Il termine di 120 giorni per la conclusione del procedimento del procedimento disciplinare

Con l’ordinanza n. 33382/2023 la Corte di Cassazione in tema di procedimento disciplinare nell’ambito del pubblico impiego, ha ritenuto che il termine di 120 giorni tassativamente prescritto per concludere a pena di decadenza il procedimento disciplinare decorra dalla data di prima acquisizione della notizia dell’infrazione che coincide con quella in cui la notizia è pervenuta all’ufficio per i procedimenti disciplinari o, se anteriore, con la data in cui la notizia medesima è pervenuta al responsabile della struttura in cui il dipendente lavora”.

Ove non sia possibile individuare un dirigente o un responsabile dell’Ufficio interessato competente, il termine per concludere il procedimento disciplinare non può che decorrere, ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001art. 55 bis, comma 4, secondo e terzo periodo, dalla data in cui la notizia dell’illecito è pervenuta all’ufficio per i procedimenti disciplinari.

La pronuncia prende in esame un caso verificatosi in data anteriore al DLGS 75/2017 (Riforma Madia) che ha apportato importanti innovazioni all’impianto disciplinare del pubblico impiego, modificando sensibilmente l’articolo 55 bis del DLGS 165/2001 che scandisce i termini del procedimento disciplinare.

A seguito della riforma Madia, solo i termini di avvio e di conclusione del procedimento disciplinare sono perentori, mentre la violazione di altri termini nell’ambito del procedimento, non comportano la decadenza dall’azione disciplinare, a meno che non ne risulti irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del dipendente.

La nuova normativa che va ad innovare l’articolo 55 bis del DLGS 165/2001 prevede che, nel caso in cui il fatto addebitato abbia una conseguenza disciplinare superiore al rimprovero verbale, il Responsabile della struttura entro dieci giorni, segnala il fatto all’Ufficio Procedimenti Disciplinari (UDP) e quindi quest’ultimo con immediatezza e comunque non oltre trenta giorni dal ricevimento della segnalazione , provvede a trasmettere la contestazione scritta dell’addebito al dipendente, convocandolo con un preavviso di dieci giorni per l’audizione disciplinare.

Quindi, l’UDP conclude il procedimento con l’atto di archiviazione o con l’irrogazione della sanzione, entro 120 giorni dalla contestazione dell’addebito.

A questo punto, dopo la riforma attuata con il decreto legislativo Madia DLGS 75/2017, gli unici due termini tassativamente previsti a pena di decadenza sono il termine di avvio del procedimento ( invio all’Ufficio Disciplinare 10 giorni) ed il termine di conclusione del procedimento 120 giorni dall’avvio dee contestazione.

Quindi, a seguito della riforma Madia,  il termine di 120 giorni per la conclusione del procedimento disciplinare non è più ancorato alla data della prima acquisizione della notizia dell’infrazione, come precedentemente stabilito al vecchio testo dell’articolo 55 bis DLGS 165/2001, ma è riferito ad una data più chiara e facilmente individuabile data dalla “contestazione dell’addebito fatta dall’UPD” al lavoratore.

Fabio Petracci

La verifica della retribuzione sufficiente ex art. 36 Costituzione

La vicenda oggetto della pronuncia n. 27711/2023 della Corte di Cassazione riguarda la conformità ai parametri dell’art. 36 Cost. del trattamento retributivo applicato, dalla sezione Servizi Fiduciari del CCNL per i dipendenti delle imprese di vigilanza privata e servizi fiduciari, pacificamente applicato ai propri dipendenti dalla società datrice di lavoro e che atteneva al suo settore di operatività nonché era stato stipulato da organizzazioni sindacali dei lavoratori maggiormente rappresentative a livello nazionale.

In particolare, il dipendente nel corso del giudizio ha dedotto di svolgere mansioni di operatore fiduciario e di aver lavorato nel periodo indicato nell’ambito del medesimo appalto con differenti e successive imprese appaltatrici per svolgere le medesime mansioni venendo pagato sempre meno per le stesse mansioni svolte, producendo le relative buste paga ed i contratti di assunzione e collettivi.

La Corte di Cassazione ricorda come l’art. 36 Cost., comma 1, garantisce due diritti distinti, che, tuttavia si integrano a vicenda: quello ad una retribuzione “proporzionata” che garantisce ai lavoratori “una ragionevole commisurazione della propria ricompensa alla quantità e alla qualità dell’attività prestata“; mentre quello ad una retribuzione “sufficiente” dà diritto ad “una retribuzione non inferiore agli standards minimi necessari per vivere una vita a misura d’uomo“, ovvero ad “una ricompensa complessiva che non ricada sotto il livello minimo, ritenuto, in un determinato momento storico e nelle concrete condizioni di vita esistenti, necessario ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa“.

In altre parole, l’uno stabilisce “un criterio positivo di carattere generale“, l’altro “un limite negativo, invalicabile in assoluto“.

La Corte quindi ricorda che si deve applicare comunque l’orientamento che pur individuando in prima battuta i parametri della giusta retribuzione nel CCNL non esclude di sottoporli a controllo e di doverli disapplicare allorché l’esito del giudizio di conformità all’art. 36 Cost. si riveli negativo, secondo il motivato giudizio discrezionale del giudice.

Ciò brevemente premesso, vengono affermati in particolare i seguenti principi di diritto:

  1. “Nell’attuazione dell’art. 36 della Costituzione, il giudice, in via preliminare, deve fare riferimento, quali parametri di commisurazione, alla retribuzione stabilita dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria, dalla quale può motivatamente discostarsi, anche ex officio, quando la stessa entri in contrasto con i criteri normativi di proporzionalità e sufficienza della retribuzione dettati dall’art. 36 Cost., anche se il rinvio alla contrattazione collettiva applicabile al caso concreto sia contemplato in una legge, di cui il giudice è tenuto a dare una interpretazione costituzionalmente orientata.
  2. Ai fini della determinazione del giusto salario minimo costituzionale il giudice può servirsi a fini parametrici del trattamento retributivo stabilito in altri contratti collettivi di settori affini o per mansioni analoghe.
  3. Nella opera di verifica della retribuzione minima adeguata ex art. 36 Cost., il giudice, nell’ambito dei propri poteri ex art. 2099 c.c., comma 2, può fare altresì riferimento, all’occorrenza, ad indicatori economici e statistici, anche secondo quanto suggerito dalla Direttiva UE 2022/2041 del 19 ottobre 2022 relativa a salari minimi adeguati nell’Unione europea”.

Il termine di prescrizione del diritto del lavoratore all’indennità sostitutiva di ferie non godute

Recentemente, l’ordinanza n. 21297/2023 della Suprema Corte di Cassazione ha ribadito che “Il termine di prescrizione del diritto del lavoratore all’indennità sostitutiva di ferie non godute decorre secondo le regole generali dal momento in cui il diritto medesimo può essere fatto valere, ossia dalla cessazione del rapporto di lavoro”.

Invero, il termine di prescrizione decennale si applica solo all’ordinaria azione risarcitoria che, nel corso del rapporto di lavoro, il dipendente può promuovere contro il proprio datore di lavoro per il fatto che non gli consenta di fruire delle (o di recuperare le) ferie, atteso il principio della loro non monetizzabilità nel corso del rapporto di lavoro (art. 10 d.lgs. n. 66/2003).

In tal caso effettivamente il termine decorre dal verificarsi del danno e, quindi, in costanza del rapporto di lavoro.

Nel caso di specie l’oggetto della domanda risultava del tutto diverso: esso era rappresentato dall’indennità sostitutiva delle ferie non godute, che può essere richiesta dal lavoratore solo alla cessazione del rapporto di lavoro, proprio in omaggio al suindicato principio di non monetizzabilità delle ferie durante il rapporto di lavoro.

In relazione a tale diritto – di natura diversa dal danno risarcibile durante il rapporto di lavoro – il termine di prescrizione decorre secondo le regole generali dal momento in cui il diritto medesimo può essere fatto valere, ossia dalla cessazione del rapporto di lavoro.

Responsabilità del pubblico dipendente – Azione penale e presunzione di innocenza.

Da quando decorre la prescrizione nell’azione davanti alla Corte dei Conti per il danno all’immagine arrecato dal dipendente alla pubblica amministrazione?

La Sezione Centrale della Corte dei Conti con sentenza del 6 maggio 2008 che vedeva il caso di un dipendente pubblico assolto per prescrizione nel giudizio penale di secondo grado, ha ritenuto come ben potesse la Pubblica Amministrazione agire contro il funzionario per il danno all’immagine arrecato alla Pubblica Amministrazione, in quanto il danno si era concretizzato con la pronuncia della sentenza e con la sua diffusione.

Quindi di fronte ad un danno all’immagine, la prescrizione decorre dal momento della scoperta e della divulgazione a mezzo stampa del fatto lesivo dell’immagine dell’amministrazione che nel caso di specie coincideva con l’arresto del funzionario infedele.

Sino a che punto il giudizio penale interferisce nell’ambito del pubblico impiego nel giudizio disciplinare ed in quello di danno innanzi alla Corte dei Conti.

Il giudizio della Corte dei Conti e di altro giudice non penale può basarsi, ma non esclusivamente sulle risultanze di un procedimento penale conclusosi senza condanna.

L’imputato condannato anche dinnanzi alla Corte dei Conti a risarcire il danno all’immagine alla propria amministrazione ricorre poi alla Corte di Strasburgo.

Il ricorrente riteneva violato l’articolo 6 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea che ritiene come ogni imputato debba essere considerato innocente sino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata. ( presunzione di innocenza).

Vi corrisponde nell’ordinamento nazionale l’articolo 48 della Carta Costituzionale che stabilisce la presunzione di innocenza sino al definitivo accertamento della colpevolezza.

Questi principi fondamentali si saldano con le norme penali che stabiliscono l’efficacia della sentenza penale di condanna nel giudizio civile o amministrativo di danno.

L’articolo 651 del codice di procedura penale stabilisce la generale efficacia nell’ordinamento della sentenza penale irrevocabile di condanna, affermando testualmente che “. La sentenza penale irrevocabile di condanna pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato, quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso nei confronti del condannato e del responsabile civile che sia stato citato ovvero sia intervenuto nel processo penale.

  1. La stessa efficacia ha la sentenza irrevocabile di condanna pronunciata a norma dell’articolo 442, salvo che vi si opponga la parte civile che non abbia accettato il rito abbreviato.

Ulteriore norma di raccordo è data dal successivo articolo 652 del codice di procedura penale che nello specifico affronta il tema della valenza della sentenza irrevocabile di condanna tanto nel giudizio civile di danno che in quello amministrativo, e che testualmente stabilisce come

  1. La sentenza penale irrevocabile di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato, quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima  nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso dal danneggiato o nell’interesse dello stesso, sempre che il danneggiato si sia costituito o sia stato posto in condizione di costituirsi parte civile, salvo che il danneggiato dal reato abbia esercitato l’azione in sede civile a norma dell’articolo 75, comma 2 
  2. La stessa efficacia ha la sentenza irrevocabile di assoluzione pronunciata a norma dell’articolo 442, se la parte civile ha accettato il rito abbreviato.

Riguardo invece alla valenza del giudicato penale nel giudizio disciplinare innanzi alle pubbliche amministrazioni, interviene il successivo articolo 653 del codice di procedura penale che così stabilisce:

  1. La sentenza penale irrevocabile di assoluzione ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o non costituisce illecito penale ovvero che l’imputato non lo ha commesso 2.

1-bis. La sentenza penale irrevocabile di condanna ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso.”

In sintesi è solo la condanna irrevocabile di condanna o di assoluzione ad assumere efficacia in altro procedimento civile, amministrativo, disciplinare ed esclusivamente all’accertamento del fatto, o la sua commissione da parte dell’imputato o alla sussistenza di scriminanti.

In ogni caso, la pendenza di un giudizio penale in assenza di sentenza avente effetto di giudicato, può produrre effetti sul rapporto di lavoro previsti dalla legge.

Il tema è affrontato dalla legge 97/2001 che all’articolo 3 prevede la misura cautelare del trasferimento a seguito di rinvio a giudizio.

Il successivo articolo 4 prevede l’istituto della sospensione necessaria anche in caso di condanna non definitiva per la gran parte di condanna per reati contro la pubblica amministrazione come quelli di cui agli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319 ter, 319 quater e 320 del codice penale.

A sua volta in tema di procedimenti disciplinari nell’ambito dell’impiego pubblico, la normativa si qui trattata si salda con le disposizioni di cui al testo unico del pubblico impiego nella parte disciplinare dall’articolo 55 in poi del DLGS 165/2001.

In tema di connessione tra procedimento penale e disciplinare, la materia è trattata all’articolo 55 ter che limita la pregiudiziale penale consentendo la parallela indipendenza del giudizio disciplinare, salvo l’interferenza di quest’ultimo in merito all’accertamento di fatto, e la riapertura del giudizio disciplinare una volta intervenuto il giudicato.

Nel caso di specie, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo con la sentenza del 19 novembre 2021 ha ritenuto come un’autonoma e motivata decisione in sede civile ed amministrativa che non si basi sull’automatico recepimento del giudizio penale può intervenire in qualunque momento del giudizio civile e amministrativo, senza peraltro violare la presunzione di innocenza di cui all’articolo 6 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea

Sulla stessa lunghezza d’onda, si è posta pure la Corte Costituzionale con la sentenza n.182/2021 che ha ritenuto come effettivamente la presunzione di innocenza possa tradursi in una limitazione dei poteri cognitivi e dichiarativi dell’autorità investita del nuovo procedimento non avente natura penale.

Il limite però va ristretto al divieto di emettere per quest’ultima autorità provvedimenti che presuppongano un giudizio di colpevolezza o che siano fondati su un nuovo apprezzamento della responsabilità penale della persona in ordine al reato precedentemente contestato.

Fabio Petracci

Negoziazione assistita con l’assistenza dei rispettivi avvocati nelle controversie di lavoro

Con il DLGS 10 ottobre 2022 n.149 all’articolo 9 è estesa la negoziazione assistita anche alle controversie di lavoro.

Trova così applicazione anche nel rito del lavoro l’istituto della negoziazione assistita.

In tal modo, le parti – lavoratore e datore di lavoro – assistite dai rispettivi avvocati potranno dar luogo alla cosiddetta negoziazione assistita.

Potrà così essere escluso l’intervento del giudice del lavoro e degli organismi di conciliazione.

L’accordo che ne scaturisce è equiparato ad una conciliazione nella cosiddetta “sede protetta” e come tale, rappresenta un titolo esecutivo.

La norma (DL 132/2014 siccome modificato dal DLGS n.149/2022) è la seguente: “1. Per le controversie di cui all’articolo 409 del codice di procedura civile, fermo restando quanto disposto dall’articolo 412-ter del medesimo codice, le parti possono ricorrere alla negoziazione assistita senza che ciò costituisca condizione di procedibilità della domanda giudiziale. Ciascuna parte è assistita da almeno un avvocato e può essere anche assistita da un consulente del lavoro. All’accordo raggiunto all’esito della procedura di negoziazione assistita si applica l’articolo 2113, quarto comma, del codice civile.

L’accordo è trasmesso a cura di una delle due parti, entro dieci giorni, ad uno degli organismi di cui all’articolo 76 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276”.

Per poter procedere alla negoziazione è necessaria la stipula di un accordo – convenzione di negoziazione assistita – mediante il quale le parti si impegnano a cooperare in buona fede e lealtà per risolvere in via amichevole la controversia.

Se la convenzione cui si è fatto cenno lo prevede, prima di pervenire all’accordo può essere espletata un’attività istruttoria al fine non di decidere la controversia, ma di valutare attentamente i contenuti dell’accordo.

Quindi, ciascun avvocato può invitare un terzo a rendere dichiarazioni su fatti specificamente individuati e rilevanti in relazione all’oggetto della controversia, in presenza degli avvocati che assistono le altre parti.

Inoltre, di fronte ad una specifica previsione della convenzione, ciascun avvocato può invitare la controparte a rendere per iscritto dichiarazioni su fatti, specificamente individuati e rilevanti in relazione all’oggetto della controversia, ad essa sfavorevoli e favorevoli alla parte nel cui interesse sono richieste.

Fabio Petracci