La verifica della retribuzione sufficiente ex art. 36 Costituzione

La vicenda oggetto della pronuncia n. 27711/2023 della Corte di Cassazione riguarda la conformità ai parametri dell’art. 36 Cost. del trattamento retributivo applicato, dalla sezione Servizi Fiduciari del CCNL per i dipendenti delle imprese di vigilanza privata e servizi fiduciari, pacificamente applicato ai propri dipendenti dalla società datrice di lavoro e che atteneva al suo settore di operatività nonché era stato stipulato da organizzazioni sindacali dei lavoratori maggiormente rappresentative a livello nazionale.

In particolare, il dipendente nel corso del giudizio ha dedotto di svolgere mansioni di operatore fiduciario e di aver lavorato nel periodo indicato nell’ambito del medesimo appalto con differenti e successive imprese appaltatrici per svolgere le medesime mansioni venendo pagato sempre meno per le stesse mansioni svolte, producendo le relative buste paga ed i contratti di assunzione e collettivi.

La Corte di Cassazione ricorda come l’art. 36 Cost., comma 1, garantisce due diritti distinti, che, tuttavia si integrano a vicenda: quello ad una retribuzione “proporzionata” che garantisce ai lavoratori “una ragionevole commisurazione della propria ricompensa alla quantità e alla qualità dell’attività prestata“; mentre quello ad una retribuzione “sufficiente” dà diritto ad “una retribuzione non inferiore agli standards minimi necessari per vivere una vita a misura d’uomo“, ovvero ad “una ricompensa complessiva che non ricada sotto il livello minimo, ritenuto, in un determinato momento storico e nelle concrete condizioni di vita esistenti, necessario ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa“.

In altre parole, l’uno stabilisce “un criterio positivo di carattere generale“, l’altro “un limite negativo, invalicabile in assoluto“.

La Corte quindi ricorda che si deve applicare comunque l’orientamento che pur individuando in prima battuta i parametri della giusta retribuzione nel CCNL non esclude di sottoporli a controllo e di doverli disapplicare allorché l’esito del giudizio di conformità all’art. 36 Cost. si riveli negativo, secondo il motivato giudizio discrezionale del giudice.

Ciò brevemente premesso, vengono affermati in particolare i seguenti principi di diritto:

  1. “Nell’attuazione dell’art. 36 della Costituzione, il giudice, in via preliminare, deve fare riferimento, quali parametri di commisurazione, alla retribuzione stabilita dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria, dalla quale può motivatamente discostarsi, anche ex officio, quando la stessa entri in contrasto con i criteri normativi di proporzionalità e sufficienza della retribuzione dettati dall’art. 36 Cost., anche se il rinvio alla contrattazione collettiva applicabile al caso concreto sia contemplato in una legge, di cui il giudice è tenuto a dare una interpretazione costituzionalmente orientata.
  2. Ai fini della determinazione del giusto salario minimo costituzionale il giudice può servirsi a fini parametrici del trattamento retributivo stabilito in altri contratti collettivi di settori affini o per mansioni analoghe.
  3. Nella opera di verifica della retribuzione minima adeguata ex art. 36 Cost., il giudice, nell’ambito dei propri poteri ex art. 2099 c.c., comma 2, può fare altresì riferimento, all’occorrenza, ad indicatori economici e statistici, anche secondo quanto suggerito dalla Direttiva UE 2022/2041 del 19 ottobre 2022 relativa a salari minimi adeguati nell’Unione europea”.

Procedure di stabilizzazione precluse ai lavoratori somministrati

Pubblico Impiego – Stabilizzazione del Personale Precario – Lavoratori Somministrati – Inapplicabilità delle procedure di stabilizzazione.

DLGS 75 /2017 articolo 20 commi 2 e 9 – esclusione dei lavoratori titolari di contratti di somministrazione di lavoro presso le pubbliche amministrazioni dalla possibilità di partecipare alle procedure concorsuali riservate in misura non superiore al 50% dei posti disponibili al personale non dirigenziale che risulti titolare di un contratto di lavoro flessibile.

Corte Costituzionale sentenza 12 maggio 2023 n.95 – insussistenza della questione di legittimità costituzionale.

La decisione in sintesi

La consulta ha ritenuto come le procedure di stabilizzazione costituiscano uno strumento di reclutamento derogatorio rispetto a quello ordinario del pubblico concorso, in quanto introducono un percorso riservato ad una platea ristretta di soggetti in possesso di specifici requisiti che abbiano maturato un periodo di esperienza lavorativa in ambito pubblico.

Nel caso di specie, ha rammentato la Consulta, il rapporto di lavoro vero è quello che intercorre tra agenzia e dipendente e, rispetto ad esso, non rilevano le vicende del contratto concluso tra agenzia ed utilizzatore.

Ha precisato quindi la Consulta come il contratto tra l’agenzia ed il dipendente non trova origine in una procedura selettiva, in quanto la Pubblica Amministrazione risulta essere soltanto un utilizzatore.

Ha quindi concluso precisando come i lavoratori messi a disposizione della Pubblica Amministrazione per tutta la durata della missione, pur svolgendo la loro attività nell’interesse e sotto la direzione dell’ente, non vengono ovviamente reclutati mediante l’espletamento di procedure concorsuali.

Quindi secondo la Corte, non sussiste alcuna ingiustificata disparità di trattamento.

Può una legge regionale istituire nell’ambito dell’amministrazione regionale un’area professionale?

La Corte Costituzionale con la sentenza n.253 del 20 dicembre 2022 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 29 bis della legge regionale del Molise n.7 del 1977 che nell’ambito dell’amministrazione regionale aveva costituito un’area quadri con relativa voce di spesa.

L’illegittimità costituzionale è stata dichiarata in relazione agli articolo 81 comma 3 e 117 comma 2 lettera I) della Costituzione.

Nel dettaglio, il comma 3 all’articolo 81 della Costituzione stabilisce che “ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte.”

Trattasi della norma costituzionale che impone per ogni disposizione di legge il principio di analitica copertura introdotto con la legge costituzionale n.1 del 2012: assistiamo così alla costituzionalizzazione del principio di pareggio di bilancio.

Il giudizio di incostituzionalità è basato inoltre sulla violazione dell’articolo 117 comma 2 lettera l, che stabilisce come competenza esclusiva dello Stato l’ordinamento civile comprendendovi in tal modo le materie disciplinate dal codice civile e, nel caso di specie, quelle concernenti il rapporto di lavoro, ora applicabili alle pubbliche amministrazioni.

Sul punto, la Consulta articola ulteriormente la propria motivazione rilevando come la lesione della competenza legislativa statale in materia di ordinamento civile comporterebbe, altresì, quella concorrente dello Stato in materia di coordinamento della finanza pubblica, determinando il superamento del limite di spesa per il costo del personale regionale previsto dalla disciplina statale in modo uniforme sul territorio nazionale.

Coglie perfettamente nel segno la Consulta laddove ritiene l’incostituzionalità della norma regionale alla luce dell’articolo 81 della Costituzione, in quanto mancante della necessaria copertura finanziaria.

Ulteriore spunto che merita rilievo è dato dalla ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni in tema di lavoro pubblico nell’ambito delle organizzazioni regionali.

Quivi l’articolo 117 della Costituzione non fornisce indicazioni certe ma, pare ripartire le competenze tra ordinamento civile quale parte contrattuale del diritto del lavoro riservata alla normativa nazionale e ordinamento ed organizzazione delle Regioni e degli Enti Locali di competenza di questi ultimi.

Di conseguenza, le Regioni potrebbero ritenersi competenti in tema di lavoro, solo laddove le regole del settore sottintendano all’organizzazione amministrativa.

Non è però sempre agevole distinguere la norma che tocca l’organizzazione da quella strettamente contrattuale per capire dove finisce la competenza degli ordinamenti regionali.

In alcune occasioni, la Consulta (Corte Costituzionale 13 gennaio 2004 n.2) affrontava la questione relativa allo statuto della Regione Calabria che in alcuni punti disciplinava il regime della propria dirigenza, ritenendo di competenza della Regione la parte di natura strettamente organizzativa.

In altra occasione, la Corte, (sentenza n.16 del 16 giugno 2006 n.233) riteneva per le stesse ragioni, valida la normativa regionale della Calabria e dell’Abruzzo in tema di spoils system.

È pur vero che la legge 421/1992 qualifica come principi fondamentali ex articolo 117 della Costituzione l’intera normativa che poi verrà compresa nel d.lgs. n. 165/2001 e quindi anche l’obbligo di affidare nei limiti della medesima legge i rapporti di lavoro alla contrattazione collettiva.

Va comunque notato come il termine “principi fondamentali” rifletta i limiti alle competenze regionali esistenti prima dell’emanazione della legge Costituzionale 3/2001 e quindi come il riferimento all’articolo 117 vada inteso alla norma precedete la riforma.

Ci si chiede dunque se possa rientrare nella competenza regionale l’individuazione di un’area quadri nel sistema organizzativo regionale, senza peraltro intaccare le vigenti aree contrattuali e limitando tale individuazione all’area apicale individuata contrattualmente.

La complessità della ripartizione delle competenze nel settore è peraltro riconosciuta dalla medesima Corte Costituzionale laddove in nome del principio di leale collaborazione tra competenze statali e regionali, con la sentenza n.251/2016 dichiarava l’incostituzionalità di alcuni articoli della legge delega sulla riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche non essendo state precedute da apposita intesa in sede di Conferenza Unificata Stato Regioni.

La materia relativa all’inquadramento del personale nelle pubbliche amministrazioni va considerata anche sulla base del decreto legge 9.6.2021 n.80 che stabilisce alcune importanti modifiche all’articolo 52 del d.lgs. n.165/2001.

È quivi stabilito come i dipendenti pubblici, ad esclusione dei dirigenti e del personale della scuola, debba essere inquadrato in almeno 3 distinte aree funzionali con l’aggiunta, come vedremo, di una quarta area per le elevate professionalità.

È così introdotta dalla legge l’area delle elevate professionalità nel cui ambito sicuramente le amministrazioni locali nel rispetto delle norme di legge e di bilancio potranno collocare il personale ritenuto ascrivibile all’area dei quadri.

Fabio Petracci

Legittimo il divieto di cumulo tra pensione e redditi da lavoro dipendente previsto da quota 100

La Corte Costituzionale, con sentenza n. 234/2022, ha ritenuto costituzionalmente legittimo il divieto di cumulo tra pensione c.d. quota 100 e i redditi da lavoro dipendente previsto dal d.l. n. 4/2019.

In particolare, la questione di legittimità costituzionale era sollevata in ragione del fatto che la norma prevede la non cumulabilità della pensione anticipata maturata per aver raggiunto la cosiddetta “quota 100” con i redditi da lavoro dipendente, qualunque sia il relativo ammontare, mentre consente il cumulo con i redditi da lavoro autonomo occasionale entro il limite di 5.000 euro lordi annui.

La Corte Costituzionale sottolinea come il divieto di cumulo risponde a più ampie esigenze di razionalità del sistema pensionistico, all’interno del quale il regime derogatorio introdotto dal legislatore del 2019 con una misura sperimentale e temporalmente limitata, risulta particolarmente vantaggioso per chi scelga di farvi ricorso.

Ancora, la prevista sospensione del trattamento di quiescenza in caso di violazione del divieto di cumulo è, per l’appunto, rivolta a garantire un’effettiva uscita del pensionato che ha raggiunto la cosiddetta “quota 100” dal mercato del lavoro, anche al fine di creare nuova occupazione e favorire il ricambio generazionale, all’interno di un sistema previdenziale sostenibile.

Peraltro, il lavoro autonomo occasionale costituisce, infatti, un’area residuale del lavoro autonomo, riconducibile alla definizione contenuta nell’art. 2222 del codice civile. L’occasionalità caratterizza una prestazione non abituale, sottratta a qualunque vincolo di subordinazione.

In ogni caso, osserva la Corte, il lavoro autonomo occasionale, per la sua natura residuale, non incide in modo diretto e significativo sulle dinamiche occupazionali, né su quelle previdenziali e si differenzia per questo dal lavoro subordinato, sia pure nella modalità flessibile del lavoro intermittente.

Nuovo intervento della Corte Costituzionale in tema di licenziamenti.

L’articolo 18 della legge 300/1970 (Statuto dei Lavoratori) dopo la riforma Fornero del 2012 stabilisce, in caso di licenziamento illegittimo, per le aziende con un numero di lavoratori che ne comportano l’integrale applicazione, delle forme di tutela differenziate che vanno dalla effettiva reintegra a misure risarcitorie via via minori.

Non sempre l’applicazione delle stesse in relazione alle diverse ipotesi e tipologie del recesso appare semplice.

Quanto mai possibile ed attuale è invece il conflitto tra una normativa così frastagliata ed i principi della nostra Carta Costituzionale.

Esamineremo un comma del menzionato articolo 18 emblematico di un tanto dove si legge:

“Il giudice applica la medesima disciplina di cui al quarto comma  ( reintegra e risarcimento ) del presente articolo nell’ipotesi in cui accerti il difetto di giustificazione del licenziamento intimato, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68, per motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore, ovvero che il licenziamento è stato intimato in violazione dell’articolo 2110, secondo comma, del codice civile. Può altresì applicare la predetta disciplina nell’ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo; nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, il giudice applica la disciplina di cui al quinto comma. In tale ultimo caso il giudice, ai fini della determinazione dell’indennità tra il minimo e il massimo previsti, tiene conto, oltre ai criteri di cui al quinto comma, delle iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione e del comportamento delle parti nell’ambito della procedura di cui all’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni”

In sostanza la “manifesta infondatezza” del fatto che comporta il licenziamento per giustificato motivo ne determina l’illegittimità con diritto alla reintegra.

Di fronte ad un fatto oggettivo come quello che determina il licenziamento per motivi economici l’individuazione del motivo manifestamente infondato e quindi non solo infondato, appare quanto mai ardua.

La questione recentemente era affrontata dalla Suprema Corte (Cassazione Sezione Lavoro 19.5.2021 n.13643 la quale riteneva che in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ove risulti accertata la mancanza di un nesso causale tra il progettato ridimensionamento e lo specifico provvedimento di recesso,  il licenziamento deve essere ricondotto nell’alveo di quella particolare evidenza richiesta per integrare la manifesta insussistenza del fatto che giustifica la reintegra.

Ancor prima, lo stesso giudice di legittimità (Cass. civ., Sez. lavoro, 01/02/2019, n. 3129) riteneva come in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, fosse  illegittimo per difetto del nesso causale il recesso intimato per risoluzione del contratto di appalto cui il lavoratore era stato adibito con assegnazione di mansioni non coerenti con l’inquadramento spettante. Affermava la Corte come ai fini dell’individuazione della tutela applicabile, fra quella reintegratoria e quella indennitaria, il giudice di merito doveva espressamente verificare se fosse  evidente l’insussistenza della ragione inerente l’attività produttiva ovvero l’impossibilità di una diversa utilizzazione del lavoratore.

Sul punto, interveniva in una prima occasione, la Consulta la quale con la pronuncia n.59 del 1.4.2021 dichiarava l’illegittimità costituzionale del settimo comma qui esaminato nella parte in cui prevedeva che laddove il giudice accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, poteva, ma non necessariamente doveva, disporre la reintegrazione nel posto di lavoro (in dottrina, C Pisani, La riforma dei regimi sanzionatori del licenziamento per mano della Consulta, in Diritto Relazioni Industriali, 2021,2,522 e seguenti).

Anche recente dottrina affrontava il tema (Gianluca Lucchetti, Giurisprudenza Italiana n.11, novembre 2011 p.2414).

L’autore ritiene non del tutto condivisibili gli orientamenti che alla fine determinano la coincidenza tra insussistenza del giustificato motivo e manifesta insussistenza dello stesso, sosteneva infatti che in tal modo, vi era il pericolo di confondere la manifesta insussistenza del fatto posto a fondamento del giustificato motivo oggettivo con la sua insussistenza tout court e finendo in questo modo per sterilizzare il senso stesso della differenza di tutela accordata nell’uno e nell’altro caso, con evidenti pericoli di arbitrio giudiziale.

Lo stesso autore propone invece,  una propria teoria che lo stesso definisce come “mediana” affermando come il fatto su cui si fonda il licenziamento dovrebbe identificarsi con il nesso causale tra la scelta imprenditoriale (lo si ripete, di per sé insindacabile) e la soppressione del posto di lavoro, posto che la disposizione non parla di manifesta insussistenza del giustificato motivo oggettivo, bensì del “fatto” posto a suo fondamento. Quindi la manifesta infondatezza del fatto che sostiene il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, andrebbe identificata nella mancanza di nesso causale del recesso.

In merito al concetto di manifesta infondatezza del giustificato motivo oggettivo, si era pure fatta strada inizialmente una soluzione che potremmo definire processualistica in base alla quale come fatto manifestamente insussistente doveva intendersi quel fatto che sul piano probatorio potesse immediatamente apparire come insussistente. (G., Lucchetti, in Colloqui giuridici sul lavoro. L’ingiustificatezza qualificata del licenziamento, cit. pag. 49 e segg.).

Successivamente la dottrina (A. Vallebona, L’ingiustificatezza qualificata del licenziamento: fattispecie e oneri probatori, in Dir. Rel. Ind., 2012, 621 e segg.) approdava ad un concetto più sostanziale che definiva come manifestamente infondato il licenziamento che presentava un’eccezionale carenza di argomenti a proprio favore il cosiddetto “torto marcio”.

Il punto è stato ora affrontato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.125 del 25.5.2022 la cui massima in sintesi stabilisce che:

“in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo connesso a ragioni economiche, produttive e organizzative, va dichiarata costituzionalmente illegittima la disposizione di cui all’art. 18, settimo comma, secondo periodo, della legge 20 maggio 1970, n. 300 nella parte in cui prevede che, in caso di insussistenza del fatto, per disporre la reintegra occorra un quid pluris rappresentato dalla dimostrazione della “manifesta” insussistenza del fatto stesso, posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Ciò in quanto al fatto che è all’origine di tale ipotesi di licenziamento si devono ricondurre l’effettività e la genuinità della scelta imprenditoriale, sulle quali il giudice è chiamato a svolgere una valutazione di mera legittimità, che non può sconfinare in un sindacato di congruità e di opportunità, così che la previsione del carattere manifesto di una insussistenza del fatto presenta profili di irragionevolezza intrinseca, poiché il requisito della manifesta insussistenza è indeterminato e demanda al giudice una valutazione sfornita di ogni criterio direttivo e per di più priva di un plausibile fondamento empirico, nell’alveo di controversie nelle quali il quadro probatorio è spesso articolato, tanto da non essere compatibile con una verifica prima facie dell’evidente insussistenza del fatto, che la legge richiede ai fini della reintegrazione.”

Approfondendo il ragionamento espresso nella motivazione della Corte emerge il rilievo di una ingiustificata, irrazionale ed illegittima differenziazione tra il licenziamento per giustificato motivo oggettivo ed il licenziamento per giusta causa, in quanto solo nella prima fattispecie sarebbe richiesta, ai fine della reintegrazione del lavoratore, una insussistenza manifesta del fatto. Ritiene inoltre la Consulta, che il requisito della manifesta insussistenza demanderebbe al giudice una valutazione sfornita di ogni criterio direttivo e per di più priva di un plausibile fondamento empirico

Si era prima accennato alle frastagliate regole che ormai disciplinano la materia dei licenziamenti.

Notiamo in proposito come il decreto legislativo 23/2015 applicabile ai lavoratori assunti all’entrata in vigore di quella legge, stabilisce che il datore di lavoro, nel caso di licenziamento illegittimo è obbligato alla reintegra nei seguenti casi:

  1. Licenziamento discriminatorio;
  2. Licenziamento nullo per espressa previsione di legge;
  3. Licenziamento inefficace perché intimato in forma orale;
  4. Licenziamento ingiustificato riferibile alla disabilità fisica o psichica del lavoratore;
  5. Licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo oggettivo rispetto al quale sia dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto.

Non è prevista invece, forma alcuna di reintegra nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo nel caso di insussistenza del fatto.

Di fronte a quest’ultima ipotesi, il Giudice delle Leggi potrebbe ripercorrere l’iter argomentativo svolto nella sentenza in esame.

Sommessamente potremmo affermare che la materia oltre che di provvidenziali ed utili interventi della consulta, abbisognerebbe di un sostanziale riordino.

Fabio Petracci

Corte Costituzionale n. 88/2022, pensione reversibilità per nipoti maggiorenni inabili

La decisione della Corte arriva in ragione della sollevazione della questione di legittimità costituzionale da parte della Suprema Corte di Cassazione con riferimento all’art. 38 del decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1957, n. 818 nella parte in cui non include, tra i soggetti ivi elencati, anche i maggiori orfani e interdetti dei quali risulti provata la vivenza a carico degli ascendenti.
La Corte Costituzionale sottolinea che la ratio della reversibilità dei trattamenti pensionistici consiste nel farne proseguire, almeno parzialmente, anche dopo la morte del loro titolare, il godimento da parte dei soggetti a lui legati da determinati vincoli familiari, garantendosi, così, ai beneficiari la protezione dalle conseguenze che derivano dal decesso del congiunto.
Si realizza in tal modo, anche sul piano previdenziale, una forma di ultrattività della solidarietà familiare proiettando il relativo vincolo la sua forza cogente anche nel tempo successivo alla morte.
Ciò posto, il rapporto di parentela tra l’ascendente e il nipote maggiorenne, orfano e inabile al lavoro, subisce un trattamento irragionevolmente deteriore rispetto a quello con il nipote minorenne, con conseguente fondatezza della questione sollevata in riferimento all’art. 3 Cost.
Se, infatti il legame sotteso al rapporto tra nonno e nipote minorenne, come presupposto per l’accesso al trattamento pensionistico di reversibilità, deve essere ritenuto meritevole di tutela, analoga valutazione di meritevolezza, collegata al fondamento solidaristico, non può non riguardare anche il legame familiare tra l’ascendente e il nipote, maggiore di età, orfano e inabile al lavoro.
La relazione appare in tutto e per tutto assimilabile a quella che si instaura tra ascendente e nipote minore di età, per essere comuni ai due tipi di rapporto la condizione di minorata capacità del secondo e la vivenza a carico del primo al momento del decesso di questo.
È illogico, e ingiustamente discriminatorio, che i soli nipoti orfani maggiorenni e inabili al lavoro viventi a carico del decuius siano esclusi dal godimento del trattamento pensionistico dello stesso, pur versando in una condizione di bisogno e di fragilità particolarmente accentuata: tant’è che ad essi è riconosciuto il medesimo trattamento di reversibilità in caso di sopravvivenza ai genitori, proprio perché non in grado di procurarsi un reddito a cagione della predetta condizione.
Non viene nemmeno accolta la tesi della difesa erariale relativa alla differenziazione dovuta alla limitata durata nel tempo della prestazione in favore dei nipoti minori (fino alla maggiore età) e della (in astratto) più lunga durata dell’aspettativa di vita del nipote maggiorenne inabile al lavoro.
Tale differenza non è dirimente ai fini della spettanza di un diritto che ha matrice solidaristica, a garanzia delle esigenze minime di protezione della persona.
Deve, in conclusione, essere dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 38 del d.P.R. n. 818 del 1957, per violazione dell’art. 3 Cost., nella parte in cui non include tra i destinatari diretti ed immediati della pensione di reversibilità i nipoti maggiorenni orfani riconosciuti inabili al lavoro e viventi a carico degli ascendenti assicurati.

Avv. Alberto Tarlao