito familiare, indipendentemente dall’età e dalla condizione di figlio dell’assistito” (v. Coste Cost. sentenze n. 19 del 2009 e n. 158 del 2007 citate). Tanto più che i soggetti tutelati sono portatori di handicap in situazione di gravità, affetti cioè da una compromissione delle capacità fisiche, psichiche e sensoriali tale da “rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione”, secondo quanto letteralmente previsto dalla L. n. 104 del 1992, art. 3, comma 3.

8.4. L’istituto del permesso mensile retribuito è allora in rapporto di stretta e diretta correlazione con le finalità perseguite dalla L. n. 104 del 1992, in particolare con quelle di tutela della salute psico-fisica della persona portatrice di handicap, diritto fondamentale dell’individuo ai sensi dell’art. 32 Cost., rientrante tra i diritti inviolabili che la Repubblica riconosce e garantisce all’uomo, sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (art. 2 Cost.).

8.5. Pur con i vari interventi legislativi è stata tenuta ferma la condizione che la persona da assistere non sia ricoverata a tempo pieno (cioè per tutte le 24 ore del giorno).

8.6. Tale condizione non può che intendersi riferita al ricovero presso strutture ospedaliere o simili (pubbliche o private) che assicurino assistenza sanitaria continuativa.

Solo se la struttura ospitante sia in grado di garantire un’assistenza sanitaria in modo continuo e così di assicurare al portatore di handicap grave tutte le prestazioni sanitarie necessarie e richieste dal suo status si rende superfluo, o comunque non indispensabile, l’intervento del familiare, venendo così meno l’esigenza di assistenza posta a base dei permessi.

8.7. Se, invece, la struttura non sia in grado di assicurare prestazioni sanitarie che possono essere rese esclusivamente al di fuori di essa, si interrompe la condizione del ricovero a tempo pieno in coerenza con la ratio dell’istituto dei permessi (secondo gli stessi arresti della giurisprudenza costituzionale sopra citati in ordine all’irrilevanza di forme di assistenza non continuativa) che è quella di consentire l’assistenza della persona invalida che non sia altrimenti garantita o per i periodi in cui questa non lo sia.

Solo tale esigenza giustifica il sacrificio imposto al datore di lavoro, in adempimento ad obblighi ispirati al dovere costituzionale di solidarietà.

8.8. Peraltro, come evidenziato, le disposizioni di cui alla L. n. 104 del 1992 sono state oggetto di importanti modifiche aggiuntive ed innovative, introdotte con le L. n. 423 del 1993 e L. n. 53 del 2000, complessivamente caratterizzate da una implementazione del diritto all’assistenza del disabile: tale criterio, che costituisce la ratio legis deve presiedere all’attività di interpretazione della disposizione di che trattasi al fine di assicurare coerenza al sistema e compatibilità con i principi costituzionali, anche ex art. 3 Cost..

8.9. Da tanto consegue che il lavoratore può usufruire dei permessi per prestare assistenza al familiare ricoverato presso strutture residenziali di tipo sociale, quali case-famiglia, comunità-alloggio o case di riposo perchè queste non forniscono assistenza sanitaria continuativa mentre non può usufruire dei permessi in caso di ricovero del familiare da assistere presso strutture ospedaliere o comunque strutture pubbliche o private che assicurano assistenza sanitaria continuativa.

8.10. L’interpretazione qui privilegiata è stata, del resto, fatta propria da questa Corte di cassazione in sede penale (v. Cass. 21 febbraio 2013, n. 8435), laddove, in relazione alla posizione di un pubblico dipendente che rispondeva del reato di falso per aver attestato, appunto falsamente, che la madre ed il padre non erano ricoverati a tempo pieno presso una casa di riposo, richiamando anche le Circolari dell’INPS del 3 dicembre 2010, n. 155 e del Dipartimento Funzione Pubblica n. 13 del 6 dicembre 2010, ha ritenuto che per ricovero a tempo pieno si intende quello, per le intere ventiquattro ore, presso strutture ospedaliere o simili, pubbliche o private, che assicurano assistenza sanitaria continuativà e dunque la natura sanitaria del ricovero.

8.11. Proprio sulla scorta di tale precedente, il Tribunale di Torino, investito in sede penale a seguito della denuncia presentata nei confronti del R. dalla ASL in relazione al reato di cui all’art. 483 c.p., con decreto del 23/8/2017, su conforme richiesta del P.M., ha disposto l’archiviazione ritenendo che il termine ricovero di cui alla L. n. 104 del 1992, art. 33 fosse riferibile al solo ricovero in strutture di tipo sanitario (si vedano gli atti richiamati dal ricorrente ed allegati al ricorso per cassazione).

9. Tale essendo il quadro normativo di riferimento va ritenuto che la Corte territoriale chiamata a valutare la sussistenza o meno di una falsa dichiarazione con riferimento alla compilazione da parte del R. del modulo predisposto dall’Azienda (compilazione da effettuarsi nelle forme della dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà D.P.R. n. 445 del 2000, ex art. 76), avente ad oggetto i requisiti per fruire dei benefici L. n. 104 del 1992, ex art. 33 ed in particolare alla parte in cui era indicata quale condizione negativa (da barrare da parte dell’interessato) la frase ‘non ricoverata a tempo pieno presso alcuna strutturà, avrebbe dovuto tener conto delle finalità per le quali la dichiarazione stessa doveva essere resa e quindi affermarne od escluderne la veridicità non in relazione ad una nozione atecnica di ricovero bensì con riferimento alle condizioni richieste per la fruizione del beneficio e cioè ad un ricovero presso una struttura in grado di garantire un’assistenza sanitaria in modo continuo al portatore di handicap grave.

9.1. Così avrebbe dovuto valutare se l’aver apposto una crocetta in corrispondenza di tale frase in presenza di un ricovero della persona da assistere (madre del R.) presso la (OMISSIS) a partire dal 20 luglio 2012, e cioè presso una struttura che non offriva, come è pacifico, assistenza sanitaria, potesse integrare, alla luce della ratio della disposizione agevolativa come sopra ricostruita, una dichiarazione mendace.

9.2. E pur vero che un fatto non costituente illecito penale può essere, ciò nondimeno, rilevante ai fini disciplinari, tuttavia è sempre necessario che sussistano profili di antigiuridicità che vanno specificamente indicati, anche alla luce delle previsioni del codice disciplinare.

9.3. Nella specie, peraltro, nessuna contestazione sull’utilizzo indebito dei permessi era stata formulata al dipendente essendo stata posta a base del provvedimento espulsivo solo la circostanza di aver il R. reso dichiarazioni mendaci, ritenuta rilevante sotto il profilo dell’affidabilità morale e professionale del predetto e come tale inficiante in modo irreversibile il rapporto di fiducia che deve necessariamente sussistere tra lavoratore e datore di lavoro (si vedano il contenuto della contestazione e del conseguente provvedimento di licenziamento come riportati in sede di ricorso per cassazione nonchè il passaggio della stessa memoria difensiva della ASL del 7/12/2016, pure riportato in ricorso, nel quale è evidenziato che “la valutazione che l’UPD è stato chiamato ad effettuare…. non ha riguardato…. la verifica della sussistenza o meno dei presupposti necessari al sig. R. per continuare a beneficiare dei permessi della L. n. 104 del 1992…”).

9.4. Anche il profilo dell’affidabilità morale e professionale andava, perciò, considerato tenendo conto dell’ambito definito della contestazione limitata alla dichiarazione asseritamente mendace rilasciata dal R..

10. Da tanto consegue che, assorbiti gli ulteriori rilievi, il ricorso, conformemente alle conclusioni del P.G., deve essere accolto e la sentenza cassata con rinvio alla Corte d’appello di Torino che procederà ad un nuovo esame tenendo conto dei principi sopra affermati e provvederà anche in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M. motivazione; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Torino in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 18 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 14 agosto 2019

La Corte accoglie il ricorso nei sensi di cui in

Inapplicabilità del termine di decadenza ex art.32 c.4 legge 183/2010 nel caso il lavoratore non contesti ma persegua il di trasferimento d’azienda

Riportiamo di seguito la massima ed il testo integrale della sentenza n. 13648/2019 della Suprema Corte di Cassazione, che ha accolto il ricorso proposto dagli avv. Fabio Petracci ed Alessandra Marin.

In caso di trasferimento di azienda la domanda del lavoratore volta all’accertamento del passaggio del rapporto di lavoro in capo al cessionario non è soggetta al termine di decadenza di cui all’art. 32, comma 4, lett. c), della l. n. 183 del 2010, applicandosi tale disposizione ai soli provvedimenti datoriali che il lavoratore intenda impugnare, al fine di contestarne la legittimità o la validità.

Cassazione civile sez. lav., 21/05/2019, (ud. 07/02/2019, dep. 21/05/2019), n.13648

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 5553/2017 proposto da:

D.L., domiciliata in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato FABIO PETRACCI, ALESSANDRA MARIN;

– ricorrente –

contro

                   , in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA,                 , presso lo studio dell’avvocato L. M. C., che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

                   .;

– intimata –

avverso la sentenza n. 271/2016 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE, depositata il 27/12/2016 R.G.N. 164/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 07/02/2019 dal Consigliere Dott. CARLA PONTERIO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SANLORENZO Rita, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

udito l’Avvocato FABIO PETRACCI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’appello di Trieste, con sentenza n. 271 pubblicata il 27.12.16, in accoglimento dell’appello proposto da                       e                  e in riforma della pronuncia di primo grado ha dichiarato inammissibile per intervenuta decadenza, ai sensi della L. n. 183 del 2010, art. 32, la domanda di D.L. di impugnazione della risoluzione del rapporto di lavoro con la                ; ha respinto l’appello incidentale con cui era stata riproposta l’impugnazione del contratto a termine concluso con                   ed ha accertato l’insussistenza di un vincolo di solidarietà tra quest’ultima società e la             per il pagamento del trattamento di fine rapporto maturato dalla lavoratrice nel rapporto di lavoro intercorso con ciascuna delle appellanti.

2. La Corte territoriale ha premesso in fatto come la D. fosse stata dipendente dell’             . dall’8.11.99; che a partire dal 4.2.13 la stessa era stata distaccata, insieme alle colleghe V.L. e V.E., presso la sede della                   ; che il 30.6.13 la stessa aveva risolto consensualmente il rapporto di lavoro con                    e dall’1.7.13 era stata assunta con contratto a tempo determinato da               ; analoga sorte avevano avuto le due colleghe, che avevano cessato il rapporto di lavoro con la                 ed erano state assunte a tempo determinato dalla             

3. La sentenza d’appello ha ritenuto che l’impugnativa stragiudiziale proposta dalle lavoratrici, tra cui la D., avente ad oggetto i distacchi, l’asserito trasferimento d’azienda e i contratti a termine, in quanto pervenuta alle società appellanti nelle date 13 e 14 gennaio 2014 non fosse rispettosa del termine di decadenza di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32 e fosse quindi tardiva. Ha sottolineato come il dies a quo del termine di 60 giorni per l’impugnativa stragiudiziale, in una fattispecie come quella in esame in cui non vi era un atto formale di trasferimento di azienda, dovesse individuarsi nel momento in cui il predetto trasferimento, invocato dalla lavoratrice, fosse stato nei fatti esteriorizzato. Ha precisato che tale momento dovesse coincidere con l’inizio del distacco, che la lavoratrice assumeva come simulatorio di un trasferimento di azienda, e che in ogni caso la decorrenza dei 60 giorni non potesse traslarsi in avanti oltre la formale assunzione alle dipendenze della società           , posto che in questo momento risultava certa la cessazione del rapporto di lavoro con              e l’inizio di un autonomo rapporto con l’altra società, a tempo determinato.

4. Nel respingere l’appello incidentale della lavoratrice, la Corte di merito ha dato atto di come il primo contratto a termine fosse stato concluso nella vigenza del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, comma 1 bis, che ne consentiva la stipulazione senza indicazione della causale giustificativa.

5. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la D. affidato ad un unico motivo, cui ha resistito con controricorso la                .

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con l’unico motivo di ricorso la sig.ra D. ha censurato la sentenza per violazione della L. n. 183 del 2010, art. 1, comma 1 bis e dell’art. 2112 c.c..

2. Ha contestato il ragionamento della Corte di merito secondo cui il lavoratore che agisca per far accertare l’avvenuto trasferimento d’azienda ed invochi il passaggio in capo al cessionario del proprio rapporto di lavoro, debba formulare un’impugnazione ai sensi del citato art. 32, pur in assenza di un provvedimento datoriale da impugnare.

3. Ha sostenuto come la L. n. 183 del 2010, art. 1, comma 1 bis, che ha esteso la disciplina di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 6, come modificato, alla “cessione di contratto di lavoro avvenuta ai sensi dell’art. 2112 c.c., con termine decorrente dalla data del trasferimento”, dovesse trovare applicazione nella sola ipotesi in cui il lavoratore contesti la “cessione del contratto”; con la conseguenza non solo che il termine di decadenza non potrebbe decorrere in mancanza di comunicazione della “cessione del contratto” per effetto del trasferimento d’azienda ma che l’ipotesi del lavoratore che intendesse avvalersi dell’avvenuta “cessione” sarebbe estranea alla previsione di cui alla lett. c).

4. Secondo la ricorrente, il caso in esame non potrebbe neanche essere ricondotto dell’art. 32 cit., lett. d), che comunque presuppone l’impugnativa della risoluzione del rapporto di lavoro formale, anche se unitamente all’accertamento della costituzione del rapporto in capo a soggetto diverso, risultando non conforme a Costituzione (Corte Cost. n. 143 del 1969) il decorso del termine di decadenza in costanza di rapporto.

5. Ha censurato l’erroneità della sentenza nella parte in cui ha ritenuto maturata la decadenza anche in relazione all’impugnativa del contratto a termine ed ha sottolineato come il dies a quo di decorrenza del termine dovesse individuarsi nella data di scadenza del contratto, nel caso di specie il 31.12.13 (con proroga fino al 30.6.14), risultando tempestiva l’impugnativa stragiudiziale con lettera dell’8.1.14.

6. Ha affermato l’illegittimità del contratto a termine, se pure acausale, in quanto stipulato da chi, in base all’avvenuto trasferimento di azienda, doveva considerarsi già datore di lavoro.

7. Il motivo di ricorso è fondato e deve trovare accoglimento quanto alla censura di violazione della L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 4, lett. c).

8. La questione in diritto che occorre affrontare attiene all’applicabilità della L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 4, lett. c), all’ipotesi in cui il lavoratore, sul presupposto della configurabilità di un trasferimento d’azienda ai sensi dell’art. 2112 c.c., chieda l’accertamento del passaggio del proprio rapporto di lavoro in capo al cessionario.

9. La Corte d’appello di Trieste ha ritenuto tale fattispecie ricompresa nella previsione della citata lett. c) dell’art. 32 e, nel caso in esame, verificata la decadenza per essere stata tardivamente proposta la relativa impugnativa stragiudiziale.

10. Questa Corte reputa erronea l’interpretazione data dalla Corte di merito.

11. La L. n. 183 del 2010, art. 32, ha esteso ad una serie di ipotesi ulteriori la previsione della L. n. 604 del 1966, art. 6(previamente modificato) sull’impugnativa stragiudiziale, originariamente limitata al licenziamento.

12. I commi 3 e 4 del citato art. 32 sono formulati proprio nel senso di estendere (“le disposizioni di cui all’art. 6… si applicano anche..”) alle ipotesi ivi specificamente elencate l’onere di impugnativa stragiudiziale nei sessanta giorni.

13. Posto che impugnare equivale a contestare o confutare, l’estensione attuata dal citato art. 32, deve intendersi come diretta ad attrarre nella disciplina, prima limitata al solo licenziamento, una serie ulteriore di provvedimenti datoriali che il lavoratore intenda, appunto, impugnare, nel senso di contestarne la legittimità o la validità.

14. Con la conseguenza che fuoriescono dal perimetro del citato art. 32, tutte le ipotesi in cui non vi siano provvedimenti datoriali da impugnare, per denunciarne la nullità o l’illegittimità.

15. Questa Corte (Cass. n. 13179 del 2017) ha, ad esempio, escluso che fosse assoggettata al termine di decadenza di cui all’art. 32 cit. l’azione per l’accertamento e la dichiarazione del diritto di assunzione del lavoratore presso l’azienda subentrante nell’ipotesi di cambio di gestione dell’appalto con passaggio dei lavoratori all’impresa nuova aggiudicatrice; si è affermato come tale fattispecie non rientrasse “nella previsione di cui alla lett. c), riferita ai soli casi di trasferimento d’azienda, nè in quella di cui alla lett. d) del medesimo articolo; detta norma presuppone, infatti, non il semplice avvicendamento nella gestione, ma l’opposizione del lavoratore ad atti posti in essere dal datore di lavoro dei quali si invochi l’illegittimità o l’invalidità con azioni dirette a richiedere il ripristino del rapporto nei termini precedenti, anche in capo al soggetto che si sostituisce al precedente datore, o ancora, la domanda di accertamento del rapporto in capo al reale datore, fondata sulla natura fraudolenta del contratto formale”.

16. L’analisi delle ipotesi enumerate dall’art. 32, avvalora la ricostruzione proposta. Il comma 3 sottopone all’onere di impugnativa stragiudiziale, oltre al licenziamento (e al contratto a termine, nel testo anteriore alle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 81 del 2015), il recesso del committente nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa” anche nella modalità a progetto, di cui all’art. 409 c.p.c., n. 3), ed il trasferimento disposto ai sensi dell’art. 2103 c.c..

17. Dell’art. 32, comma 4, include, tra l’altro, “la cessione di contratto di lavoro avvenuta ai sensi dell’art. 2112 c.c., con termine decorrente dalla data del trasferimento” (lett. c) e “ogni altro caso in cui, compresa l’ipotesi prevista dal D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, art. 27, si chieda la costituzione o l’accertamento di un rapporto di lavoro in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto” (lett. d).

18. Anche dell’art. 32, comma 4, al pari del comma 3, estende l’onere di impugnativa stragiudiziale a specifici provvedimenti datoriali, quali appunto il passaggio del rapporto di lavoro del dipendente in capo al cessionario per effetto del trasferimento d’azienda deciso dal datore (dovendo intendersi in senso atecnico, estraneo cioè alla previsione degli artt. 1406 c.c. e segg., il riferimento alla “cessione del contratto” contenuto nella lett. c) dell’art. 32, logicamente incompatibile con l’art. 2112 c.c.), e le fattispecie interpositorie che, se pure azionabili attraverso una domanda di costituzione del rapporto in capo all’effettivo utilizzatore, sono logicamente legate alla contestazione del rapporto fittizio costituito con il soggetto interposto (lett. d).

19. L’interpretazione dell’art. 32, come sopra delineata si impone, oltre che per la coerenza con i criteri letterale e logico sistematico, anche in ragione dell’esigenza di una lettura rigorosa della disposizione suddetta che ha introdotto, per fattispecie prima sottoposte unicamente ai termini di prescrizione, un nuovo e ristretto termine di decadenza per l’impugnativa stragiudiziale e per la successiva azione in giudizio (cfr. Cass. n. 13179 del 2017 in motivazione; Cass., S.U. n. 4913 del 2016).

20. D’altra parte, se si seguisse la tesi della Corte di merito e si ritenesse sottoposta al termine di decadenza di cui all’art. 32, comma 4, lett. c), la domanda volta ad ottenere il riconoscimento del passaggio del rapporto di lavoro in capo al cessionario, ai sensi dell’art. 2112 c.c., risulterebbe oltremodo difficile stabilire il dies a quo di decorrenza del termine; la stessa sentenza impugnata ha individuato in modo impreciso e alternativo tale dies a quo “nel momento in cui il… trasferimento risulta, nei fatti, esteriorizzato”, e lo ha collegato al distacco della dipendente (sul presupposto della simulazione dello stesso) oppure alla conclusione del contratto (a termine) con la società che la lavoratrice assume cessionaria.

21. In conclusione, la previsione di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 4, lett. c), deve intendersi come relativa alle ipotesi in cui il lavoratore contesti la “cessione del contratto”, o meglio il passaggio del rapporto di lavoro in capo al cessionario per effetto di un trasferimento d’azienda posto in essere dal suo datore di lavoro, mentre restano estranee alla stessa le ipotesi in cui il lavoratore voglia avvalersi del trasferimento d’azienda (formalmente deliberato dal datore di lavoro cedente) e quindi ottenere il riconoscimento del passaggio e della prosecuzione del rapporto di lavoro in capo al cessionario oppure chieda di accertare l’avvenuto trasferimento d’azienda che assuma realizzato in fatto, come nel caso di specie, e quindi la prosecuzione del rapporto di lavoro col cessionario.

22. Tale conclusione non esclude l’onere di impugnare i provvedimenti datoriali che siano compresi nell’elenco di cui all’art. 32 cit., o il cui onere di impugnativa sia altrimenti previsto (cfr. art. 2113 c.c.), eventualmente posti in essere al fine di mascherare il trasferimento d’azienda che il lavoratore assuma, nei fatti, realizzato.

23. Nel caso in esame, è fondata anche la censura mossa alle statuizioni della sentenza d’appello sul contratto a tempo determinato concluso dalla ricorrente con la                   , quanto alla erronea individuazione del dies a quo del termine per l’impugnativa stragiudiziale.

24. Ai sensi della L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 3, lett. d), “Le disposizioni di cui alla L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 6, come modificato dal comma 1 del presente articolo, si applicano inoltre… d) all’azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro, ai sensi del D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, artt. 1,2 e 4 e successive modificazioni, con termine decorrente dalla scadenza del medesimo”.

25. Il dies a quo deve essere individuato nella scadenza del termine e non nella data di conclusione del contratto a tempo determinato; la Corte di merito ha male applicato la disposizione in esame in quanto ha giudicato tardiva l’impugnativa stragiudiziale del 13-14 gennaio 2014 in relazione al contratto concluso tra la ricorrente e la           l’1.7.2013, con scadenza il 31.12.2013.

26. La residua censura che desume l’illegittimità dell’apposizione del termine, nonostante l’applicazione ratione temporis del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, comma 1 bis, che legittimava la stipulazione di contratti a termine acausali, dagli effetti del dedotto trasferimento di azienda, deve ritenersi assorbita in ragione dell’accoglimento del motivo di ricorso in ordine alla violazione dell’art. 32, comma 4, lett. c) cit..

27. Per le considerazioni finora svolte, il ricorso deve trovare accoglimento in relazione alle censure come sopra esaminate, con conseguente cassazione della sentenza impugnata e rinvio alla medesima Corte d’appello, in diversa composizione, che procederà ad un nuovo esame della fattispecie alla luce dei principi sopra enunciati, oltre che alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità.

La Corte accoglie il ricorso nei sensi di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Trieste, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso nei sensi di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Trieste, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 7 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 21 maggio 2019

La professionalità è un bene tutelato costituzionalmente che appartiene al lavoratore

La professionalità è un bene tutelato costituzionalmente che appartiene al lavoratore

Sanzione disciplinare della retrocessione – Autoferrotranvieri – Questione di incostituzionalità rimessione alla Corte Costituzionale – Cassazione Ordinanza n. 13525/19 del 20 maggio 2019.

L’inquadramento professionale e la professionalità in genere assumono tutela costituzionale.

La Corte di Cassazione con l’ordinanza sopra indicata è investita di un tema a lungo non affrontato.

Esso è individuato nella speciale sanzione della retrocessione professionale prevista esclusivamente per gli autoferrotranvieri dal regio decreto n.148/1931.

Un lavoratore colpito da tale sanzione e dequalificato in base a sanzione disciplinare, si rivolge al Tribunale di Bergamo , ammettendo i fatti contestati, ma contestando invece la legittimità della norma che consente nello specifico caso dei lavoratori autoferrotranvieri la sanzione della dequalificazione.

Il Tribunale di Brescia respinge la domanda ed il lavoratore si rivolge alla locale Corte d’Appello che conferma la decisione del Tribunale.

Si rivolge quindi alla Corte di Cassazione che, ritenendo fondata l’eccezione di incostituzionalità della norma che prevede la sanzione della retrocessione, investe della questione la Corte Costituzionale che, a questo punto, dovrà pronunciarsi.

L’ordinanza affronta il problema della retrocessione per la prima volta.

Altri interventi giurisprudenziali avevano invece smantellato gran parte dell’impianto disciplinare del settore degli autoferrotranvieri  anche relativamente al punto che prevedeva la giurisdizione del giudice amministrativo, laddove ormai ampi settori del lavoro pubblico erano stati devoluti alla giurisdizione ordinaria.

Al di fuori dello specifico settoriale interesse, la pronuncia riconosce il valore costituzionale del lavoro non solo negli elementi della prestazione e della retribuzione con i connessi diritti, ma eleva la professionalità ed il ruolo anche morale che ne consegue come autonomo diritto esplicazione dell’articolo 35 della Costituzione che non consente provvedimenti umilianti e degradanti.

Un passo importante nel riconoscimento del valore sia morale che contrattuale del bene professionalità e della tutela che merita.

Leggiamo e non possiamo che condividere il punto affrontato dalla difesa del ricorrente  “violazione diritto al lavoro” , laddove afferma che esso non si attua solo attraverso la salvaguardia delle posizioni economiche, ma anche e soprattutto con la garanzia di diritti fondamentali inerenti al rapporto di lavoro , tra i quali senz’altro il diritto alla qualifica che è definita come bene legato alla persona del lavoratore come livello di esperienze personalmente maturate e conferite nel rapporto di lavoro.

Segue il testo dell’ordinanza.

Cass. civ. Sez. lavoro, Ord., (ud. 19/02/2019) 20-05-2019, n. 13525

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA INTERLOCUTORIA

sul ricorso 3038/2015 proposto da:

P.M., domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato LUCIANO DELLA VITE;

– ricorrente –

contro

A.T.B. SERVIZI S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DI RIPETTA 22, presso lo studio dell’avvocato GERARDO VESCI, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati MATTEO GOLFERINI, MARGHERITA CAGGESE;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 327/2014 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il 10/07/2014 R.G.N. 60/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19/02/2019 dal Consigliere Dott. FEDERICO DE GREGORIO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELENTANO Carmelo, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato SERGIO GANDI per delega verbale Avvocato MARGHERITA CAGGESE.

Svolgimento del processo

Il sig. P.M., dipendente di ATB Servizi S.p.a., concessionaria di servizio pubblico di trasporto, chiese al giudice del lavoro di Bergamo di essere reintegrato nel profilo professionale di addetto all’esercizio con parametro retributivo 193 e di dichiarare la cessazione di ogni effetto della proroga del termine previsto per gli aumenti retributivi contrattualmente previsti, il tutto con decorrenza 23 luglio 2009, data in cui l’azienda gli aveva inflitto la sanzione disciplinare della retrocessione di due gradi nella carriera (perciò retrogradazione al parametro retributivo 175 e assegnazione del profilo di operatore di esercizio), prevista dal al R.D. n. 148 del 1931, art. 37, all. A, nonchè la correlata sanzione di cui all’art. 44 dello stesso Regio Decreto, ossia in aggiunta la “proroga del termine normale per l’aumento della retribuzione, per la durata di mesi sei, con riguardo a tutti gli aumenti retributivi spettanti dopo quello che sarà per primo ritardato a seguito dell’applicazione della retrocessione disposta” con lo stesso provvedimento.

Il giudice adito, ritenuto che l’attore non contestava il merito della sanzione inflittagli, ma quale unico motivo della domanda la legittimità costituzionale delle citate norme di cui al suddetto decreto 148, per contrasto con gli artt. 3 e 35 Cost., rigettava il ricorso, ritenendo la manifesta infondatezza della prospettata questione di legittimità costituzionale.

Il P. impugnava la suddetta pronuncia, sostenendo l’erroneità della decisione.

La società convenuta resisteva all’interposto gravame, spiegando a sua volta appello incidentale, chiedendo la riforma della sentenza impugnata nella parte in cui aveva respinto l’eccezione di inammissibilità della domanda, dal momento che l’unica censura svolta dal lavoratore in ordine alle sanzioni irrogategli era l’eccezione d’incostituzionalità.

La Corte d’Appello di Brescia con sentenza n. 327 in data 27 giugno 2014, pubblicata il successivo 10 luglio, rigettava l’appello principale e quello incidentale, dichiarando compensate le spese relative al secondo grado del giudizio.

La Corte territoriale osservava che, come correttamente già rilevato dal primo giudicante, il lavoratore non aveva contestato la sussistenza dell’illecito disciplinare (fatto accaduto il 6 novembre 2008 nell’esercizio delle mansioni di controllore, per cui il P. era stato rinviato a giudizio, con successiva applicazione della pena ex art. 444 c.p.p., in ragione di mesi undici di reclusione), ma aveva chiesto la rimozione degli effetti delle anzidette sanzioni, sostenendo, incidentalmente, l’illegittimità delle stesse, siccome risultando incostituzionali le norme che le prevedevano.

La Corte d’Appello, quindi, condivideva la qualificazione della domanda negli anzidetti termini, per cui la stessa era stata ritenuta ammissibile. Infatti, l’accertamento dell’illegittimità costituzionale delle norme di cui al R.D. n. 148 del 1931, non era il petitum diretto della domanda, ma lo strumento per ottenere quel determinato petitum, inteso come il bene della vita che si intende conseguire, ossia la reintegrazione del profilo professionale di addetto all’esercizio con parametro retributivo 193 e la cessazione della proroga del termine per l’aumento stipendiale.

Tanto bastava, ad avviso della Corte bresciana, per ritenere l’infondatezza dell’appello incidentale. Non essendo stata riproposta la questione della giurisdizione, occorreva quindi passare al merito del gravame, però giudicato anch’esso infondato, condividendo la Corte distrettuale le argomentazioni del giudice di primo grado in ordine alla assoluta specialità, sia pure residuale, della disciplina dettata dal suddetto Regio Decreto, di modo che non sarebbe manifestamente irragionevole o palesemente arbitrario il mantenimento di un regime speciale riservato agli autoferrotranvieri. In particolare, si richiamava l’insegnamento della Corte costituzionale, la quale in relazione all’art. 3 Cost., aveva chiarito che il rapporto di lavoro degli addetti ai pubblici servizi di trasporto in regime di concessione costituisce una forma intermedia tra l’impiego pubblico e quello privato ed è appunto assoggettato alla normativa speciale di cui al Regio Decreto, giusta la sentenza n. 190 del 2000 pronunciata dalla Consulta, nonchè le ordinanze della stessa nn. 439 del 2002 e 301 del 2004. La specialità del rapporto era giustificata dall’interesse collettivo, ritenuto preminente, al buon funzionamento e all’efficienza del servizio pubblico del trasporto, avuto riguardo alle variegate multiformi tipologie di gestione da parte di aziende autonome o da parte di soggetti privati, tutti in regime di concessione e con poteri derivanti dal trasporto di concessione in ordine anche alla sicurezza e alla polizia di trasporti.

Alla luce della specialità del rapporto, era dunque condivisibile l’affermazione del primo giudicante, secondo cui proprio la permanenza nell’ordinamento della specialità del rapporto faceva sì che la scelta discrezionale del legislatore di non intervenire, modificandola, sulla speciale regolamentazione delle sanzioni disciplinari per i dipendenti delle aziende – in mano pubblica o privata – di trasporto non era censurabile sul piano costituzionale, non essendo manifestamente irragionevole o palesemente arbitraria.

Non residuava, quindi, alcuno spazio per un paragone comparativo tra la disciplina in esame, ed in particolare la parte normativa concernente le anzidette sanzioni, con quella di lavoratori subordinati privati o dei lavoratori pubblici. Infatti, il principio di eguaglianza ex art. 3 Cost., non era invocabile proprio per la diversità della materia in questione, inerente al rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri, rispetto al rapporto di lavoro di diritto privato e al rapporto di lavoro alle dipendenze di pubbliche amministrazioni. Ed invero non era prospettabile una violazione dell’art. 3, occorrendo in proposito soltanto lo stesso trattamento per le situazioni identiche, ma non anche parità di trattamento riguardo a situazioni diverse.

Secondo la Corte territoriale, era altresì manifestamente infondata l’eccezione d’incostituzionalità dell’anzidetta normativa in relazione all’art. 35 Cost., comma 1. Infatti, la questione andava esaminata non in relazione al diritto alla qualifica e alla violazione dello stesso, bensì sotto il profilo della legittimità costituzionale di una sanzione disciplinare comportante, in funzione punitiva, una retrocessione in carriera e quindi una sanzione diversa da quelle prevista dalla legge nell’ambito degli altri rapporti di lavoro, pubblici e privati, retrocessione in carriera, la quale ad ogni modo non restava bloccata, potendo comunque progredire. Ad avviso della Corte, inoltre, l’art. 35 Cost., tutelando il diritto, alla formazione e alla elevazione professionale dei lavoratori, non aveva introdotto limiti al legislatore in materia di sanzioni disciplinari, di modo che il suo richiamo non appariva pertinente.

Era chiaro, poi, che la specialità del rapporto comportava diverso trattamento, anche sotto tale profilo, rispetto ai dipendenti privati e pubblici.

La Corte di merito condivideva anche l’affermazione del primo giudicante, secondo cui, pur volendosi ipotizzare una limitazione del diritto quesito alla qualifica, si tratterebbe comunque di una limitazione temporale, visto che del cit. R.D. n. 148, art. 44, u.c., prevedeva la possibilità di ottenere la reintegrazione, trascorso almeno un anno dalla retrocessione, per gli agenti ritenuti meritevoli, donde la restituzione a ciascuno della qualifica in precedenza rivestita, fermi restando gli effetti della pena accessoria della proroga e restando pure salva la facoltà dell’azienda di farne cessare la ripercussione ai sensi dell’art. 43, commi 3 e 4. Nè poteva assumere rilevanza che il giudizio sulla meritevolezza fosse riservato al datore di lavoro, laddove in caso di ingiustificata negazione dell’istanza di reintegrazione restava comunque assicurato il diritto del lavoratore di rivolgersi al giudice per far valere le proprie ragioni.

Infine, la Corte distrettuale rilevava come la retrocessione fosse meno afflittiva del licenziamento o, con riferimento agli autoferrotranvieri, della destituzione, sanzione la cui legittimità era fuori discussione.

Avverso la succitata sentenza d’appello ha proposto ricorso per cassazione il sig. P.M. come da atto notificato il 5 gennaio 2015, affidato a quattro motivi, cui ha resistito A.T.B. Servizi S.p.a., mediante controricorso notificato a mezzo p.e.c. in data 11 febbraio 2015, nonchè tramite ufficiale giudiziario in data 12-13 febbraio 2015, in seguito illustrato da memoria depositata in vista dell’adunanza in camera di consiglio fissata per il giorno 17 ottobre 2018.

All’esito di detta adunanza, quindi, il collegio ha ritenuto necessaria la trattazione in pubblica udienza come da relativa ordinanza.

Motivi della decisione

Con il primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, il ricorrente ha denunciato la violazione degli artt. 2, 3, 4 Cost. e art. 35 Cost., comma 1, la cui disciplina si assume in contrasto con quella invece dettata al R.D. n. 148 del 1931,art. 37, comma 1, n. 5 e art. 44, all. A. Violazione diritto al lavoro (che si attua non solo attraverso la salvaguardia delle posizioni economiche, ma anche e soprattutto con la garanzia di diritti fondamentali inerenti al rapporto di lavoro, tra i quali senz’altro pure il diritto alla qualifica. La qualifica in realtà costituisce il criterio di identificazione del tipo di prestazione espletabile dal lavoratore e discende congiuntamente sia dall’astratta formazione tecnico professionale del medesimo, sia dal complesso delle concrete esperienze lavorative maturate nel corso della sua attività. In quanto espressione delle capacità tecnico professionali del lavoratore la qualifica appare, quindi, non solo connaturata alla qualità di lavoratore subordinato, ma addirittura strettamente legata alla persona del lavoratore, poichè esprime appunto il livello di esperienze da lui personalmente maturato e formalmente riconosciutogli nel corso del rapporto). Secondo il ricorrente, proprio per l’essenziale rilievo che la qualifica riveste nel rapporto di lavoro e per l’ontologica connessione di essa con la personalità del lavoratore, appare chiaramente ricompresa nel concetto di tutela del lavoro di cui all’art. 35 Cost., anche la tutela della professionalità maturata dal lavoratore e divenuta parte di esso, il cui relativo diritto si presenta quale diritto essenziale della persona del lavoratore, come principio generale dell’ordinamento del lavoro.

La tutela di lavoro deve estrinsecarsi anche nella corretta ed equa utilizzazione delle capacità lavorative del prestatore e nella garanzia di riconoscimento della qualifica, la quale è soggetta a variazioni in relazione alla modificazione della stessa capacità lavorativa del prestatore, ma non per motivi puramente disciplinari.

Poichè la qualifica non costituisce di certo un beneficio accordato discrezionalmente dal datore di lavoro, nè tantomeno un accessorio delle obbligazioni principali derivanti dal rapporto di lavoro, ma rappresenta e si identifica con la persona del lavoratore, in ciascun momento storico del rapporto considerato, individuando le qualità essenziali e ontologiche della sua capacità professionale e lavorativa, appare inammissibile, secondo il ricorrente, che il datore di lavoro possa, con un mero provvedimento disciplinare, privare lavoratore della capacità lavorativa da lui raggiunta, retrocedendolo ad una qualifica inferiore, ovvero azzerando – anche attraverso ripetute retrocessioni, teoricamente possibili, secondo la normativa de qua – addirittura i progressi tecnici maturati dal dipendente.

Di conseguenza, si assume da parte ricorrente, altresì, illegittima la norma di legge che possa consentire l’anzidetta privazione mediante la contestata retrocessione ad una qualifica inferiore, stante il palese contrasto con la tutela generale del lavoro di cui sopra. Del resto, una tale possibilità appare già in contrasto con la disciplina ormai generalmente fissata dalla legislazione ordinaria più recente, rispetto a quella speciale, relativamente alla materia trattata per tutti i lavoratori subordinati in materia di qualifica e di mansioni.

Infatti, l’art. 2103 c.c., come modificato dalla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 13 (ovviamente, secondo il testo nella specie ratione temporis applicabile con riferimento alla sanzione applicata il 23 luglio 2009), afferma il diritto del lavoratore a vedere sempre rispettate le mansioni e la qualifica di assunzione, ovvero quella successivamente acquisite, sancendo indirettamente la inderogabilità in pejus del livello lavorativo raggiunto e comunque sottraendo alla sfera di efficacia dei provvedimenti disciplinari la materia della qualifica. Tale normativa costituirebbe, dunque, diretta attuazione proprio dell’art. 35 Cost..

D’altro canto, la L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 7, sancisce che, fermo restando quanto disposto dalla L. 15 luglio 1966, n. 604, non possono essere disposte sanzioni disciplinari che comportino mutamenti definitivi del rapporto di lavoro. Quindi, secondo il ricorrente, è previsto, come principio generale dell’ordinamento in materia di lavoro, che l’unica modificazione definitiva consentita come sanzione disciplinare possa consistere nel licenziamento, quando ne ricorrano gli estremi previsti specificamente dalla relativa disciplina.

La ratio delle anzidette disposizioni di legge era ravvisabile nell’esigenza di sottrarre alla disponibilità delle parti, in particolare del datore di lavoro, la gestione della qualifica del lavoratore e cioè della sua capacità tecnicocon il progredire delle esperienze del lavoratore.

Disparità di trattamento.

Inoltre, sulla scorta della richiamata legislazione ordinaria, le disposizioni del R.D. n. 148 del 1931, art. 37, comma 1, n. 5 e art. 44, allegato A, ad avviso del ricorrente, appaiono in contrasto con l’art. 3 Cost., in quanto, prevedendo una regolamentazione speciale e peggiorativa delle sanzione disciplinare per i soli dipendenti delle aziende ferrotranviarie, attuano una disparità di trattamento rispetto tutti gli altri lavoratori dipendenti, per i quali la legge non prevede e non ammette la possibilità di una perdita della qualifica raggiunta quale particolare tipo di sanzione disciplinare. Tale diversità di trattamento non sembra giustificabile neppure sulla base dell’asserita specialità del lavoro dei dipendenti di aziende di trasporto, dal momento che non trova comunque fondamento in alcuna peculiarità di tale rapporto, ma attiene invece ad un aspetto generale, quale il potere disciplinare del datore di lavoro, e alla tipologia delle sanzioni. Proprio tale tipologia non appare ragionevolmente condizionabile della specialità del rapporto, quanto meno non al punto da consentire alla parte datoriale di incidere sulla qualifica del lavoratore e sulle corrispondenti mansioni.

Pertanto, ad avviso del ricorrente, la questione di legittimità costituzionale dei succitati art. 37, comma 1, n. 5 e art. 44, non poteva dirsi manifestamente infondata, risultando la sua definizione rilevante e preliminare ai fini della decisione della controversia.

D’altro canto, per diritti inviolabili dell’uomo si intendono quei diritti e quelle libertà considerati essenziali e incancellabili, in quanto strettamente connessi alla natura umana. Come tali questi diritti sono sottratti al potere dispositivo del legislatore ordinario e oltretutto immuni anche dalle procedure di revisione costituzionale. Pure il diritto al lavoro e, di conseguenza alla qualifica e alla mansione corrispondente, andrebbe ricompreso tra i diritti inviolabili, giacchè l’attività lavorativa non può essere esaminata esclusivamente sotto il profilo dello strumento di sostentamento, ma più propriamente come una modalità di manifestazione della personalità del lavoratore; con l’ulteriore conseguenza per cui la lesione dei valori costituiti in capo al prestatore di lavoro subordinato si pone anche conflitto con le previsioni di cui all’art. 2 Cost..

Nè potrebbe correttamente sostenersi che da nessuna norma costituzionale emerga espressamente un limite al potere disciplinare del datore di lavoro, avuto riguardo in primo luogo all’espressa previsione dell’inviolabilità dei diritti dell’uomo di cui all’art. 2 Cost., sia come singolo sia nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità. Ed un primo ordine di limiti generali al potere datoriale di incidere disciplinarmente sui beni e diritti fondamentali, materiali e morali, dell’uomo è più concretamente poi individuato da tutte quelle norme che tutelano la libertà fondamentali della persona. Tali garanzie dei diritti e delle libertà si pongono come limiti generali non solo per il legislatore, che non può cancellarli, se non per particolari e tipizzate esigenze di interesse generale, ma anche per qualsiasi ordinamento privato di fonte contrattuale che voglia prevedere sanzioni a carico degli aderenti al medesimo.

Anche per quanto concerne la specifica disciplina del lavoro, secondo il ricorrente, la Costituzione prevede molteplici limiti al potere datoriale, sia con riguardo agli aspetti economici che agli aspetti professionali dell’attività prestata dal lavoratore, dei quali taluni espressamente indicati, ma altri necessariamente impliciti per ovvie ragioni di sintesi e di stringatezza del testo costituzionale, benchè chiaramente deducibili per via interpretativa da tenore generale delle norme costituzionali. In particolare, allorchè la Costituzione esprime esigenze di tutela del lavoro, ciò implica che siano da intendersi come inammissibili e illeciti tutti i comportamenti risultanti in contrasto con tale esigenza ed illegittime quindi le norme di legge che li autorizzano.

Sempre ad avviso del ricorrente, inoltre, art. 37 e art. 44, all. A al Regio Decreto si pongono in netto contrasto con l’art. 4 Cost., norma che riprende ampliandolo ciò che l’art. 1 della medesima sancisce quale fondamento della Repubblica. La norma, infatti, assegna al lavoro il duplice ruolo di diritto e di dovere, intesi non in senso strettamente giuridico, ma rispettivamente come un fine, cui lo Stato deve tendere, ed un dovere morale che ciascun individuo, cittadino o meno, dovrebbe adempiere, nel rispetto della libertà della persona. Il riconoscimento del lavoro come uno dei principi fondanti della Repubblica rimanda alla funzione sociale del lavoro svolto come mezzo di produzione e di ricchezza materiale e morale per la persona, non come merce necessaria alla massimizzazione dei profitti, nè come fattore di produzione, ma come realizzazione dell’individuo e delle sue aspirazioni materiali e spirituali.

Con il secondo motivo (formulato, presumibilmente, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) è stata denunciata la omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa la opinata specialità del rapporto di lavoro in questione, relativo agli autoferrotranvieri, “problematica” da considerarsi fatto controverso e decisivo, già oggetto di discussione tra le parti.

Si contesta la motivazione fornita dai giudici di merito, secondo cui non sussiste il paventato dubbio di legittimità costituzionale, attesa la assoluta specialità, sia pure residuale, della disciplina contenuta nel citato Regio Decreto, trattandosi in effetti ad avviso del ricorrente di affermazioni tralaticie, che non hanno offerto alcuna plausibile spiegazione circa le ragioni dell’asserita specialità caratterizzante il rapporto degli autoferrotranvieri, e del perchè la stessa dovrebbe giustificare una così stridente disparità di trattamento, rispetto ad altre categorie di lavoratori, con riguardo ad un aspetto di carattere generale quale il potere disciplinare del datore di lavoro.

In effetti, la disciplina dettata dai suddetti artt. 37 e segg., si assume lontanissima da quella prevista dall’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori e il mantenimento di sanzione disciplinare definitiva, come la retrocessione, non si fonda e non si giustifica su alcuna peculiarità del rapporto considerato. Anche a voler ritenere che il rapporto con gli addetti ai pubblici servizi di trasporto costituisca una forma intermedia tra l’impiego pubblico a quello privato, non è possibile reperire una sola plausibile motivazione per il mantenimento nell’ordinamento giuslavoristico di una sanzione quale la retrocessione. La quale non è neppure menzionata nel codice di disciplina previsto per i dipendenti della pubblica amministrazione. Se anche fosse vero che la specialità del rapporto è giustificata dall’interesse collettivo al buon funzionamento del servizio pubblico di trasporto, ciò non potrebbe, comunque, legittimare la permanenza di una sanzione, dal permanente carattere afflittivo come la retrocessione, espunta invece dalla vigente legislazione nei confronti dei pubblici dipendenti. Anzi, proprio l’odiosa e irragionevole disparità di trattamento in danno dei lavoratori del comparto autoferrotranvieri si pone in contrasto, evidente e incontrovertibile, con l’art. 3 Cost..

Infatti, nel settore dei trasporti di lavoro del personale civile, pubblico e privato, la sanzione della retrocessione costituisce un unicum che penalizza esclusivamente di autoferrotranvieri. Il trattamento deteriore in questione non risulta previsto per i ferrovieri o gli autoferrotranvieri internavigatori delle autolinee private. Rispetto a questi ultimi l’art. 66 della c.c.n.l. 23 luglio 76 prevede le sanzioni del rimprovero, della multa, della sospensione del licenziamento, ma non la retrocessione. Tale misura non è neanche prevista per i dipendenti delle Ferrovie dello Stato (per i quali il c.c.n.l. 6 febbraio 1998 all’art. 95 contempla esclusivamente il rimprovero scritto e verbale, la multa, la sospensione e il licenziamento), nè per i dipendenti delle aziende di trasporto merci come da art. 31 c.c.n.l. 22-07-1991.

In realtà la contestata sanzione punitiva, secondo il ricorrente, era stata palesemente tratta dall’armamentario sanzionatorio previsto per i militari, per cui tuttavia non sussiste più alcuna ragione legittimante l’equiparazione tra appartenenti alle forze armate e i dipendenti del settore autoferrotranviario. Oltretutto la materia disciplinare era l’unica parte normativa sopravvissuta alle modifiche, introdotte successivamente, che avevano eliminato ogni diversificazione di trattamento tra i lavoratori.

Tuttavia, nonostante la situazione sopra delineata circa il dubbio fondato di legittimità costituzionale delle anzidette norme residuali, la Corte d’Appello aveva ritenuto che la violazione dell’art. 3 Cost., non avrebbe avuto alcuna ragion d’essere. Per contro, una volta ammesso che a colpi di contrattazione collettiva e sulla base di ormai consolidati orientamenti giurisprudenziali la maggior parte delle disposizioni della legge speciale era stata travolta, ne derivava inevitabilmente la necessità di una completa parificazione, anche sul piano disciplinare, dei lavoratori del comparto autoferrotranvieri ai colleghi dell’analogo settore pubblico e privato. A mero titolo esemplificativo, infatti, parte ricorrente ha segnalato che i ferrovieri, a suo tempo anch’essi sottoposti alla disciplina dettata dal suddetto Regio Decreto, sono rimasti soggetti alla sanzione della retrocessione soltanto fino al momento della privatizzazione delle Ferrovie dello Stato e all’adozione di criteri dettati, in tema di provvedimenti disciplinari, della L. n. 300 del 1970. Non si vedeva dunque la ragione per la quale una punizione così afflittiva e ingiusta dovesse permanere con riguardo soltanto ai dipendenti di aziende speciali, come la A.T.B. Servizi, la quale in quanto società per azioni aveva adottato pienamente il regime privatistico, tanto nei rapporti con il personale quanto nel relazionarsi con i soggetti terzi, a conferma dunque che anch’essa operava sul mercato del trasporto in assenza di qualsivoglia privilegio o primato legato ad una sua presunta genesi pubblica (residuo di potestà e poteri pubblicistici). Con il terzo motivo il ricorrente ha denunciato, ex art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione del D.Lgs. n. 112 del 1998, art. 102, comma 1, lett. B, nonchè della L. n. 300 del 1970, art. 7.

Il D.Lgs. n. 112 del 1998, in attuazione della cosiddetta riforma Bassanini aveva previsto la soppressione delle norme relative alla nomina dei consiglieri disciplina. Anche la Regione Lombardia era intervenuta sul punto con la L.R. n. 1 del 2000, sopprimendo le funzioni amministrative sino ad allora per la nomina dei componenti dei consigli di disciplina delle aziende di trasporto pubblico locale. Il Consiglio di Stato con il parere reso in data 19 aprile 2000 aveva, inoltre, sostenuto che l’intervenuta modifica normativa aveva comportato non solo l’abolizione dei consigli di disciplina, ma anche una sostanziale abrogazione della normativa pseudo-pubblicistica dedicata alle sanzioni disciplinari per gli autoferrotranvieri, sostanziale e procedurale, sicchè aveva opinato nel senso che non vi fossero più ostacoli alla piena applicazione in tale ambito della disciplina di diritto comune dettata dalla L. n. 300 del 1970.

Quanto, poi, alla limitazione temporanea della sanzione, come sul punto ritenuto dalla Corte d’Appello, il ricorrente ha osservato che in realtà, a mente dell’art. 44, u.c., del suddetto allegato A al Regio Decreto, il prestatore può ottenere la restituzione della qualifica rivestita prima della retrocessione, purchè sia trascorso almeno un anno dal provvedimento. Trattasi, però, di mera eventualità subordinata ad un discrezionale giudizio di meritevolezza da parte dell’azienda. Alla medesima valutazione del datore di lavoro è subordinato anche l’eventuale accantonamento della proroga del termine per l’aumento dello stipendio, pena accessoria usualmente inflitta unitamente alla retrocessione, di modo che qualora l’azienda non reputi il dipendente meritevole della reintegrazione nella qualifica, la sanzione opera con effetti permanenti e definitivi. Proprio questa disdicevole situazione si era verificata nel caso di specie, poichè il P. si era visto reiteratamente respingere le istanze indirizzate alla società resistente, volte ad ottenere la restituzione allo stato precedente. Vi era, d’altro canto, da dubitare che, ove il datore di lavoro nell’esercizio del potere discrezionale riconosciutogli dal Regio Decreto negasse la reintegrazione nell’originaria qualifica, fosse possibile per la parte danneggiata adire il giudice onde far valere le proprie ragioni, essendo ogni relativa scelta rimessa alle insindacabili determinazioni della stessa parte datoriale.

Con il quarto motivo di ricorso è stata dedotta la omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione della sentenza impugnata in ordine alla dedotta violazione degli artt. 2 e 4 Cost., “problematica da considerarsi fatto controverso e decisivo per il giudizio, già oggetto di discussione tra le parti” – Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2103 c.c. e della L. n. 300 del 1970, art. 7, poichè soltanto per i ferrotranvieri in base alla suddetta normativa vi sarebbe la possibilità di una definitiva perdita della qualifica raggiunta, quale particolare sanzione disciplinare in base alla denunciata normativa di cui al Regio Decreto, in violazione dunque ed ancora pure dell’art. 3 Cost.. Non era stato esaminato, inoltre, dalla Corte d’Appello il profilo inerente alla violazione degli artt. 2 e 4 Cost., donde il difetto di motivazione.

Tanto premesso, appaiono in larga parte giustificate le doglianze prospettate da parte ricorrente, per quanto concerne i rilevati dubbi di legittimità costituzionale, che nei seguenti limiti risultano indubbiamente rilevanti nel caso di specie in ordine alla definizione della controversia di cui è processo.

Ed invero, pur indipendentemente da talune errate rubricazioni sub art. 360 c.p.c., da parte ricorrente, che ad ogni modo non precludono al giudicante la corretta qualificazione sotto il profilo giuridico delle questioni sostanziali prospettate, le stesse meritano un approfondito vaglio di merito da parte del compente Giudice delle leggi, con specifico riferimento alla contestata sanzione della retrocessione, la quale non solo appare inattuale, a distanza di circa 88 anni dal varo dell’ormai remoto R.D. n. 148 del 1931, ma altresì irragionevole per effetto delle novità politico-sociali e normative intervenute nelle more del lungo tempo trascorso, caratterizzate essenzialmente dal mutato regime costituzionale, laddove i principi fondanti (segnatamente quelli di cui ai primi tre articoli dalla Costituzione) risultano poco compatibili con una sanzione disciplinare punitiva e mortificante, di durata notevole quanto meno nel minimo, che trae origine evidentemente dal risalente inquadramento militare degli autoferrotranvieri, però da lustri scomparso.

Va, inoltre, rilevato che nella specie deve ritenersi pacificamente operante la giurisdizione ordinaria, visto che le pronunce di merito non risultano essere state impugnate sul punto, con conseguente formazione di giudicato al riguardo, peraltro in linea con la giurisprudenza questa Corte ormai consolidata in proposito (cfr. in part. Cass. sez. un. civ., sentenza n. 460 del 13/01/2005), secondo cui le controversie in materia di sanzioni disciplinari per gli addetti al servizio pubblico di trasporto in concessione, attribuite al giudice amministrativo dal R.D. 8 gennaio 1931, n. 148, art. 58, all. A), appartengono alla cognizione del giudice ordinario, stante l’implicita abrogazione per incompatibilità, sin dall’operatività della disposizione originaria del D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, art. 68, della persistente giurisdizione del giudice amministrativo prefigurata dal citato art. 58 (conformi Cass. sez. un. nn. 1728 del 28/01/2005, n. 6999 del 05/04/2005, n. 9939 del 12/05/2005, n. 613 del 15/01/2007, 7939 del 27/03/2008. Cfr. ancora Cass. sez. un. civ. n. 15917 del 22/04 – 13/06/2008, che nel confermare la giurisdizione ordinaria ribadiva quanto statuito dalle Sezioni Unite con ordinanza n. 464 del 13 gennaio 2005, nel senso che “le controversie in materia di sanzioni disciplinari per gli addetti al servizio pubblico di trasporto in concessione, attribuite al giudice amministrativo dal R.D. 8 gennaio 1931, n. 148, art. 58, all. A), appartengono alla cognizione del giudice ordinario, stante l’implicita abrogazione per incompatibilità, sin dall’operatività della disposizione originaria del D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, art. 68, della persistente giurisdizione del giudice amministrativo prefigurata dal citato art. 58″, in base a molteplici argomentazioni: in primo luogo, la progressiva privatizzazione del settore dei trasporti pubblici, realizzata con la trasformazione dell’azienda delle Ferrovie dello Stato prima in ente pubblico economico e successivamente in società per azioni, che ha marcatamente evidenziato gli elementi di specialità “residuale” del regime disciplinato dal R.D. n. 148 del 1931; inoltre un significativo momento del lungo processo di delegificazione di quest’ultima disciplina è contrassegnato dalla L. 12 luglio 1988, n. 270, il cui art. 1, comma 2, prevedeva che, a partire dal novantesimo giorno dalla sua entrata in vigore, “le disposizioni contenute nel regolamento allegato al R.D. 8 gennaio 1931, n. 148, ivi comprese le norme di legge modificative, sostitutive od aggiuntive a tale regolamento non potevano essere derogate dalla contrattazione nazionale di categoria ed i regolamenti d’azienda non potevano derogare ai contratti collettivi”. “La tendenza verso un graduale avvicinamento della disciplina del rapporto di lavoro in questione a quella del rapporto privato trovò il suo culmine nella L. 23 ottobre 1992, n. 421, la quale delegò il Governo alla “razionalizzazione e revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale”. Tale obiettivo fu realizzato – già con il primo dei decreti delegati (D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29) – attraverso la graduale soggezione dei rapporti alle norme di diritto civile ed alla contrattazione collettiva e individuale, nonchè alla giurisdizione del giudice ordinario “salvi, per ciò che attiene ai rapporti di pubblico impiego, i limiti collegati al perseguimento degli interessi generali cui l’organizzazione e l’azione delle pubbliche amministrazioni sono indirizzati”.

In particolare, quanto alla materia disciplinare, il generale principio dell’assoggettamento alle norme contenute nella L. n. 300 del 1970, art. 7, ed alla contrattazione collettiva fu realizzato attraverso l’abrogazione del D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, artt. 100– 123, da parte della L. 15 marzo 1997, n. 59. Già a questo stadio dell’evoluzione normativa può dirsi che la generale attrazione del pubblico impiego – salvo specifiche eccezioni – nell’area del diritto privato e il suo assoggettamento alla disciplina generale del lavoro privato, minavano fortemente le ragioni della permanenza della specialità del regime disciplinare configurato dall’antica L. del 1931. Per altro verso, l’avvenuta completa “devitalizzazione” dell’art. 58, ha trovato una ennesima conferma nel D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 112, – attuativo della delega disposta dalla L. 15 marzo 1997, n. 59, sul conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali – il cui art. 102, lett. b), ha soppresso le funzioni amministrative relative alla nomina dei consigli di disciplina.

In proposito, non può non convenirsi con quanto sostenuto dall’Adunanza plenaria del Cons. Stato, nel parere reso in data 19 aprile 2000 (richiamato nel giudizio davanti alla Corte costituzionale conclusosi con l’ordinanza n. 301 del 2004) nel senso che l’effetto abrogativo della norma da ultimo citata non può limitarsi alla caducazione delle sole norme procedimentali sulla nomina e composizione dei consigli di disciplina e che la soppressione dei consigli di disciplina ha confermato l’avvenuta abrogazione implicita delle norme dei R.D. che postulano l’operatività di tali organi, inclusa la devoluzione alla giurisdizione amministrativa dei ricorsi avverso le loro decisioni. Ma il processo di privatizzazione (rectius “contrattualizzazione”) dei rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni aveva già in precedenza registrato un decisivo intervento anche in materia di competenza a decidere delle relative controversie, con la conseguenza che anche questo versante ha contribuito a travolgere l’assetto complessivo del R.D. del 1931, sottraendo sin da allora ogni residuo spazio di operatività dell’art. 58. Ed infatti – come già si è rilevato più sopra – il trasferimento dal giudice amministrativo a quello ordinario del contenzioso dell'”ex pubblico impiego”, già anticipato dalla Legge Delega del 1992, è stato introdotto, come regime generale, già con il D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 68, comma 1, ai sensi del quale venivano “in ogni caso devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice dal lavoro, le controversie attinenti al rapporto di lavoro in corso, in tema di 1) sanzioni disciplinari”, mentre restavano devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie relative ai rapporti di impiego del personale di cui all’art. 2, commi 4 e 5.

Tale norma – destinata, peraltro ad operare “a partire dal terzo anno successivo alla data di entrata in vigore” del medesimo decreto e, comunque “non prima della fase transitoria di cui all’art. 72” (art. 68, comma 4) – è stata riprodotta, con qualche modifica (non rilevante ai fini che interessano in questa sede) dal D.Lgs. n. 546 del 1993, art. 33, poi dal D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, art. 29, quindi, dal D.Lgs. n. 387 del 1998, art. 18, e, finalmente dal D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 63 (T.U. del pubblico impiego).

Se ne può trarre, dunque, la conclusione che sin dall’operatività della disposizione ordinaria del 1993, deve ritenersi compiuta l’abrogazione implicita del R.D. n. 148 del 1931, art. 58, oggetto del presente giudizio, proprio perchè l’indubbia portata generale della disposizione del 1993 non avrebbe consentito più al giudice amministrativo, trascorso l’indicato periodo transitorio, di occuparsi di controversie di lavoro se non nei casi espressamente tenuti fuori dal processo di privatizzazione (art. 3 del T.U. cit.). A fronte della chiara ed univoca evoluzione della disciplina complessiva del rapporto di pubblico impiego, diventa, d’altro canto più difficile sostenere ancora la specialità del rapporto degli autoferrotranvieri. Tale specialità, vistosamente sbiadita dai numerosi interventi normativi appena rievocati, appare ormai in tutta la sua anomalia, proprio sul terreno della giurisdizione poichè la competenza del giudice amministrativo a decidere delle controversie relative a quei rapporti di lavoro trarrebbe la sua ragione proprio in quella specialità che, invece, è ormai venuta del tutto meno. E’ pure il caso di aggiungere che non sarebbe comprensibile sottovalutare il descritto processo evolutivo subito da una disciplina che – concepita in epoca precostituzionale – non può più essere interpretata senza tener conto del mutato sistema di riferimento nel quale l’art. 58, è venuto ad operare, nel corso di oltre settanta anni: con la conseguenza che non appare più possibile limitarsi a prendere atto di una mancata espressa abrogazione di tale norma….”). Di conseguenza, possono dirsi superate anche tutte le questioni connesse alla giurisdizione, già ritenute non fondate o inammissibili dalla Corte Costituzionale, anche con specifico riferimento alla sanzione della retrocessione, di cui è invece causa in questo processo, sulla quale peraltro non consta alcuna espressa pronuncia del Giudice delle Leggi circa la sua conformità, o meno, agli anzidetti principi della Carta fondamentale (cfr. in part. Corte Cost. n. 458 del 1992: secondo l’indirizzo giurisprudenziale vigente, alla stregua della L. 12 giugno 1990, n. 146, art. 6, per i ricorsi delle organizzazioni sindacali volti ad ottenere non solo la repressione del comportamento antisindacale ma anche la rimozione dei provvedimenti concretanti il detto comportamento – ad es. sanzione disciplinare della retrocessione – la giurisdizione spetta al T.A.R.. Pertanto, essendo il difetto di giurisdizione del pretore – che, adito nel caso di specie, aveva promosso l’incidente di costituzionalità- rilevabile “ictu oculi”, la sollevata questione doveva essere dichiarata manifestamente inammissibile.

V. parimenti Corte Cost. n. 60 del 1994: il principio, più volte ribadito, per cui nel giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale una questione già sottoposta, come nel caso esaminato, alla Corte, non può essere nuovamente sollevata dallo stesso giudice nel corso dello stesso giudizio non consente di pronunciarsi una seconda volta sulla questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 3 Cost. e art. 35 Cost., comma 1, del R.D. 8 gennaio 1931, n. 148, art. 37, comma 1, n. 5 e art. 44, nella parte in cui prevedono, per i lavoratori dipendenti di aziende di trasporto, la sanzione disciplinare della retrocessione. Nè rilevava in contrario il motivo che, riguardo al merito della questione – peraltro già dichiarata dalla Corte, nel precedente giudizio, manifestamente inammissibile con l’ord. n. 458 del 1992, perchè proposta da giudice ordinario in materia devoluta, dal R.D. n. 148, art. 58, all. A, alla giurisdizione amministrativa – era stato prospettato dal giudice rimettente, secondo cui l’ente convenuto, nella specie, era una privata società per azioni, giacchè le norme del citato All. A si applicano al personale dei pubblici servizi di trasporto anche se esercitati dall’industria privata.

Cfr. ancora l’ordinanza n. 301 del 2004, con la quale veniva dichiarata manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata in relazione agli artt. 3 e 24 Cost., del R.D. 8 gennaio 1931, n. 148, art. 58, all. A), nella parte in cui risultava all’epoca devoluta al giudice amministrativo, anzichè a quello ordinario, la cognizione delle controversie in materia di sanzioni disciplinari degli autoferrotranviari, essendo rimasti immutati i presupposti, di diritto e di fatto, in base ai quali era stata ritenuta non censurabile, sul piano costituzionale, la scelta operata dal legislatore, nell’ambito della discrezionalità spettategli in tema di ripartizione della giurisdizione ordinaria ed amministrativa, di non intervenire, modificandola, sulla speciale regolamentazione di cui è causa, non essendo manifestamente irragionevole o palesemente arbitraria).

D’altro canto, la controversia di cui è causa nemmeno appare risolvibile mediante una interpretazione costituzionalmente orientata della normativa in argomento, stante la sua inequivoca portata testuale, a fronte della quale l’organo giudicante è tenuto ad osservarla, salvo il potere di sollevare in via incidentale la questione d’illegittimità costituzionale, come appunto nel caso di specie. Per di più il legislatore, sebbene con eccentrica tecnica normativa, ha di recente mostrato di voler ripristinare, indistintamente, il vetusto Regio Decreto in questione, senza quindi nemmeno considerare l’evoluzione normativa stratificatasi in materia nel corso degli anni, secondo la corrispondente sua interpretazione giurisprudenziale, con conseguente residuale vigenza del medesimo originario testo del decreto, segnatamente in campo giuslavoristico. Infatti, il D.L. 24 aprile 2017, n. 50(Disposizioni urgenti in materia finanziaria, iniziative a favore degli enti territoriali, ulteriori interventi per le zone colpite da eventi sismici e misure per lo sviluppo), convertito con modificazioni dalla L. 21 giugno 2017, n. 96, aveva disposto (con l’art. 27, comma 12-quinquies – misure sul trasporto pubblico locale) che “Il R.D. 8 gennaio 1931, n. 148, la L. 24 maggio 1952, n. 628 e la L. 22 settembre 1960, n. 1054, sono abrogati, fatta salva la loro applicazione fino al primo rinnovo del contratto collettivo nazionale di lavoro di settore e, comunque, non oltre un anno dalla data di entrata in vigore del presente decreto”. Tuttavia, il D.L. n. 20 giugno 2017, n. 91 (Disposizioni urgenti per la crescita economica nel Mezzogiorno), convertito con modificazioni dalla L. 3 agosto 2017, n. 123 (in G.U. 12/08/2017, n. 188, in vigore dal 13-8-2017) all’art. 9-quinquies (Modifica del D.L. 24 aprile 2017, n. 50, art. 27) ha diversamente disposto, stabilendo che “1. del D.L. 24 aprile 2017, n. 50, art. 27, convertito, con modificazioni, dalla L. 21 giugno 2017, n. 96, il comma 12-quinquies è abrogato”.

Deve, pertanto, ritenersi tuttora in vigore ed applicabile nella fattispecie qui in esame il R.D. 8 gennaio 1931, n. 148, che nell’all. A all’art. 37 elenca “Le punizioni che si possono infliggere agli agenti”: 1 la censura, che è una riprensione per iscritto; 2 la multa, che è una ritenuta dello stipendio o della paga; 3 la sospensione dal servizio, che ha per effetto di privare dello stipendio o paga l’agente che ne è colpito, per una durata che può estendersi a 15 giorni od, in caso di recidiva entro due mesi, fino a 20 giorni; 4 la proroga del termine normale per l’aumento dello stipendio o della paga, per la durata di tre o sei mesi od un anno per le aziende presso le quali siano stabiliti aumenti periodici dello stesso stipendio o paga; 5 la retrocessione; 6 la destituzione.

L’art. 44, indica i casi in cui si incorre nella retrocessione. Stabilisce, inoltre, che per effetto della retrocessione gli agenti vengono trasferiti al grado immediatamente inferiore; però quando il provvedimento stesso viene applicato, a norma dell’art. 55, in sostituzione della destituzione può farsi luogo eccezionalmente alla retrocessione di due gradi; e quando trattisi di togliere o non ridare le funzioni nelle quali fu commessa, la mancanza da punirsi, oppure di rimettere gli agenti nelle funzioni esercitate prima che siano stati promossi al grado da cui debbano essere retrocessi, viene assegnato quel grado che risulta necessario secondo la tabella graduatoria.

Per gli agenti, per i quali la retrocessione non è possibile, si fa luogo alla sospensione estensibile fino a 30 giorni con o senza trasloco punitivo cogli stessi effetti della retrocessione per quanto riguarda il disposto dell’art. 50 e dell’alinea seguente.

Alla retrocessione va sempre aggiunta la proroga del termine normale per l’aumento dello stipendio o paga, per la durata di tre o di sei mesi. Dopo trascorso almeno un anno dalla retrocessione, gli agenti che ne siano ritenuti meritevoli possono ottenere la reintegrazione, per effetto della quale è restituita a ciascuno la qualifica che prima rivestiva, fermi restando gli effetti della pena accessoria della proroga, e salva la facoltà dell’azienda di farne cessare la ripercussione, ai sensi dell’art. 43, commi 3 e 4 (in tema di proroga del termine per l’aumento dello stipendio: 3. “Ove però l’agente ne sia riconosciuto meritevole, l’azienda ha facoltà di togliere l’effetto della ripercussione, accordando di tre o sei mesi o di un anno, a seconda della proroga inflitta, il periodo di tempo normale necessario per il raggiungimento di uno degli aumenti successivi”. 4. “L’azienda può esercitare questa facoltà in ogni tempo, ma non mai prima che l’agente punito abbia avuto ritardato, dopo l’applicazione della punizione, il primo aumento spettantegli, salvo il caso che l’agente sia stato, prima di subire il ritardo, promosso di grado”). Infine, l’art. 55, dispone che le autorità competenti a giudicare delle singole mancanze possono, a seconda delle circostanze e nel loro prudente criterio, applicare una punizione di grado inferiore a quella stabilita per le mancanze stesse. Ed al comma 2, così recita: “Quando, per effetto di questo articolo, in luogo della destituzione si infligge la retrocessione, la proroga del termine normale per l’aumento dello stipendio o della paga o la sospensione dal servizio, a tali provvedimenti può essere aggiunto, come punizione accessoria e con le norme dell’art. 37, il trasloco punitivo”. Da ultimo, il comma 3 stabilisce che le punizioni inflitte possono essere condonate, commutate o diminuite per deliberazione delle stesse autorità competenti a giudicare delle mancanze relative.

Come è agevole desumere dal testo normativo, spicca evidente il carattere punitivo e militaresco della sanzione in esame, che si ripercuote di regola a tempo indeterminato sulla qualifica professionale conseguita dal lavoratore, salvo diverso apprezzamento, meramente discrezionale da parte datoriale circa la meritevolezza di un ripristino, meritevolezza che per la sua vaga formulazione implica una pura facoltà di concessione da parte aziendale, perciò anche difficilmente verificabile nella eventuale sede giudiziale in caso di tutela in proposito invocata dal dipendente, ad ogni modo con effetti duraturi sotto il profilo retributivo.

In tale contesto appare irragionevole la retrocessione, per come regolata dalla legge, che assume i connotati di una vera e propria pena, piuttosto che di una mera sanzione disciplinare, la quale non trova analogo riscontro afflittivo, umiliante e degradante in diversi trattamenti disciplinari riservati ad altri dipendenti civili, quali sono pure gli autoferrotranvieri al pari di categorie similari (si pensi soprattutto ai ferrovieri, personale viaggiante e di terra del gruppo Ferrovie dello Stato).

Nè può trascurarsi il retrivo aspetto etico-sociale della retrocessione in argomento, la quale sembra porsi in aperto contrasto con i valori solennemente affermati dall’art. 2 della Carta costituzionale (garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità). Parimenti, dicasi per concerne l’art. 35 Cost., segnatamente laddove al comma 2 è affermato che la Repubblica cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori, formazione ed elevazione che appaiono in stridente contrasto con il carattere afflittivo e tendenzialmente a tempo indeterminato della retrocessione in commento. Quest’ultima, di conseguenza, attesa la rilevata indeterminatezza cronologica e stante l’anzidetta vaga possibilità di ripristino, finisce anche per poter incidere negativamente sul diritto alla retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa, nei sensi di cui all’art. 36 Cost..

La stessa Corte Costituzionale, del resto, pure con la recente sua pronuncia n. 194/18, depositata l’otto novembre 2018 e pubblicata in Gazzetta Ufficiale il successivo giorno 14, nella sua ricca ed articolata motivazione ha richiamato, confermandola, la sua precedente giurisprudenza in materia, laddove ha rilevato anche il vulnus recato dalla previsione ivi impugnata all’art. 4 Cost., comma 1 e art. 35 Cost., comma 1: “…Alla luce di quanto si è sopra argomentato circa il fatto che il D.Lgs. n. 23 del 2015, art. 3, comma 1, nella parte appena citata, prevede una tutela economica che non costituisce nè un adeguato ristoro del danno prodotto, nei vari casi, dal licenziamento, nè un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare ingiustamente, risulta evidente che una siffatta tutela dell’interesse del lavoratore alla stabilità dell’occupazione non può ritenersi rispettosa dell’art. 4 Cost., comma 1 e art. 35 Cost., comma 1, che tale interesse, appunto, proteggono. L’irragionevolezza del rimedio previsto dal D.Lgs. n. 23 del 2015, art. 3, comma 1, assume, in realtà, un rilievo ancor maggiore alla luce del particolare valore che la Costituzione attribuisce al lavoro (art. 1 Cost., comma 1, artt. 4 e 35 Cost.), per realizzare un pieno sviluppo della personalità umana (sentenza n. 163 del 1983, punto 6. del Considerato in diritto).

Il “diritto al lavoro” (art. 4 Cost., comma 1) e la “tutela” del lavoro “in tutte le sue forme ed applicazioni” (art. 35 Cost., comma 1) comportano la garanzia dell’esercizio nei luoghi di lavoro di altri diritti fondamentali costituzionalmente garantiti. Il nesso che lega queste sfere di diritti della persona, quando si intenda procedere a licenziamenti, emerge nella già richiamata sentenza n. 45 del 1965, che fa riferimento ai “principi fondamentali di libertà sindacale, politica e religiosa” (punto 4. del Considerato in diritto), oltre che nella sentenza n. 63 del 1966, là dove si afferma che “il timore del recesso, cioè del licenziamento, spinge o può spingere il lavoratore sulla via della rinuncia a una parte dei propri diritti” (punto 3. del Considerato in diritto)….” (cfr. peraltro, da ultimo, quanto, nelle more della pubblicazione di questo provvedimento, ricordato ancora da questa Corte – VI civ. L, con l’ordinanza n. 10023 in data 8 gennaio – 10 aprile 2019: “La privazione totale delle mansioni, che costituisce violazione di diritti inerenti alla persona del lavoratore oggetto di tutela costituzionale (cfr. Cassazione civile sez. un., 22/02/2010, n. 4063 resa in fattispecie di “sostanziale privazione di mansioni” in un rapporto di pubblico impiego privatizzato), non può essere invece una alternativa al licenziamento….”).

P.Q.M.

TANTO PREMESSO. La Corte, visti l’art. 134 Cost. e della L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 23: – dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 37, limitatamente alla “punizione” della “retrocessione”, artt. 44 e 55 (comma 2, limitatamente all’ipotesi della retrocessione) dell’Allegato A (Regolamento contenente disposizioni sullo stato giuridico del personale delle ferrovie, tranvie e linee di navigazione interna in regime di concessione) al R.D. 8 gennaio 1931, n. 148, in relazione agli artt. 1, 2, 3, 4, 35 e 36 Cost., nei sensi meglio indicati nella motivazione che precede;

– dispone la sospensione di questo giudizio;

– ordina che, a cura della Cancelleria, la presente ordinanza sia notificata alle Parti di questo giudizio di cassazione, al Pubblico Ministero presso questa Corte ed al Presidente del Consiglio dei Ministri;

– ordina, altresì, che l’ordinanza venga comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento;

– dispone, infine, l’immediata trasmissione degli atti, comprensivi della documentazione attestante il perfezionamento delle prescritte notificazioni e comunicazioni, alla Corte Costituzionale.

Manda alla Cancelleria per gli anzidetti adempimenti.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della IV Sezione Civile – Lavoro di questa Corte, il 19 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 20 maggio 2019