Reintegrato dal giudice del lavoro il Sovraintendente del teatro S. Carlo di Napoli

Il Tribunale di Napoli con provvedimento cautelare ha ordinato l’immediata reintegrazione di Stéphane Lissner nel ruolo di sovrintendente e direttore artistico del teatro San Carlo di Napoli.

Il decreto Legge 10 maggio 2023, n. 51 recante “Disposizioni urgenti in materia di amministrazione di enti pubblici, di termini legislativi e di iniziative di solidarietà sociale”, all’art. 2 prevede che: “alle Fondazioni Lirico-Sinfoniche debba applicarsi il divieto di conferimento di incarichi al raggiungimento del settantesimo anno di età e che il Sovrintendente debba cessare in ogni caso dalla carica al compimento del settantesimo anno di età; che i Sovrintendenti delle suddette Fondazioni che, alla data di entrata in vigore del Decreto, abbiano compiuto il settantesimo anno di età, cessino anticipatamente dalla carica a decorre dal 1° giugno 2023, e ciò indipendentemente dalla data di scadenza degli eventuali contratti in corso”.

La ratio della disciplina normativa in analisi risiede nella necessità di contenimento dei costi della finanza pubblica statale e di contrastare eventuali manovre elusive del collocamento in quiescenza.

Pertanto, a parere del Tribunale di Napoli, la novella non può che interpretarsi nel solco dei medesimi principi ispiratori, essendosi limitata ad elevare i limiti di età scattati i quali i soggetti collocati in quiescenza non possono essere destinatari di incarichi di sovrintendenza e, in ogni caso, decadono automaticamente dall’ incarico anche se è in corso un contratto di lavoro precedentemente stipulato.

Ne consegue che la disposizione normativa in parola, non può trovare applicazione nel caso del Stéphane Lissner, trattandosi di cittadino straniero, privo di trattamento pensionistico per essere stato posto in quiescenza con oneri a carico del nostro Stato.

Dunque la revoca ante tempus rispetto alla naturale scadenza del contratto di lavoro in corso del maestro Lissner avente ad oggetto l’ incarico di sovrintendente e direttore artistico del Teatro San Carlo deve ritenersi illegittima non rientrando il suo caso nello spettro di applicazione della norma.

Il caporalato: una piaga (ancora) attuale

  1. La titolarità del rapporto di lavoro e il divieto di mercificazione della forza lavoro

La gran parte delle norme in tema di lavoro sono norme di protezione o quantomeno di responsabilizzazione del datore di lavoro.

Per questi motivi, la legge ha voluto sempre individuare la figura del datore di lavoro ed evitare che altre figure interferissero o si sovrapponessero nel rapporto contrattuale tra lavoratore e datore di lavoro.

Contestualmente ed in questa funzione protettiva si volle mantenere il collocamento dei lavoratori rigorosamente in mano pubblica.

Si voleva così evitare lo sfruttamento della manodopera che all’epoca avveniva tramite i cosiddetti caporali che reclutavano il personale e ne provvedevano alla retribuzione detraendo il proprio compenso.

Nel 1960, era emanata la legge 1369 che vietava la cosiddetta interposizione di manodopera.

La legge proibiva in maniera netta ogni forma di appalto e subappalto dove i mezzi di produzione appartenessero sotto qualunque forma all’appaltante e dove comunque fosse appaltata a terzi esclusivamente la mera prestazione di lavoro (articolo 1 legge 1369/60).

La stessa legge poneva il divieto anche a carico degli enti pubblici.

Nel caso di violazione, era prevista la sanzione di natura civilistica costituita dalla costituzione di un rapporto di lavoro a termine con i lavoratori interposti, oltre ad una ammenda.

Normalmente vi si aggiungevano le sanzioni penali per la violazione delle norme sul collocamento.

La norma quindi, all’articolo 3, nel caso di appalti leciti, sanciva il diritto al pari trattamento retributivo per i dipendenti dall’appaltatore rispetto a quanto spettante a quelli dell’appaltante.

Il successivo articolo 4 stabiliva la responsabilità solidale di appaltante ed appaltatore per la corresponsione delle retribuzioni.

Il successivo articolo 5 stabiliva invece delle deroghe al pari trattamento economico per alcuni settori produttivi dove il ricorso all’appalto era se non necessario, almeno frequente.

Nel tempo, l’economia si evolve e con essa contestualmente i rapporti di lavoro.

Principalmente si frantumava la rigidità dell’organizzazione aziendale e quindi, anche per ragioni di affrontare la concorrenza, molte lavorazioni erano esternalizzate, senza tener conto anche del fatto che in molti paesi occidentali, le agenzie interinali potevano fornire la manodopera con adeguate garanzie. Inoltre l’Italia era inserita nella Comunità Europea e come tale doveva favorire la libera concorrenza sul mercato.

La Corte di Giustizia Europea con un importante sentenza del 1997 (Cfr. Corte di Giustizia, Sez. VI, sent. 11 dicembre 1997, causa C-55/96 (par. 21) condannava l’Italia per violazione della normativa europea in tema di concorrenza, in quanto, il nostro paese aveva vietato ai privati il collocamento e l’intermediazione nel lavoro, ponendo così i pubblici uffici di collocamento in una posizione dominante che violava la normativa europea sulla concorrenza, (articolo 102 TFUE).

In poche parole, un imprenditore comunitario non poteva venire in Italia ed esercitarvi il collocamento e l’intermediazione nei rapporti di lavoro.

Era quindi emanato il cosiddetto Pacchetto Treu (legge 24 giugno 1997, n. 196 recante “Norme in materia di promozione dell’occupazione”) e quindi la legge Biagi DLGS 276/2003 che innovarono la materia.

A questo punto, la somministrazione di personale diveniva legittima purché esercitata da agenzie autorizzate e lo stesso avveniva per la selezione ed il collocamento riservati pure a soggetti qualificati e muniti di adeguati requisiti.

Al di fuori di queste ipotesi, continua a sussistere l’illecito penale basato sulle ipotesi dell’interposizione irregolare e dell’interposizione fraudolenta.

L’articolo 18 del DLGS 81/2015 disciplina e punisce la somministrazione irregolare, e stabilisce come l’esercizio non autorizzato e come tale intendendosi la somministrazione di personale da chi non sia autorizzato a ciò dia luogo a diverse e graduate sanzioni penali.

Più grave appare la somministrazione di personale fraudolente ravvisata dall’articolo 38 bis DLGS 81/2015 laddove la somministrazione irregolare è posta in essere con lo specifico fine di eludere norme inderogabili di legge e di contratto collettivo. In tal caso scatta l’ammenda pari a 20 euro a giornata per ciascun lavoratore oltre alle sanzioni previste dall’articolo 18 DLGS 276/2003 per la somministrazione irregolare.

Questo il quadro a rilevanza civile e penale stabilito dal diritto del lavoro.

  1. Gli interventi nel campo penale

Viene quindi introdotto con il DL 13 agosto 2011 n.138 recante ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo meglio noto come Manovra – bis , la nuova fattispecie delittuosa di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, destinata a colpire con maggior rigore il fenomeno del cosiddetto caporalato.

Esisteva presso il parlamento il disegno di legge n.2584 che aveva ad oggetto alcune misure volte a reprimere l’intermediazione illecita di manodopera.

Leggendone la relazione notiamo come fondamentalmente esso sia volto ad agire nell’ambito dell’emergenza migrazione e criminalità organizzata e volto a reprimere non tanto storture di natura contrattuale, quanto piuttosto condotte criminose che sullo sfondo avevano lo sfruttamento del lavoro altrui.

Il progetto di legge era composto da sette articoli di cui la gran parte dedicati al tema delle condizioni dei migranti ed all’integrazione degli stessi.

Solo l’articolo 4 era dedicato alla somministrazione illecita di manodopera ed allo sfruttamento dei lavoratori.

Il legislatore italiano riconosceva l’esistenza di una lacuna nella repressione penale dei fenomeni di distorsione nel mercato del lavoro.

Era così introdotta la nuova fattispecie penale dell’articolo 603 bis del codice penale.

Si pensava così di creare una norma incriminatrice in grado di intercettare quelle condotte negative più gravi della semplice violazione del DLGS 276/2003 cui abbiamo fatto cenno e meno gravi rispetto alla fattispecie di cui all’articolo 600 c.p. (riduzione in schiavitù).

La legge entrava in vigore nell’agosto 2011 e trovava collocazione nel codice nell’ambito dei delitti contro la personalità individuale.

Si voleva così sottolineare un disvalore che eccede la semplice condizione di liceità nell’interposizione e nella somministrazione di manodopera (articolo 18 DLGS 276/2003). E che forse non tiene in adeguato conto l’esistenza della più grave fattispecie della somministrazione di personale fraudolenta ravvisata dall’articolo 38 bis DLGS 81/2015.

Il testo di questo primo intervento legislativo era quindi il seguente: «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque svolga un’attività organizzata di intermediazione, reclutando manodopera o organizzandone l’attività lavorativa caratterizzata da sfruttamento, mediante violenza, minaccia, o intimidazione, approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori, è punito con la reclusione da cinque a otto anni e con la multa da 1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato.

Ai fini del primo comma, costituisce indice di sfruttamento la sussistenza di una o più delle seguenti circostanze:

1) la sistematica retribuzione dei lavoratori in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato;

2) la sistematica violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie;

3) la sussistenza di violazioni della normativa in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro, tale da esporre il lavoratore a pericolo per la salute, la sicurezza o l’incolumità personale;

4) la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, metodi di sorveglianza, o a situazioni alloggiative particolarmente degradanti.

Costituiscono aggravante specifica e comportano l’aumento della pena da un terzo alla metà:

1) il fatto che il numero di lavoratori reclutati sia superiore a tre;

2) il fatto che uno o più dei soggetti reclutati siano minori in età non lavorativa;

3) l’aver commesso il fatto esponendo i lavoratori intermediati a situazioni di grave pericolo, avuto riguardo alle caratteristiche delle prestazioni da svolgere e delle condizioni di lavoro».

Nel vecchio testo risalente al 2011 affinché sussistesse il reato di cui all’articolo 603 c.p., doveva sussistere una forma di sfruttamento realizzata mediante violenza, minaccia o intimidazione.

In diverse occasioni anche di reale sfruttamento, il reato non venne riconosciuto nelle sedi giudiziarie proprio a causa di tali ridondanti requisiti.

  1. La riforma – il nuovo articolo 603 bis c.p.

Invece, con il nuovo articolo 603 bis comma 1 si prevede il solo sfruttamento senza violenza e minaccia con pena minore.

In ogni caso, le fattispecie di reato sono applicabili solo dove il fatto non costituisca altro più grave reato.

La fattispecie di reato inoltre va oltre alla figura dei caporali come coloro che reclutano il personale in condizioni di sfruttamento, ma estende la sanzione anche a chi “utilizza, assume, o impiega manodopera” sfruttata anche senza l’intermediazione del cosiddetto “caporale”.

Dunque, è prevista l’incriminazione anche per l’utilizzatore e risultano importanti gli indici di sfruttamento.

In continuità con la precedente fattispecie penale, sono previsti degli indici specifici che fanno presumere lo sfruttamento.

Tali indici debbono essere reiterati e quindi ripetuti nel tempo, senza che serva più il requisito della sistematicità nozione che comportava una certa difficoltà interpretativa.

Valgono come indici di sfruttamento da intendersi verificati in maniera reiterata: retribuzioni palesemente difformi dai contratti, violazione orario di lavoro e riposi, violazione di norme sulla sicurezza e sull’igiene, condizioni di lavoro e di alloggio degradanti.

Non si parla più di sfruttamento dello stato di necessità, ma esclusivamente di sfruttamento dello stato di bisogno.

Per entrambi i reati, non è più necessario che siano compiuti per il tramite di una struttura organizzativa.

È introdotta la confisca obbligatoria per i proventi da reato. È possibile l’arresto in flagranza.

Alle vittime del caporalato, sono estesi i benefici previsti per le vittime della tratta.

La nuova legge prevede inoltre anche delle circostanze attenuanti per coloro che collaborano con la giustizia.

Così impostata e migliorata la norma appare come un adattamento del diritto a nuove condizioni di sfruttamento.

Di seguito, il testo attuale dell’articolo 603 bis c.p., “Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da 500 a 1.000 euro per ciascun lavoratore reclutato, chiunque:

1) recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori;

2) utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l’attività di intermediazione di cui al numero 1), sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno.

Se i fatti sono commessi mediante violenza o minaccia, si applica la pena della reclusione da cinque a otto anni e la multa da 1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato 3.

Ai fini del presente articolo, costituisce indice di sfruttamento la sussistenza di una o più delle seguenti condizioni:

1) la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato;

2) la reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie;

3) la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro;

4) la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti.

Costituiscono aggravante specifica e comportano l’aumento della pena da un terzo alla metà:

1) il fatto che il numero di lavoratori reclutati sia superiore a tre;

2) il fatto che uno o più dei soggetti reclutati siano minori in età non lavorativa;

3) l’aver commesso il fatto esponendo i lavoratori sfruttati a situazioni di grave pericolo, avuto riguardo alle caratteristiche delle prestazioni da svolgere e delle condizioni di lavoro.

In realtà, la norma non solo è maggiormente approfondita, ma si pone come un limite estremo alla libertà di impresa non tanto nell’interesse del lavoratore, quanto piuttosto nell’interesse generale dell’essere umano.

Pertanto, la fattispecie penale di cui all’articolo 603 bis CP è stata collocata nell’ambito dei reati contro la personalità individuale assieme ai reati di tratta di esseri umani, riduzione e mantenimento in schiavitù.

La materia del sinallagma contrattuale trova già nell’ambito del diritto del lavoro numerose limitazione e norme inderogabili del diritto civile ed amministrativo, atte a tutelare la parte economicamente più debole.

Nel caso di specie l’equilibrio contrattuale è addirittura idoneo a ledere diritti fondamentali dell’individuo in quanto tale in quanto, la libertà di iniziativa economica sconfina nel campo del crimine.

Notiamo un certo parallelismo con il reato d’usura dove il componimento bilaterale di interessi divergenti viene a sconfinare dinnanzi allo stato di bisogno altrui, nel crimine.

  1. Risposte a quesiti specifici

La pratica del caporalato è posta in essere solo da associazioni di stampo mafioso? Quali sono i vantaggi economici che un’impresa ricava dallo sfruttamento illecito di manodopera?

Si tratta di un reato che può essere compiuto da chiunque, tanto che il nuovo testo dell’articolo 603 bis non prevede più il requisito dell’associazione. I vantaggi economici possono essere molteplici come il bassissimo costo della manodopera, bassissimo assenteismo, scoperture contributive. Alla fine ci rimettono i concorrenti onesti oltre che i lavoratori.

In Friuli-Venezia Giulia si ha evidenza che siano radicate delle “agromafie” o associazioni di stampo mafioso che compiono sfruttamento illecito di manodopera?

Situazioni irregolari sono state segnalate nel Friuli nel campo della viticoltura.

Molto spesso il reclutamento dei lavoratori avviene ad opera di ditte che hanno un contratto di appalto con l’impresa datrice di lavoro, la quale solitamente si dichiara estranea ai fatti: come si può capire se l’impresa datrice di lavoro è a conoscenza oppure no dei fatti di reato?

La conoscenza ha scarsa importanza, chi appalta i lavori, anche in caso di appalto lecito è solidalmente responsabile della retribuzione e della sicurezza dei dipendenti dall’appaltatore.

Secondo lei, la scelta del legislatore di dedicare una specifica fattispecie del codice penale al caporalato è stata opportuna?

Direi di no, esistono specifiche norme anche di natura penalistica che nell’ambito della normativa del lavoro sanzionano gli appalti e le somministrazioni irregolari, sarebbe stato utile potenziare questa normativa, così si rischia la creazione di troppe fattispecie concorrenti.

Perché il legislatore ha deciso di modificare il testo dell’art. 603-bis c.p.? Quali erano i problemi di applicazione della fattispecie nella versione del 2011 (L. 148/2011)?

La versione del 2011 era quasi inapplicabile, si richiedeva il ricorrere di violenza e minaccia. Spesso questi elementi non sono necessari per chi versa in uno stato di gravissimo bisogno.

In secondo luogo, gli indici di sfruttamento richiedevano il ricorrere sistematico di questi ultimi, ora basta il ripetersi di essi.

La nuova normativa punisce ora anche l’utilizzatore e non si limite alla figura del caporale intermediario, ma di chiunque crei la situazione di sfruttamento.

In questo contesto che ruolo giocano i sindacati?

Dove opera il caporalato, il sindacato non ha alcuna veste o riconoscimento, può operare a livello di denunce, in diversi posti lo sta facendo.

Fabio Petracci

Il ricorso gerarchico all’inps e il principio di legittimo affidamento alla pubblica amministrazione

1.Il principio di legittimo affidamento alla pubblica amministrazione; 2. Caso di specie: il cittadino straniero che chiede il cumulo dei contributi e l’inerzia della pubblica amministrazione; 3. Lo strumento del ricorso gerarchico all’INPS; 4. Il ricorso amministrativo contro un provvedimento dell’INPS e la previsione dell’articolo 328 c.p.

  1. Il principio di legittimo affidamento alla pubblica amministrazione

L’articolo 97 della nostra Costituzione stabilisce come principi generali dell’ordinamento l’imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione, principi fondamentali su cui si costruisce l’agire della pubblica amministrazione e l’intero diritto amministrativo italiano.

Più in particolare, da questi principi generali deriva un ulteriore principio, elaborato prima a livello europeo e successivamente introdotto anche nella giurisprudenza tedesca: il principio di legittimo affidamento del cittadino alla pubblica amministrazione.

Ciò che questo principio intende tutelare sono le aspettative che la pubblica amministrazione, attraverso i suoi atti o comportamenti, ingenera nel cittadino.

Ciò accade anche quando il lavoratore che, alla fine della propria carriera, raggiunti i requisiti anagrafici e contributivi, intende accedere alla pensione.

  1. Caso di specie: il cittadino straniero che chiede il cumulo dei contributi e l’inerzia della pubblica amministrazione

Accade di sovente che, di fronte alla complessità dell’ipotesi, si verificano situazioni di paralisi dell’attività amministrativa.

Viene proposto come caso paradigmatico quello del cittadino straniero che per diversi anni ha lavorato in Italia e ha provveduto ad inoltrare correttamente all’INPS la domanda di pensione di vecchiaia in convenzione internazionale con il Paese di origine, con cumulo dei contributi maturati nei due Stati.

Dopo diversi anni dalla richiesta, al Signore in questione non è ancora stata liquidata la pensione, nonostante i ripetuti solleciti da parte dello stesso, del patronato e dello studio legale a cui all’uopo si è rivolto.

A questi, visti i numerosi solleciti, viene comunicata dalla sede INPS competente, via PEC, la possibilità di impugnare il provvedimento di reiezione della domanda di pensione attraverso un reclamo da proporre con un’apposita procedura attivabile nell’area personale sul sito dell’INPS entro il termine di 90 giorni, termine previsto dall’articolo 443 c.p.c., per l’impugnazione dei provvedimenti dell’Ente.

Questa risposta riporta delle criticità sotto vari aspetti: innanzitutto, l’inesistenza di un provvedimento di reiezione della domanda di pensionamento. La domanda del lavoratore, infatti, non è stata rigettata, ma neanche accolta. Ci si trova, invece, di fronte ad una situazione di inerzia della pubblica amministrazione.

Dall’altro lato, l’ex lavoratore straniero (soprattutto se non ha passato molti anni lavorando in Italia e non ha avuto molto tempo od occasioni per praticare la lingua) ha meno autonomia rispetto all’ex lavoratore italiano nell’utilizzo dell’area personale dell’INPS, tanto per una questione linguistica – da non sottovalutare – quanto per il più probabile mancato possesso delle credenziali SPID, del PIN INPS o della carta di identità elettronica italiana, vista la maggiore difficoltà, rispetto al madrelingua italiano, a conseguirli a causa della barriera linguistica.

  1. Lo strumento del ricorso gerarchico all’INPS

In questo caso di specie è stato violato, da parte della pubblica amministrazione, il principio di legittimo affidamento, poiché tradite le aspettative dell’ex lavoratore nei confronti dell’amministrazione.

L’articolo 443 c.p.c. prevede a riguardo la tutela giurisdizionale, ma il ricorso amministrativo non può essere presentato se non dopo l’impugnazione del provvedimento dell’INPS entro il termine di 90 giorni decorrenti dalla data del provvedimento o dalla formazione del silenzio-rigetto. Dopo questi, è previsto un ulteriore termine di 120 giorni per ottenere una risposta da parte dell’INPS.

Scaduto anche questo termine, è possibile la proposizione del ricorso amministrativo.

In pratica, secondo la normativa comune di legge, la controversia giudiziale non è ammissibile e procedibile, se prima l’utente non ha esaurito le procedure amministrative previste.

Più nello specifico del diritto amministrativo, la legge 241/1990 prevede, all’articolo 2, comma 1, l’obbligo delle pubbliche amministrazioni a concludere il procedimento attraverso un provvedimento espresso, nel termine massimo di 90 giorni, come previsto dal comma 3.

In ogni caso, ai sensi del comma 9, “la mancata o tardiva emanazione del provvedimento costituisce elemento di valutazione della performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e funzionario inadempiente”.

Contestualmente ed ancora di più nello specifico, esiste una fonte interna dell’ente di previdenza: il regolamento INPS per la definizione dei termini di conclusione dei procedimenti amministrativi, approvato dal Consiglio di Amministrazione dell’INPS alla seduta del 20.12.2020 (deliberazione n. 11) – poi messo a conoscenza dell’Ente attraverso la circolare n. 55 del 08.04.2021, che prevede lo strumento del ricorso gerarchico quando l’amministrazione è inerte nella conclusione del procedimento (strumento già previsto dall’articolo 2 della legge 241/1990, sopra menzionato, al comma 9-ter).

Il regolamento INPS, inoltre, prevede anche i termini specifici entro cui i procedimenti devono essere conclusi. Nel caso di specie di cui al secondo paragrafo del pensionamento di vecchiaia in convenzione internazionale, il termine massimo per la conclusione della procedura è di 85 giorni (tabella A allegata al regolamento).

Interessante l’articolo 9, comma 5 del regolamento, che prevede nel particolare del contesto dell’INPS il potere sostitutivo della sede Provinciale o Regionale qualora il procedimento non venga concluso nei termini stabiliti. Il cittadino, infatti, può rivolgersi direttamente alla sede Provinciale o Regionale, chiedendo di sostituirsi all’Ufficio inerte. Questi sono obbligati a concludere il procedimento o a fornire informazioni al richiedente entro la metà del termine previsto dalla tabella A.

Tuttavia, la procedura per ottenere un provvedimento da parte dell’INPS può non concludersi nonostante tutte queste tutele, poiché l’Ente continua a rimanere inerte.

  1. Il ricorso amministrativo contro un provvedimento dell’INPS e la previsione dell’articolo 328 c.p.

Come anticipato nel secondo paragrafo, nel caso di specie dell’ex lavoratore straniero non è possibile attivare la procedura di cui all’art. 443 c.p.c., poiché non esistente un provvedimento dell’Ente, bensì l’INPS è inerte nell’emetterlo. Vi è da chiedersi se l’inerzia dell’INPS raffiguri un vero e proprio silenzio, dal momento che l’Ente ha risposto in maniera non negativa.

In caso ci fosse un provvedimento da impugnare, il cittadino straniero avrebbe potuto accedere all’area personale sul sito dell’INPS attraverso il proprio PIN INPS, le proprie credenziali SPID o la propria carta di identità elettronica italiana, e seguire il procedimento guidato indicato, oppure avrebbe potuto rivolgersi ad un patronato o al legale di fiducia, entro 90 giorni dall’emissione del provvedimento, per proseguire con l’iter di cui all’art. 443 c.p.c. ed arrivare al ricorso amministrativo.

Nel caso di mancanza di un provvedimento dell’INPS e di una risposta nonostante l’attivazione delle tutele, invece, sarebbe possibile utilizzare i normali strumenti della legge 241/90 per pervenire alla fine alla formulazione di una querela contro l’Ente, poiché potrebbe configurarsi il reato di cui all’art. 328 c.p., “Omissione di atti d’ufficio”, che prevede che “Il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, che entro 30 giorni dalla richiesta con chi vi abbia interesse con compie l’atto del suo ufficio e non risponde per le ragioni del suo ritardo, è punito con la reclusione fino ad un anno o con la multa fino ad euro 1.032. Tale richiesta deve essere redatta in forma scritta ed il termine di trenta giorni decorre dalla ricezione della domanda stessa”.

Come ricordato nel paragrafo sopra, da regolamento INPS per la definizione dei termini di conclusione dei procedimenti amministrativi, la procedura dopo il ricorso alla Direzione Regionale deve concludersi entro la metà del tempo previsto per la conclusione del procedimento (nel caso di pensionamento in convenzione internazionale, nella metà di 85 giorni).

Questo problema di configurabilità del reato di cui all’art. 328 c.p. è stato affrontato anche dalla circolare dello stesso INPS del 20.10.1995, n. 264.

Così, infatti, la circolare, che nella premessa sottolinea che “Il diritto del cittadino utente ad ottenere una risposta sollecita ed esauriente nel merito, secondo una logica convergente con quella su cui è fondata la legge 241/1990”, ed invita poi il personale a concludere le pratiche entro i termini previsti:

“Per prevenire il concretarsi della fattispecie penalmente sanzionata è dunque necessario emettere nel termine dei 30 giorni il provvedimento o l’atto d’ufficio richiesto, ovvero, in alternativa, quando ciò non sia possibile, dare risposta, entro lo stesso termine per chiarire le ragioni del ritardo o dell’inadempienza. A quest’ultimo riguardo occorre avere ben presente che la motivazione addotta nella risposta non può essere soltanto generica (ad es. esistenza di arretrato, notevole mole di lavoro), ma deve essere necessariamente circostanziata e “personalizzata”, sicché possa valere come vera e propria motivazione del ritardo e del comportamento tenuto nella circostanza, con riferimento alla specifica pratica oggetto della richiesta”.

Dott.ssa Chiara Bassanese