Procedure di stabilizzazione precluse ai lavoratori somministrati

Pubblico Impiego – Stabilizzazione del Personale Precario – Lavoratori Somministrati – Inapplicabilità delle procedure di stabilizzazione.

DLGS 75 /2017 articolo 20 commi 2 e 9 – esclusione dei lavoratori titolari di contratti di somministrazione di lavoro presso le pubbliche amministrazioni dalla possibilità di partecipare alle procedure concorsuali riservate in misura non superiore al 50% dei posti disponibili al personale non dirigenziale che risulti titolare di un contratto di lavoro flessibile.

Corte Costituzionale sentenza 12 maggio 2023 n.95 – insussistenza della questione di legittimità costituzionale.

La decisione in sintesi

La consulta ha ritenuto come le procedure di stabilizzazione costituiscano uno strumento di reclutamento derogatorio rispetto a quello ordinario del pubblico concorso, in quanto introducono un percorso riservato ad una platea ristretta di soggetti in possesso di specifici requisiti che abbiano maturato un periodo di esperienza lavorativa in ambito pubblico.

Nel caso di specie, ha rammentato la Consulta, il rapporto di lavoro vero è quello che intercorre tra agenzia e dipendente e, rispetto ad esso, non rilevano le vicende del contratto concluso tra agenzia ed utilizzatore.

Ha precisato quindi la Consulta come il contratto tra l’agenzia ed il dipendente non trova origine in una procedura selettiva, in quanto la Pubblica Amministrazione risulta essere soltanto un utilizzatore.

Ha quindi concluso precisando come i lavoratori messi a disposizione della Pubblica Amministrazione per tutta la durata della missione, pur svolgendo la loro attività nell’interesse e sotto la direzione dell’ente, non vengono ovviamente reclutati mediante l’espletamento di procedure concorsuali.

Quindi secondo la Corte, non sussiste alcuna ingiustificata disparità di trattamento.

Smart Working. Le regole sino al 30 giugno 2023.

In sede di conversione in legge del Milleproroghe è stato inserito il comma 4-ter all’articolo 9, con cui si dispone la proroga del diritto allo Smart Working per i lavoratori fragili, sino al 30 giugno 2023.

Non sussiste comunque in alcuno dei casi che andremo ad esaminare, un diritto del lavoratore incondizionato a richiedere di operare in Smart Working.

Resta in ogni caso, il diritto del datore di lavoro di valutare la compatibilità della richiesta con le caratteristiche della prestazione.

La valutazione datoriale non può essere discrezionale ma deve essere resa su una effettiva valutazione della compatibilità delle mansioni sia con l lavoro agile che con l’organizzazione dell’azienda.

E’ stato previsto come l’attività in Smart Working possa avvenire anche mediante lo svolgimento di diversa mansione, purchè appartenente alla stessa categoria o area di inquadramento.

In ogni caso, L’assegnazione di mansioni diverse comportare una decurtazione della retribuzione in godimento.

Lavoratori fragili

In sede di conversione in legge del Milleproroghe è stato inserito il comma 4-ter all’articolo 9, con cui si dispone la proroga del diritto allo smart working per i lavoratori fragili, sino al 30 giugno 2023.

Il nuovo comma 5-ter inserito all’articolo 9 del Milleproroghe prevede la proroga sino al 30 giugno 2023 delle misure previste al punto 2, allegato B, del Decreto – legge 24 marzo 2022 numero 24 e quindi dell’accesso al Lavoro agile per i genitori lavoratori dipendenti del settore privato con almeno un figlio minore di 14 anni, disciplinato dall’articolo 90, comma 1, Decreto – legge 19 maggio 2020 numero 34.

I genitori  in questione hanno diritto a svolgere la prestazione di lavoro in modalità agile anche in assenza degli accordi individuali, fermo restando il rispetto degli obblighi informativi previsti dagli articoli da 18 a 23 della Legge numero 81/2017.

Sono previste anche ipotesi di esclusioni dallo smart working, qualora nel nucleo familiare sia presente un altro genitore:

  • Beneficiario di strumenti di sostegno al reddito in caso di sospensione o cessazione dell’attività lavorativa;
  • Non lavoratore.

In  ogni caso , la modalità di lavoro a distanza dev’essere compatibile con le caratteristiche della prestazione.

Va notato come  la proroga dello smart-working per i lavoratori fragili interessa tanto i dipendenti pubblici quanto quelli privati, la misura a beneficio dei genitori di under 14  sia riservata al solo personale del settore privato.

Sono inoltre previste delle priorità per l’accesso al Lavoro Agile, in quanto le aziende sono comunque tenute a riconoscere priorità alle richieste di esecuzione del lavoro in modalità agile formulate dalle seguenti categorie di lavoratori:

  • Con figli fino a 12 anni di età;
  • Con figli in condizioni di disabilità (senza limiti di età);
  • Con disabilità in situazione di gravità accertata o caregivers ai sensi dell’articolo 1, comma 255, Legge numero 205/2017.

Si intende per Caregiver colui che si prende cura di:

  • Coniuge;
  • Altra parte dell’unione civile o del convivente di fatto;
  • Un familiare o affine entro il secondo grado ovvero, nei soli casi indicati dall’articolo 33, comma 3, Legge numero 104/1992, di un familiare entro il terzo grado che, a causa di malattia, infermità o disabilità, anche croniche o degenerative, non è autosufficiente e in grado di prendersi cura di sé, è riconosciuto invalido in quanto bisognoso di assistenza globale e continua di lunga durata ex articolo 3, comma 3, della stessa Legge numero 104 o è titolare

E’ tutelata inoltre la retribuzione di chi presta la propria attività in Lavoro Agile.

Il lavoratore in smart working ha diritto ad un trattamento economico e normativo non inferiore a quello complessivamente garantito, in attuazione dei contratti collettivi, ai lavoratori che svolgono le medesime mansioni esclusivamente all’interno dell’azienda. Nessuna disparità di stipendio può quindi essere applicata dal datore di lavoro.

Nello specifico, le ore svolte a distanza sono:

  • Equiparate a quelle ordinarie rese in presenza;
  • Conferiscono il diritto alla maturazione di ferie, permessi, mensilità aggiuntive e TFR;
  • Conteggiate ai fini dell’anzianità di servizio del lavoratore in azienda.

Per quanto riguarda le regole concernenti l’orario di lavoro

Si ribadisce la differenza tra Smart Working e Home Working o Remote Working. Una delle caratteristiche principali dello Smart-Working è infatti lo svolgimento dell’attività senza precisi vincoli di orario.

La prestazione deve comunque avvenire nel rispetto dei limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, definiti dalla legge e dalla contrattazione collettiva.

A tutela della salute psico-fisica del lavoratore devono essere garantiti i tempi di riposo ed il diritto alla disconnessione dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro, nel rispetto degli eventuali accordi sottoscritti dalle parti e fatti salvi eventuali periodi di reperibilità.

Per quanto riguarda gli straordinari

Come espressamente previsto nel Protocollo nazionale sul lavoro agile nel settore privato, sottoscritto dal Ministero del lavoro e le parti sociali il 7 dicembre 2021, salvo esplicita previsione da parte della contrattazione collettiva, durante le giornate di smart-working “non possono essere di norma previste e autorizzate prestazioni di lavoro straordinario” (articolo 3, comma 4).

In merito alle assenze

Il lavoratore a distanza ha diritto, al pari dei colleghi in sede, di assentarsi per:

  • Ferie e permessi retribuiti definiti dalla legge e dal contratto collettivo applicato, sfruttando lo stesso monte ore previsto per chi lavora in presenza;
  • Malattia, infortunio, maternità ed altri esempi di assenze giustificate;
  • Permessi retribuiti per disabili o per l’assistenza a familiari disabili ai sensi della Legge numero 104/1992.

Il già citato Protocollo sullo smart working prevede (articolo 3, comma 5) che nei casi di “assenze c.d. legittime (es. malattia, infortuni, permessi retribuiti, ferie, ecc.)” il dipendente può “disattivare i propri dispositivi di connessione e, in caso di ricezione di comunicazioni aziendali, non è comunque obbligato a prenderle in carico prima della prevista dell’attività lavorativa”.

E’possibile nominare apposito medico competente per i lavoratori in smart working

La conferma dell’Interpello n.1/2023 del Ministero del Lavoro: è possibile nominare apposito medico competente per i lavoratori in smart working

Con istanza di interpello veniva sollevato il quesito se, considerato l’utilizzo sempre maggiore dello smart working, fosse possibile per il datore di lavoro individuare, con una apposita nomina, medici competenti diversi e ulteriori rispetto a quelli già nominati per la sede di assegnazione originaria dei dipendenti, vicini al luogo ove gli stessi dipendenti ora continuano ad operare in regime di smart working.

L’Interpello conferma che, ai sensi dell’art. 39 del d.lgs. n.81/2008, il datore di lavoro possa nominare più medici competenti, individuando tra essi un medico con funzioni di coordinamento, per particolari esigenze organizzative nei casi di aziende con più unità produttive, nei casi di gruppi di imprese nonché qualora emerga la necessità in relazione alla valutazione dei rischi.

Resta fermo che, qualora trovi applicazione la citata disposizione, ogni medico competente, verrà ad assumere tutti gli obblighi e le responsabilità in materia ai sensi della normativa vigente.

In linea generale, infine, si osserva che dovrà essere cura del datore di lavoro rielaborare il DVR con aggiornamento delle misure di prevenzione effettivamente adottate.

Il lavoro intermittente e l’obbligo della comunicazione precedente alla prestazione

  1. Il lavoro intermittente, caratteri distintivi

Il lavoro intermittente rientra nella categoria delle tipologie di lavoro flessibile previste dalla Sezione II del Capo II, rubricato “Lavoro ridotto e flessibile” del D.lgs. 81/2015, il quale contiene una disciplina organica dei contratti di lavoro.

Si tratta del contratto, a tempo determinato o indeterminato, in forza del quale il datore di lavoro “chiama” il lavoratore ad effettuare la prestazione pattuita quando lo ritiene opportuno sulla base delle proprie esigenze. Proprio per questo motivo il contratto viene anche definito “a chiamata”.

La prestazione lavorativa viene, pertanto, svolta in modo discontinuo o intermittente.

Vi è un limite massimo di fruizione rappresentato da quattrocento giornate di effettivo lavoro con il medesimo datore di lavoro, nell’arco di tre anni solari. In caso di superamento è prevista la “sanzione” per il datore della trasformazione del rapporto a tempo pieno e indeterminato.

Tale limite orario non si applica ai settori del turismo, dei pubblici esercizi e dello spettacolo.

In forza del principio di non discriminazione, <<il lavoratore intermittente non deve ricevere, per i periodi lavorati e a parità di mansioni svolte, un trattamento economico e normativo complessivamente meno favorevole rispetto al lavoratore di pari livello>> (art. 17).

Si sottolinea che il lavoratore intermittente matura il trattamento economico e normativo solo con riferimento alle giornate in cui svolge effettivamente la prestazione lavorativa.

Nei periodi, però, di sua reperibilità, nei quali, cioè, egli garantisce la propria disponibilità a rispondere alle chiamate ma non è detto che lavori, gli spetta l’indennità di disponibilità (art. 13, comma 4), come prevista dai contratti collettivi o dall’accordo delle parti.

  1. L’ obbligo di comunicazione ex art. 15, comma 3 Dlgs. 81/2015

Il presente punto intende rappresentare una guida all’ottemperanza dell’obbligo previsto dal comma 3 dell’art. 15 del D.lgs. 81/2015, il quale costituisce un onere ulteriore in capo al datore di lavoro, rispetto a quello di comunicazione obbligatoria di assunzione, cessazione e trasformazione del rapporto (UNILAV), previsto per qualsiasi tipologia di lavoro subordinato.

Oltre all’UNILAV il datore deve, infatti, provvedere alla comunicazione alla Direzione territoriale del lavoro competente per territorio, prima dell’inizio della prestazione lavorativa intermittente o di un ciclo integrato di prestazioni intermittenti di durata non superiore a 30 giorni (art. 15, comma 3).

  • Le modalità di trasmissione della comunicazione

Le modalità operative, attualmente in vigore, per eseguire tale comunicazione sono state definite dal Decreto Interministeriale del 27 marzo 2013 e dalla Circolare MLPS n. 27/2013.

La Circolare MLPS del 12 febbraio 2020 fornisce, inoltre, alcuni chiarimenti sulle modalità di comunicazione con riferimento ai lavoratori dello spettacolo.

Si riportano di seguente le modalità e i contenuti di tale ulteriore comunicazione, come individuate dai sopra menzionati decreto interministeriale e circolare esplicativa.

Dal punto di vista soggettivo, i soggetti abilitati ad effettuare la comunicazione sono il datore di lavoro o i “soggetti obbligati”, ossia coloro i quali, ai sensi della normativa vigente possono effettuare le comunicazioni in loro nome e per conto, come, per esempio, i consulenti del lavoro.

Le modalità di trasmissione della comunicazione sono esclusivamente le seguenti:

  1. a) via email all’indirizzo di posta certificata intermittenti@mailcert.lavoro.gov.it;
  2. b) per il tramite del servizio informatico attraverso il portale cliclavoro (www.cliclavoro.gov.it).
  3. c) via sms al numero 339-9942256.

Per quanto concerne la modalità sub a), per utilizzare tale canale, dovrà essere inviato in allegato alla mail, il modello “UNI_Intermittente” compilato in ogni sua parte.

Ai fini dell’adempimento dell’obbligo verranno prese in considerazione esclusivamente le e-mail contenenti il modello “UNI-Intermittente” debitamente compilato.

Tale modello richiede l’inserimento dei seguenti dati:

– codice fiscale e indirizzo di posta elettronica del datore di lavoro;

– codice fiscale del lavoratore interessato;

– codice di comunicazione del modello UNILAV cui la chiamata si riferisce (campo non obbligatorio);

– data inizio e data fine della prestazione per la quale si sta effettuando la comunicazione.

Non sono previste mail di conferma di ricezione e, ai fini di dimostrare l’esatto adempimento dell’obbligo, il datore di lavoro dovrà consegnare copia del modello compilato e allegato alla e-mail inviata. A tal fine il modello contiene in basso due opzioni: una di “stampa” che permette di stampare il modello e una “Genera xml e invia via e-mail” necessaria per adempiere all’obbligo, inviando il modello così generato all’indirizzo di posta elettronica certificata già indicata.

Si evidenzia che per utilizzare tale modalità di comunicazione non è necessario che l’indirizzo e-mail del mittente sia un indirizzo di posta elettronica certificata. La casella intermittenti@mailcert.lavoro.gov.it è infatti abilitata a ricevere comunicazioni anche da indirizzi di posta non certificata.

La modalità sub b), si attua mediante la registrazione e poi l’accesso al portale “cliclavoro” (www.cliclavoro.gov.it).

Anche in questo caso, il portale richiede la compilazione di un apposito modulo, con le modalità evidenziate nell’apposita sezione.

Per facilitare l’inserimento delle informazioni, non appena indicato il codice fiscale del lavoratore interessato alla chiamata, saranno proposte, se presenti, l’elenco delle comunicazioni obbligatorie di tipo intermittente aperte e il datore di lavoro dovrà semplicemente indicare il relativo codice di comunicazione.

Circa l’opzione sub c), questa è una modalità eccezionale prevista dall’articolo 4, comma 2 del decreto ministeriale del 27 marzo 2013.

Essa va utilizzata, infatti, esclusivamente per le prestazioni che hanno inizio non oltre le 12 ore dal momento della comunicazione (e che quindi possono terminare anche dopo le 12 ore dalla comunicazione), avendo cura di indicare almeno il codice fiscale del lavoratore utilizzato.

Al fine di identificare il datore di lavoro che sta inviando l’SMS è necessario che lo stesso si sia precedentemente registrato al portale cliclavoro, avendo cura di indicare nel form di registrazione il numero di telefono cellulare che sarà utilizzato per l’invio del modello. Solo in questo modo gli organi di vigilanza potranno verificare l’esatto adempimento dell’obbligo.

Non verranno prese in considerazione le comunicazioni inviate con un SMS che non contiene le informazioni sopra indicate ovvero provenienti da un numero di cellulare non registrato.

Come sopra accennato, le modalità appena delineate sono esclusive, pertanto non vengono prese in considerazione dagli organi ispettivi comunicazioni effettuate per vie diverse.

  • Cosa succede in caso di malfunzionamento del servizio informatico?

Il Decreto Ministeriale 27 marzo 2013 al comma 6 dell’articolo 4 prevede che in caso di malfunzionamento del servizio informatico di cui alla precedente lettera c), i soggetti abilitati possano adempiere agli obblighi inviando, nei termini previsti dalla legge, il Modello “UNI-intermittente” al numero di fax della competente Direzione territoriale del lavoro.

In tal caso, il datore di lavoro dovrà conservare la copia del fax unitamente alla ricevuta di malfunzionamento rilasciata direttamente dal servizio informatico.

Questa comunicazione serve esclusivamente per attestare agli organi di vigilanza la buona fede del datore di lavoro e la circostanza che l’inosservanza dei termini è stata determinata da un oggettivo impedimento.

  • È possibile annullare la comunicazione?

Le comunicazioni effettuate con le modalità precedentemente descritte possono essere annullate secondo quanto chiarito con circ. n. 20/2012.

L’annullamento può essere effettuato esclusivamente tramite e-mail da indirizzare all’indirizzo PEC di cui alla precedente lettera a) ovvero riprendendo il modello on line precedentemente inviato, avendo cura di selezionare le prestazioni già comunicate da annullare nonché il tasto “annullamento”.

  • Disciplina speciale per i lavoratori dello spettacolo

Le aziende che intendono utilizzare con contratto di lavoro intermittente i lavoratori di cui al Decreto Legislativo del Capo provvisorio dello Stato 16 luglio 1947, n. 708 adempiono all’obbligo in esame con la presentazione del c.d. “certificato di agibilità” di cui all’articolo 10 dello stesso decreto provvisorio del capo dello stato del 1947. Utilizzando la cooperazione applicativa già funzionante tra Enpals e il Ministero del lavoro tali comunicazioni vengono rese disponibili altresì agli uffici del predetto Ministero.

  • Trasferimento dei dati

Il Ministero riceve la comunicazione e mette a disposizione le informazioni relative alle chiamate di lavoro intermittente, effettuate con le modalità descritte nei paragrafi precedenti, alle Direzioni territoriali del lavoro attraverso i propri servizi di rete interna nonché agli ispettorati del lavoro ubicati presso le Regioni e Province Autonome che hanno “regionalizzato” tali funzioni, attraverso il sistema di cooperazione applicativa.

  • Sanzioni

In caso di violazione dell’obbligo di comunicazione si applica la sanzione amministrativa da euro 400 ad euro 2.400 in relazione a ciascun lavoratore per cui è stata omessa la comunicazione.

Si tenga presente che non si applica la procedura di diffida di cui all’articolo 13 del decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124.

Sul punto va altresì evidenziato che il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, con la circolare del 22 aprile 2013, ha chiarito che “la sanzione in esame trova applicazione con riferimento ad ogni lavoratore e non invece per ciascuna giornata di lavoro per la quale risulti inadempiuto l’obbligo comunicazionale. In sostanza, per ogni ciclo di 30 giornate che individuano la condotta del trasgressore, trova applicazione una sola sanzione per ciascun lavoratore”.

Dottoressa Anna Chiara Monti

Coronavirus

Lavoro agile nella PA, primi risultati e indicazioni sulla gestione post – pandemia

Come è accaduto nel settore privato, così anche nel pubblico impiego si è assistito, durante l’emergenza pandemica, ad un ricorso massiccio allo smart working come modalità di esecuzione della prestazione di lavoro, che garantisse continuità del servizio salvaguardando la sicurezza dei cittadini.

Sul piano normativo, la disciplina applicata è la legge 81/2017, in quanto compatibile e fatta salva l’applicazione delle diverse disposizioni specificamente previste, in accordo con le direttive per la promozione della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, adottate in base all’art. 14 della L. 124/2015.

Si è altresì previsto (art. 263 del D.L. 34/2020) che le pubbliche amministrazioni elaborassero entro il 31 gennaio di ciascun anno, il Piano organizzativo del lavoro agile (POLA), e che almeno il 15 per cento del personale potesse avvalersi della modalità agile per lo svolgimento della prestazione lavorativa[1].

A tal fine, il Ministro per la pubblica amministrazione ha approvato, con decreto del 9 dicembre 2020 le Linee guida che indirizzano le pubbliche amministrazioni nella redazione del suddetto Piano. I contenuti minimi richiesti sono “I) Livello di attuazione e di sviluppo del lavoro agile (da dove si parte?); II) Modalità attuative (come attuare il lavoro agile?); III) Soggetti, processi e strumenti del lavoro agile (chi fa, che cosa, quando e come per attuare e sviluppare il lavoro agile?); IV) Programma di sviluppo del lavoro agile (come sviluppare il lavoro agile?) “[2]

Quanto ai soggetti coinvolti, un ruolo fondamentale nella definizione dei contenuti del POLA è svolto dai dirigenti come promotori dell’innovazione organizzativa. Questa richiede un importante cambiamento di stile manageriale e di leadership, caratterizzato dalla capacità di lavorare e far lavorare per obiettivi, spostando l’attenzione dal controllo alla responsabilità per i risultati.

I dirigenti sono chiamati altresì a operare un monitoraggio mirato e costante, in itinere ed ex-post, basato sul raggiungimento degli obiettivi fissati e alla verifica del riflesso sull’efficacia e sull’efficienza dell’azione amministrativa.

Com’è andata

Per valutare il fenomeno sul piano quantitativo, il Dipartimento della funzione pubblica ha avviato il monitoraggio dello stato di attuazione del lavoro agile nelle pubbliche amministrazioni, e a tal fine sono stati istituiti l’Osservatorio nazionale del lavoro agile nelle pubbliche amministrazioni (art. 263, co. 3-bis, del D.L. 34/2020) e una Commissione tecnica di supporto (DM del 20 gennaio 2021).

L’ultimo monitoraggio disponibile risale ad aprile 2020 e costituisce una rilevazione dell’ampio utilizzo della modalità di lavoro agile durante il periodo pandemico.

L’ISTAT invece, in tempi più recenti, ha effettuato una valutazione dell’impatto della modalità di lavoro agile sulla qualità del servizio reso, misurato sulla base del grado di soddisfazione degli utenti nel periodo maggio 2020 – gennaio 2022[3].

Stando alla rilevazione, la maggioranza delle persone che si è rivolta ad un ufficio pubblico (65,2%) nel periodo preso in considerazione, non ha ravvisato cambiamenti nella qualità di almeno uno dei servizi ricevuti rispetto al periodo pre-pandemico, mentre un cittadino su quattro (25,6%), ha lamentato un peggioramento in almeno una delle circostanze in cui si è rivolto alla PA. Una quota più bassa (13%) ha notato invece un miglioramento.

Focalizzando l’attenzione su quanti si sono rivolti ad un solo ufficio pubblico, il 20,9% ha riscontrato un peggioramento, il 9,8% un miglioramento, e resta fortemente maggioritaria la quota di quanti non rilevano cambiamenti (64,8%). Il 4,5% ha avuto difficoltà a esprimere un giudizio. Tuttavia, tra quanti hanno lamentato un peggioramento, il 62,1% si è dichiarato comunque soddisfatto (a fronte del 37,9% di non soddisfatti), quindi si è tratto di un peggioramento che nella maggior parte dei casi non ha inficiato la soddisfazione degli utenti.

Ai cittadini che si sono dichiarati complessivamente insoddisfatti o hanno riscontrato un peggioramento nel servizio, sono stati proposti anche quesiti mirati a capire se le criticità riscontrate dipendessero, a loro parere, dall’adozione del lavoro a distanza e, dunque, dalla minore presenza di dipendenti negli uffici di interesse.

I rispondenti si sono distribuiti in maniera omogenea tra le opzioni date: per il 31,4% i problemi c’erano anche prima dell’adozione del lavoro a distanza, per il 31,2% il lavoro a distanza è una concausa, per il 28,6% invece il disservizio è causato esclusivamente dal lavoro a distanza. L’8,8% non è stato in grado di esprimere un’opinione in merito.

Non sono emerse differenze significative in base alle variabili socio-demografiche né in base ai canali di accesso ai servizi.

Rientro in presenza dei dipendenti pubblici

Un anno fa, con il DPCM del 23 settembre 2021, è stato sancito che, a decorrere dal 15 ottobre 2021, la modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa nelle amministrazioni pubbliche sarebbe tornata ad essere quella svolta in presenza. Le amministrazioni sarebbero comunque state chiamate ad assicurare il rispetto delle misure sanitarie di contenimento del rischio di contagio da Covid-19.

Il rientro in presenza del personale delle pubbliche amministrazioni è stato disciplinato con il decreto del Ministro per la pubblica amministrazione 8 ottobre 2021, che ha individuato le condizionalità ed i requisiti necessari per utilizzare il lavoro agile, e dalle “linee guida” che hanno ad oggetto l’obbligo di esibizione del Green pass e le modalità di controllo del rispetto di esso.

Il quadro regolatorio è stato completato dal Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale siglato a Palazzo Chigi il 10 marzo 2021, dal Contratto collettivo sottoscritto tra Aran e parti sociali il 21 dicembre 2021, che del lavoro agile nel pubblico impiego ha individuato caratteristiche, modalità, limiti e tutele.

Ai sensi della definizione data dal contratto collettivo, “Il lavoro agile di cui alla legge n. 81/2017 è una delle possibili modalità di effettuazione della prestazione lavorativa per processi e attività di lavoro, previamente individuati dalle amministrazioni, per i quali sussistano i necessari requisiti organizzativi e tecnologici per operare con tale modalità.”[4] conseguentemente, la disciplina della modalità lavorativa contiene i tratti salienti di quella applicata nel settore privato.

L’adesione al lavoro agile ha natura consensuale e volontaria ed è consentita a tutti i lavoratori, fermo restando che l’amministrazione individua le attività che possono essere effettuate in modalità agile. L’amministrazione, altresì, “avrà cura di facilitare l’accesso al lavoro agile ai lavoratori che si trovino in condizioni di particolare necessità, non coperte da altre misure.”[5]

L’accordo individuale, stipulato per iscritto ai fini della regolarità amministrativa e della prova, disciplina l’esecuzione della prestazione lavorativa svolta all’esterno dei locali dell’amministrazione, anche con riguardo alle forme di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro e agli strumenti utilizzati dal lavoratore, che di norma vengono forniti dall’amministrazione.

Quanto all’orario di lavoro, e al diritto alla disconnessione, si prevede che la prestazione lavorativa in modalità agile si articoli in due fasce temporali:

  1. a) fascia di contattabilità – nella quale il lavoratore è contattabile sia telefonicamente che via mail o con altre modalità similari, la cui durata non può essere superiore all’orario medio giornaliero di lavoro;
  2. b) fascia di inoperabilità – nella quale il lavoratore non può erogare alcuna prestazione lavorativa. Tale fascia comprende il periodo di 11 ore di riposo consecutivo di cui all’art. 17, comma 6, del CCNL 12 febbraio 2018 a cui il lavoratore è tenuto nonchè il periodo di lavoro notturno tra le ore 22:00 e le ore 6:00 del giorno successivo.

Viene sancito il diritto alla disconnessione; pertanto, negli orari al di fuori della fascia a), egli non è tenuto ad avere contatti con i colleghi o con il dirigente per lo svolgimento della prestazione lavorativa, a leggere e rispondere a e-mail e messaggi, a rispondere alle chiamate, ad accedere al sistema informativo dell’Amministrazione.

Per quanto riguarda i lavoratori fragili, invece, il Dipartimento della Funzione pubblica ha precisato che la flessibilità per l’utilizzo del lavoro agile per il pubblico impiego, già presente all’interno della circolare del 5 gennaio 2022, sarà disponibile anche dopo il 30 giugno 2022, per garantire ai lavoratori fragili della PA la più ampia fruibilità di questa modalità di svolgimento della prestazione lavorativa. Sarà quindi il dirigente responsabile a individuare le misure organizzative che si rendono necessarie, anche derogando, ancorché temporaneamente, al criterio della prevalenza dello svolgimento della prestazione lavorativa in presenza.

A cura della dott.ssa Laura Angeletti
Centro Studi Corrado Rossitto di UNIONQUADRI

[1] percentuale così ridotta dall’art. 11-bis del D.L. 52/2021, in luogo dell’originario 60 per cento

[2] LINEE GUIDA SUL PIANO ORGANIZZATIVO DEL LAVORO AGILE (POLA) E INDICATORI DI PERFORMANCE (Art. 14, comma 1, legge 7 agosto 2015, n. 124, come modificato dall’articolo 263, comma 4 bis, del decreto legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77)

[3] Rapporto ISTAT  “CITTADINI E LAVORO A DISTANZA NELLA PA DURANTE LA PANDEMIA | MAGGIO 2020 – GENNAIO 2022”

[4] CONTRATTO COLLETTIVO NAZIONALE DI LAVORO DEL PERSONALE DEL COMPARTO FUNZIONI CENTRALI TRIENNIO 2019 – 2021, Art. 36, comma 1

[5] CONTRATTO COLLETTIVO NAZIONALE DI LAVORO DEL PERSONALE DEL COMPARTO FUNZIONI CENTRALI TRIENNIO 2019 – 2021, Art. 37, comma 3

2] LINEE GUIDA SUL PIANO ORGANIZZATIVO DEL LAVORO AGILE (POLA) E INDICATORI DI PERFORMANCE (Art. 14, comma 1, legge 7 agosto 2015, n. 124, come modificato dall’articolo 263, comma 4 bis, del decreto legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77)

[3] Rapporto ISTAT  “CITTADINI E LAVORO A DISTANZA NELLA PA DURANTE LA PANDEMIA | MAGGIO 2020 – GENNAIO 2022”

[4] CONTRATTO COLLETTIVO NAZIONALE DI LAVORO DEL PERSONALE DEL COMPARTO FUNZIONI CENTRALI TRIENNIO 2019 – 2021, Art. 36, comma 1

[5] CONTRATTO COLLETTIVO NAZIONALE DI LAVORO DEL PERSONALE DEL COMPARTO FUNZIONI CENTRALI TRIENNIO 2019 – 2021, Art. 37, comma 3

Lvoro precario

Collaborazioni etero organizzate dal committente

La norma

  1. A far data dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro prevalentemente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche digitali.10
  2. La disposizione di cui al comma 1 non trova applicazione con riferimento:
    a) alle collaborazioni per le quali gli accordi collettivi nazionali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale prevedono discipline specifiche riguardanti il trattamento economico e normativo, in ragione delle particolari esigenze produttive ed organizzative del relativo settore;
    b) alle collaborazioni prestate nell’esercizio di professioni intellettuali per le quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi professionali;
    c) alle attività prestate nell’esercizio della loro funzione dai componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società e dai partecipanti a collegi e commissioni;
    d) alle collaborazioni rese a fini istituzionali in favore delle associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate alle federazioni sportive nazionali, alle discipline sportive associate e agli enti di promozione sportiva riconosciuti dal C.O.N.I., come individuati e disciplinati dall’articolo 90 della legge 27 dicembre 2002, n. 289;7 8 12
    d-bis)  alle collaborazioni prestate nell’ambito della produzione e della realizzazione di spettacoli da parte delle fondazioni di cui al decreto legislativo 29 giugno 1996, n. 367; 5
    d-ter)  alle collaborazioni degli operatori che prestano le attività di cui alla legge 21 marzo 2001, n. 74 9.
  3. Le parti possono richiedere alle commissioni di cui all’articolo 76 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, la certificazione dell’assenza dei requisiti di cui al comma 1. Il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da un avvocato o da un consulente del lavoro.
  4. La disposizione di cui al comma 1 non trova applicazione nei confronti delle pubbliche amministrazioni. 6

Commento

  1. Tertium genus?

La norma richiamata, così come risultante dalla modifica di cui al d.l. 101/2019, conduce immediatamente l’attenzione sulla riflessione relativa alla dicotomia tra autonomia e subordinazione nel diritto del lavoro italiano.

Già in passato, con l’introduzione delle collaborazioni continuate e continuative, e, in seguito, delle collaborazioni a progetto, la demarcazione tra le due fattispecie diventava più sfumata, e si introduceva il concetto di “area grigia” tra le due categorie; questo, comunque, non ha mai condotto all’avallo, né nella dottrina, né nella giurisprudenza, della costruzione teorica di un tertium genus tra autonomia e subordinazione.

In tale dibattito, la norma in esame costituisce un punto di snodo, in quanto prevede l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato alle collaborazioni personali e continuative in cui le modalità di esecuzione della prestazione sono organizzate dal committente (c.d. collaborazioni etero-organizzate).

Rispetto ad essa, la recente pronuncia 1663/2020 della Corte di Cassazione ha fornito indicazioni rilevanti per posizionare la fattispecie all’interno della dialettica tra subordinazione e autonomia e interpretarla correttamente. La sentenza ha ad oggetto la conferma dell’applicabilità dell’art. 2, c. 1, e dunque della disciplina del lavoro subordinato, ai rapporti di lavoro dei ciclofattorini di Foodora e contiene chiarimenti su una serie punti critici sollevati dalla norma.

L’argomentazione inizia con una sintesi dei principali approdi raggiunti nel tempo dalla dottrina riguardo l’interpretazione dell’articolo 2 comma 1, che si ritiene utile riportare:

a) una prima via, che segue inevitabilmente il metodo qualificatorio, preferibilmente nella sua versione tipologica, è quella di riconoscere alle prestazioni rese dai lavoratori delle piattaforme digitali i tratti della subordinazione, sia pure ammodernata ed evoluta;

b) una seconda immagina l’esistenza di una nuova figura intermedia tra subordinazione e autonomia, che sarebbe caratterizzata dall’eteroorganizzazione e che troverebbe nell’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 81 del 2015 il paradigma legale (teoria del tertium genus o del lavoro etero-organizzato);

c) la terza possibilità è quella di entrare nel mondo del lavoro autonomo, dove tuttavia i modelli interpretativi si diversificano notevolmente essendo peraltro tutti riconducibili nell’ambito di una nozione ampia di parasubordinazione;

d) infine, vi è l’approccio “rimediale”, che rinviene in alcuni indicatori normativi la possibilità di applicare una tutela “rafforzata” nei confronti di alcune tipologie di lavoratori (quali quelli delle piattaforme digitali considerati “deboli”), cui estendere le tutele dei lavoratori subordinati.”

Tra questi orientamenti, la Corte accoglie apertamente l’ultimo, affermando che l’intento del legislatore, quasi in un’ottica di riequilibrio dopo la soppressione delle collaborazioni a progetto, sia stato quello di individuare indici fattuali (personalità, continuità, etero-organizzazione)  tipici di situazioni di debolezza economica e contrattuali tale da meritare l’applicazione della disciplina della subordinazione, in maniera quasi automatica, e cioè “esonerando da ogni ulteriore indagine il giudice che ravvisi la concorrenza di tali elementi nella fattispecie concreta e senza che questi possa trarre, nell’apprezzamento di essi, un diverso convincimento nel giudizio qualificatorio di sintesi».

Per l’individuazione di tali indici fattuali, la sentenza definisce il parametro della etero – organizzazione, in termini di «elemento di un rapporto di collaborazione funzionale con l’organizzazione del committente, così che le prestazioni del lavoratore possano, secondo la modulazione unilateralmente disposta dal primo, opportunamente inserirsi ed integrarsi con la sua organizzazione d’impresa». La nozione, quindi, differisce dal coordinamento espresso dall’ all’art. 409, n. 3, c.p.c in quanto quest’ultimo è stabilito di comune accordo dalle parti, mentre nel caso in esame «è imposto dall’esterno, appunto etero-organizzato».

Attenta dottrina[1] ha delineato la differenza concettuale che sussiste tra questa nozione e quella della etero direzione, tipica della subordinazione: mentre quest’ultima è intrinseca al contratto e allo scambio con il salario, la eteroorganizzazione della prestazione è un elemento esterno rispetto alla struttura del contratto, in cui il lavoratore è, sì, tenuto ad adeguare la propria attività alla organizzazione del committente, ma il committente non ha il potere di conformare la prestazione mediante le proprie direttive.

La distanza tra la fattispecie in esame e il lavoro subordinato pone un interrogativo su come la legge applichi la disciplina del lavoro subordinato ad un lavoratore assoggettato al potere organizzativo ma non a quello direttivo. L’operazione è stata spiegata dalla dottrina nei termini di un allentamento dei «vincoli tipologici che presiedono alla dinamica fattispecie-effetti»[2] o, più direttamente, di separazione della fattispecie dagli effetti, in forza di una esigenza rimediale, cioè quella che la Corte afferma espressamente di adottare.

Questo significa che, posto che all’origine di una collaborazione etero-organizzata è ipotizzabile la stipulazione di un contratto di lavoro non subordinato, l’art. 2 prende in considerazione non un contratto, ma un rapporto di lavoro nei suoi caratteri fattuali, che presentino le caratteristiche della etero-organizzazione unilateralmente imposta dal “committente”. Questo carattere del rapporto di lavoro, evidentemente, viene ritenuto tanto equivalente alla dipendenza del lavoratore subordinato, da legittimare l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato ad un rapporto non etero diretto.

Questa lettura risulta confermata da diversi passaggi della motivazione della sentenza, ad esempio quello in cui si afferma che “quando l’etero-organizzazione accompagnata dalla personalità e dalla continuità della prestazione rende il collaboratore comparabile ad un lavoro dipendente, si impone una protezione equivalente e quindi il rimedio dell’applicazione integrale della disciplina del lavoro subordinato”[3] e che non ha “decisivo senso interrogarsi sul se tali forme di collaborazione, […] siano collocabili nel campo della subordinazione ovvero dell’autonomia, perché ciò che conta è che per esse, in una terra di mezzo dai confini labili, l’ordinamento ha statuito espressamente l’applicazione delle norme sul lavoro subordinato, disegnando una norma di disciplina” e, dunque, non risulta necessario neanche inquadrare la fattispecie in un tertium genus.

“Più semplicemente, al verificarsi delle caratteristiche delle collaborazioni individuate dall’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 81 del 2015, la legge ricollega imperativamente l’applicazione della disciplina della subordinazione. Si tratta, come detto, di una norma di disciplina, che non crea una nuova fattispecie.”[4]

  1. Quale disciplina applicabile?

In ordine al distinto problema della disciplina concretamente applicabile alle collaborazioni etero organizzate, è – nuovamente – opportuno prendere le mosse da quanto affermato dalla Corte, che, al punto 40, non esclude la applicabilità in via generale della disciplina del lavoro subordinato, in quanto «la norma non contiene alcun criterio idoneo a selezionare la disciplina applicabile» e che «in passato, quando il legislatore ha voluto assimilare o equiparare situazioni diverse al lavoro subordinato, ha precisato quali parti della disciplina della subordinazione dovevano trovare applicazione». Tuttavia, al punto 41 precisa invece che «Non possono escludersi situazioni in cui l’applicazione integrale della disciplina della subordinazione sia ontologicamente incompatibile con le fattispecie da regolare, che per definizione non sono comprese n Corte di Cassazione nell’ambito dell’art. 2094 cod. civ., ma si tratta di questione non rilevante nel caso sottoposto all’esame di questa Corte.».

Da una analisi testuale della norma emerge che essa stessa, in realtà, circoscrive la portata dell’applicabilità della disciplina del lavoro subordinato alle collaborazioni etero organizzate, dal momento che, al comma 2, si legge che la disposizione di cui al comma 1«non trova applicazione con riferimento: a) alle collaborazioni per le quali gli accordi collettivi nazionali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale prevedono discipline specifiche riguardanti il trattamento economico e normativo, in ragione delle particolari esigenze produttive ed organizzative del relativo settore».

Da questo si evince chiaramente la natura derogabile della disciplina del lavoro subordinato applicabile alle collaborazioni, ben diversa da quella, imperativa, che caratterizza le norme dettate a protezione dei lavoratori subordinati. Tale derogabilità viene accordata «in ragione delle particolari esigenze produttive ed organizzative del relativo settore», che non vengono ulteriormente circostanziate.

Posta questa differenza in termini di categorie generali, cercando di individuare quali siano i tratti della disciplina del lavoro subordinato incompatibili con il contratto di collaborazione etero-organizzata si può fare riferimento, in mancanza di indicazioni ulteriori,  alle norme relative all’esercizio di poteri datoriali che non siano quello organizzativo – l’unico al quale è sottoposto il collaboratore – come il potere direttivo e di conformazione di cui all’art. 2103 c.c., o il potere di controllo riconosciuto al datore di lavoro nei confronti del dipendente.

Proseguendo nell’analisi, il riferimento contenuto al comma 2 ai “trattamenti economici e normativi” non è sufficiente a ritenere estensibile ai collaboratori il trattamento contenuto nel contratto collettivo applicato dal datore di lavoro ai lavoratori dipendenti; in ogni caso, si ritiene applicabile l’art. 36 Cost. e, di conseguenza, il diritto alla retribuzione sufficiente mutuabile dal contratto collettivo nazionale di categoria.

Dott.ssa Laura Angeletti – Dottore di ricerca

 

[1] M.V. BALLESTRERO, La dicotomia autonomia/subordinazione. Uno sguardo in prospettiva, in LLI, I, Vol. 6, No. 2, 2020

[2] A. PERULLI, Il diritto del lavoro “oltre la subordinazione”: le collaborazioni etero-organizzate e le tutele minime per i riders autonomi, WP CSDLE, It. n. 410/2020.

[3] Cassazione, al par. 26 della sentenza Foodora

[4] Sul dibattito tra la configurazione come norma di fattispecie oppure di disciplina si vedano F. MARTELLONI, Le collaborazioni etero-organizzate al vaglio della Cassazione: un allargamento del raggio d’azione della tutela giuslavoristica, in LLI, 2020, 1, a p. 9; R. DEL PUNTA, Diritto del lavoro, Giuffrè, p. 371; A. PERULLI, Il lavoro autonomo, le collaborazioni coordinate e le prestazioni organizzate dal committente, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT – 272/2015; A. ZOPPOLI, La collaborazione eterorganizzata, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona” .IT – 296/2016, p. 6; A. OCCHINO, Autonomia e subordinazione nel d.lgs. n. 81/2015, in Var. Temi DL, 2016, 2, 203 ss., spec. P. 211 e 240; S. CIUCCIOVINO, Le «collaborazioni organizzate dal committente» nel confine tra autonomia e subordinazione, in RIDL., 2016, I, 3, p. 321; P. TOSI, in Le collaborazioni organizzate dal committente nel “decreto crisi”, http://csdle.lex.unict.it/.

Il contratto a termine stagionale. Vantaggi ed ammissibilità.

Il DLGS 81/2015 dopo le modifiche apportate dal C.D. decreto dignità DL 87/2018 impone limiti alquanto ristretti alla stipula di contratti a termine.

Interviene infatti l’articolo 19 del DLGS 81/2015 come novellato dal DL 87/2018 il quale impone stringenti limiti di forma e di sostanza per la stipula di contratti a termine della durata superiore a 12 mesi.

La norma conosce una eccezione mediante la previsione di attività stagionali con un rinvio al successivo articolo 21 comma 2  il quale prevede i requisiti di legge necessari per le proroghe e stabilisce contestualmente come i contratti per attività stagionali dette limitazioni non trovino applicazione.

Ciò significa in concreto che il termine massimo di ventiquattro mesi introdotto dal DL n.87/2018 non trova applicazione per i contratti stagionali.

Non interessano i contratti stagionali neppure i limiti percentuali.

Non trovano neppure applicazione le norme in tema di pause tra un contratto e l’altro, né i limiti sulle proroghe a meno che introdotti dalla contrattazione collettiva.

­A questo punto, le parti sociali si sono prodotte nella ricerca dei più ampli spazi dove individuare le attività stagionali.

Sul punto, il DLGS 81/2015 all’articolo 51 delega alla contrattazione collettiva anche aziendale anche l’individuazione dei contratti stagionali oltre che ad un decreto ministeriale. Ad oggi l’unico decreto in materia è dato dal DPR 1525/1963 le cui definizioni appaiono alquanto datate.

Si poneva quindi l’interrogativo se tale datato DPR risalente al 1963 sia l’unico definitore delle attività stagionali o se esso vi concorre assieme alla contrattazione collettiva e ciò anche dopo l’emanazione del nuovo provvedimento definitorio indicato dalla legge.

Sul punto è intervenuta una recente nota protocollo n.1733 del 10 marzo 2021 dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro che fornisce interessanti chiarimenti.

Il provvedimento conferma come le deroghe alla disciplina del contratto a termine stabilite per le attività stagionali dagli artt. 19 e ss. del DLGS n. 81/2015 trovano applicazione anche in riferimento alle ipotesi di stagionalità individuate dal CCNL di settore.

Lo stesso provvedimento ammette la possibilità di concludere contratti a tempo indeterminato per le imprese turistiche che abbiano, nell’anno solare, un periodo di inattività non inferiore a settanta giorni continuativi o a centoventi giorni non continuativi ai sensi del D.P.R. n. 1525/1963.

Ritiene l’organo ispettivo del Ministero del Lavoro come il richiamo ai decreti che individuano le attività stagionali vada ad integrarsi con le disposizioni della contrattazione collettiva.

Va ricordato in proposito, come spesso la contrattazione collettiva abbia utilizzato un concetto molto lato di definizione della stagionalità comprendendo anche imprese che operano nel corso dell’intero a’no e che comunque si trovano ad affrontare improvvisi incrementi di produttività ( vedasi in proposito l’avviso comune sulla stagionalità firmato da CGIL, CISL,UIL, nel settore alberghiero).

Fabio Petracci.

Convegno: IL LAVORO AGILE. Misure di emergenza o nuova flessibilità?

Di Seguito l’intervento dell’avvocato Fabio Petracci:

  1. Le ragioni dell’omissione della contrattazione collettiva come fonte regolatrice, dimenticanza o novità?

Nell’ambito della disciplina del lavoro agile (Legge 81/2017) un ruolo importante è attribuito alla contrattazione individuale.

Esamineremo la delimitazione e le conseguenze di questa preminenza, se tale si può definire, del contratto individuale.

Assume in ogni caso rilevanza nell’ordinamento del lavoro il principio dell’autonomia contrattuale individuale riconducibile all’articolo 1322 del codice civile.

Se ben guardiamo, la contrattazione collettiva ha addirittura anticipato la disciplina individuale sancita dalla legge 81/2017.In effetti, il lavoro agile ha trovato una certa diffusione anche per il tramite della contrattazione collettiva. Alcuni contratti disciplinavano il lavoro agile già prima che la disciplina legale entrasse in vigore. Si trattava però di discipline aventi per lo più carattere sperimentale ed alquanto limitative in tema di organizzazione del lavoro agile.

Ciononostante, il testo della legge 81/2017 che disciplina il lavoro agile prevede l’accordo individuale come forma regolatrice del rapporto. ( articolo 18, comma 1, legge 81/2017). Ne individueremo le ragioni.

Che non si tratti di una svista lo rivela lo stesso comma 1 dell’articolo 18 che prevede la possibilità di organizzare tale tipologia di lavoro con formedi organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario e di luogo di lavoro.

Difficilmente inoltre, una previsione collettiva e quindi generale può disciplinare un rapporto contrattuale senza vincoli di orario e luogo di lavoro, tesa al raggiungimento di un delicato e equilibrio tra esigenze personali ed aziendali, in quanto alla regola generale e collettiva valevole per tutti è destinata a sostituirsi una disciplina che segue mutevoli e non sempre standardizzate esigenze individuali ed aziendali.

Rafforza questa lettura e questa esigenza il fatto che scopo di questa particolare forma di lavoro è quella di incrementare la competitività e contemporaneamente di agevolare la conciliazione dei tempi di vita con quelli di lavoro.

In pratica si tratta di una forma di flessibilità diversa da quelle sin d’ora esaminate, in quanto non rivolta esclusivamente a sostenere le esigenze aziendali e quelle della piena occupazione, ma volta invece a conciliare esigenze del lavoratore variabili e quindi di volta in volta individuate con lo svolgimento della prestazione, adattando così quest’ultima alle esigenze del prestatore e ricavandone in forza della soddisfazione di quest’ultimo una prestazione migliore.

Più che di flessibilità forse enfatizzando un poco potremmo parlare della liberazione delle energie lavorative dei soggetti della produzione.

Dopo queste considerazioni non possiamo ritenere che con l’introduzione del lavoro agile sia stata effettuata una conversione totale a favore dell’autonomia collettiva, in quanto, come vedremo il lavoro agile nel suo svolgimento, si pone una duplice serie di limiti.

 Il primo limite è dato dalle norme di legge vigenti ed in particolare di quelle attinenti il lavoro agile (legge 81/2017) in forza delle quali, si evita lo stravolgimento dell’istituto in sede di contrattazione collettiva. Il secondo limite, come vedremo, è dato dai riferimenti alla contrattazione collettiva valevoli per ogni rapporto di lavoro in tema di orario e retribuzione.

Il primo limite richiamato è dato dal secondo periodo del primo comma dell’articolo 18 della legge 81/2017 laddove è previsto che la prestazione lavorativa venga eseguita entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva.

Ciò appare particolarmente significativo, dal momento che il DLGS 66/2003 all’articolo 17, comma 5, esclude dai limiti di durata massima le prestazioni rese nell’ambito di rapporti di lavoro a domicilio e di telelavoro e risultando difficile includervi anche il lavoro agile, stante i richiami alle norme di legge in tema di lavoro agile operate dall’articolo 18 della legge 81/2017.

Sul piano retributivo e normativo, poi, l’articolo 20 comma 1 della legge 18/2017 impone il diritto per il lavoratore ad un trattamento economico e normativo non inferiore a quello complessivamente applicato ai lavoratori che svolgono la propria prestazione esclusivamente all’interno dell’azienda, in attuazione dei contratti collettivi di cui all’articolo 51 del DLGS 81/2015. Si tratta dei contratti collettivi stipulati dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative. Quindi il riferimento va a fonti contrattuali ben qualificate.

Di conseguenza l’autonomia individuale incontra da una parte dei limiti legali inderogabilmente fissati inerenti la forma ed il contenuto del patto di lavoro agile, le ragioni del recesso, gli obblighi in materia di salute e sicurezza, le modalità di controllo della prestazione, l’esercizio del potere disciplinare, la durata massima della prestazione, la parità di trattamento e normativa, nonché gli ulteriori limiti assunti in sede collettivi.

Nella realtà, si è verificato quanto forse presente al legislatore, la contrattazione collettiva appare più attenta alla determinazione del luogo della prestazione, che alle modalità organizzative della stessa. In tal modo la contrattazione collettiva appare poco agile e funzionale alle esigenze delle parti lavoratori ed aziende individuando per lo più un minimale di presenza del lavoratore all’interno dell’azienda, con un orario giornaliero corrispondente a quello comunemente applicato, entro determinate fasce orarie e con la garanzia del diritto alla disconnessione, rendendo effettivo il diritto alla formazione permanente.  Scarso è invece l’intervento in tema di autonomia individuale ed organizzativa consistente in fasi cicli ed obiettivi e senza precisi vincoli di orario con l’utilizzo di strumenti tecnologici.

L’impatto propulsivo dell’autonomia individuale consiste invece, non tanto nel contrapporsi alla disciplina collettiva, quanto piuttosto di pervenire ad un equilibrio tra esigenze aziendali ed esigenze privato – individuale, in cambio di una maggiore produttività.

Se questo sarà l’effetto primario dell’accordo individuale, sotto un aspetto maggiormente evoluto e meno immediato, si confida che una maggior libertà di organizzazione e di vita favorisca non solo una maggiore produttività, ma anche, da parte delle categorie maggiormente professionalizzate, una maggiore creatività.

Ci si chiede se, una volta determinato ed ampliato lo spazio di autonomia individuale, ed una volta scalfito il solido paradigma dell’unità di luogo tempo ed azione nello svolgimento dell’attività lavorativa, possa ancora parlarsi di un concetto unitario di subordinazione grazie all’attenuazione o meglio contrattazione del potere direttivo, determinandosi così una tipologia speciale di lavoro subordinato in linea con quanto in precedenza attuato mediante l’articolo 2 del DLGS 81/2015 che estende la disciplina del lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro prevalentemente personali continuative e le cui modalità siano organizzate dal committente.

Da ultimo, affronteremo, seppure sommariamente, i problemi pratici ed immediati che si possono presentare all’operatore del diritto che sono di seguito individuati:

  1. Il potenziale conflitto tra accordo collettivo e accordo individuale laddove azienda e lavoratore trovino in tema di modalità organizzative del lavoro, fatti salvi i limiti di legge e di contratto collettivo, soluzioni conflittuali con la disciplina collettiva del lavoro agile.
  2. Il potenziale conflitto tra norme disciplinari comuni determinate dalla contrattazione collettiva e norme disciplinari individuali individuate in sede di contrattazione individuale del lavoro agile;
  3. Le difficoltà nella concreta applicazione di pattuizioni concernenti la retribuzione nelle prestazioni organizzate per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario.

LAVORO DEI RIDERS TRA QUALIFICAZIONE GIURIDICA, FATTISPECIE PENALI E “COOPERATIVISMO DI PIATTAFORMA”

In un mondo del lavoro in trasformazione, le tradizionali categorie di sussunzione e
inquadramento sono fortemente in tensione, lungo le crepe che già si erano aperte negli ultimi
decenni. In particolare, vuoi per la forte visibilità, anche mediatica, dei lavoratori coinvolti,
vuoi per la forza delle istanze rivendicative espresse, il lavoro nel food delivery ha attirato
l’attenzione del legislatore e della giurisprudenza, riportando viva l’attenzione sulla tematica,
di ordine più generale, del lavoro eseguito nell’ambito della c.d. economia delle piattaforme.
Sul fronte legislativo si segnala il recente d.l. n. 101/2019, meglio noto come “decreto
imprese”, convertito in l. n. 128/2019, che ha introdotto nell’ordinamento disposizioni
specifiche destinate ai riders, inquadrando il relativo rapporto di lavoro nell’ambito delle
collaborazioni etero-organizzate di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 81/2015 e recependo in tal modo
quanto affermato dalla Corte di Appello di Torino con la nota sentenza del 4 febbraio 2019.
Il decreto ha modificato l’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 81/2015, che adesso recita: “A far data
dal 1 gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai
rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro prevalentemente
personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente. Le
disposizioni di cui al presente comma si applicano anche qualora le modalità di esecuzione
della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche digitali”.
L’ultimo periodo della disposizione in commento induce a ritenere che il legislatore abbia
specificato una possibilità di applicazione della disposizione alla casistica dei lavoratori
dell’economia delle piattaforme digitali. In realtà, dalla lettura del capo V- bis, “Tutela del
lavoro tramite piattaforme digitali”, aggiunto al decreto 81/2015 dal d.l. 101/2019, si evince
che il rinnovato comma 2 d. lgs. 81/2015 non fa riferimento a tutti i lavoratori impegnati
nell’economia delle piattaforme, ma soltanto ai «lavoratori autonomi che svolgono attività di
consegna di beni per conto altrui, in ambito urbano e con l’ausilio di velocipedi o veicoli a
motore di cui all’articolo 47, comma 2, lettera a), del codice della strada, di cui al decreto
legislativo 30 aprile 1992, n. 285, attraverso piattaforme anche digitali» (articolo 47 bis,
comma 1, del d. lgs. n. 81/2015), aprendo una separazione tra i c.d. riders e tutti gli altri
lavoratori delle piattaforme.
Al netto della condivisibilità di questa scelta, si rileva, su un piano di tecnica normativa, che il
legislatore si è astenuto dal definire lo status giuridico della fattispecie concreta rappresentata
dai lavoratori delle piattaforme, o anche soltanto dai riders, evitando di entrare nel complesso
dibattito sulla sussunzione di questi ultimi come lavoratori subordinati oppure autonomi. Si è
invece limitato ad estendere ad un tipo di rapporto di lavoro ritenuto vulnerabile un insieme di
tutele predeterminato da un precedente intervento normativo.
Tralasciando gli effetti dirompenti che la perdita di rilevanza delle coordinate spazio – temporali ai fini della sussunzione della eteroorganizzazione può sortire sulla nozione della
subordinazione, si segnala che la Corte di Cassazione italiana con la sentenza 1663/2020 si è
orientata in maniera affatto diversa, qualificando i riders come lavoratori subordinati tout
court, alla luce di un’argomentazione che ha preso le mosse dalla nozione di dipendenza
economica.
In questo contesto, ancora non vi è stato un effettivo intervento delle parti sociali, il cui ruolo,
tuttavia, è stato ricordato anche dal legislatore, con la legge di modifica del d.lgs. 81/2015 in
relazione al tema della retribuzione. Nel momento in cui nella legge di conversione viene fatto
espresso divieto dell’impiego del cottimo, infatti, si afferma che spetta alla contrattazione
collettiva il compito di definire «criteri di determinazione del compenso complessivo che
tengano conto delle modalità di svolgimento della prestazione e dell’organizzazione del
committente» (comma 1, art. 47-quater). In assenza di tali contratti collettivi, la piattaforma
digitale dovrà riconoscere al rider «un compenso minimo orario parametrato ai minimi
tabellari stabiliti da contratti collettivi nazionali di settori affini o equivalenti sottoscritti dalle
organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale»
(comma 2, art. 47-quater, d.lgs. n. 81/2015).
Le parti, a ben vedere, si erano mosse in questo senso già prima che si fossero palesate queste
indicazioni, dal momento che il 18 luglio avevano stipulato, nel contesto della contrattazione
del settore della logistica, il c.d. accordo riders, siglato dalle datoriali Confetra; Fedit;
Assologistica; Federspedi; Confartigianato trasporti e dalle organizzazioni sindacali di
categoria Fita – CNA; Filt – CGIL; Fit – CISL e Uiltrasporti.
Questo si segnala per essere stato il primo che estende alla categoria l’applicazione in toto del
contratto collettivo della logistica, introducendo una declaratoria dedicata al lavoro dei riders,
definiti “lavoratori adibiti ad attività di logistica distributiva, comprese le operazioni
accessorie ai trasporti, attraverso l’utilizzo di cicli, ciclomotori e motocicli”. A questo profilo
professionale vengono associati livelli retributivi appositamente istituiti in aggiunta ai
preesistenti, i livelli I ed L a seconda che i lavoratori utilizzino, rispettivamente, biciclette
oppure ciclomotori e motocicli. Si tratta di retribuzioni mensili parametrate su quelle degli
altri lavoratori del settore, in ragione della maggior semplicità di guida dei mezzi utilizzati e
della mancata richiesta di qualifiche (per la figura del ciclofattorino non è richiesto il possesso
della patente B).
L’accordo, per quanto appropriato, ha trovato una scarsissima applicazione, dovuta alla
peculiare natura del mercato del lavoro in cui si colloca, che pone un rilevante problema in
tema di effettività degli accordi sindacali. I riders quasi mai si relazionano con un unico
datore di lavoro ma con un’applicazione dedicata ad una o più piattaforme i cui rappresentanti
non hanno mai partecipato alle trattative degli accordi né, conseguentemente, ne fanno
applicazione.
Un’eccezione, in questo panorama, è rappresentata dalla cooperativa di lavoro Food4me, nata
dall’idea di otto lavoratori con il supporto di CISL e Confcooperative Verona. Questa realtà,
ancora sperimentale, si ispira all’impostazione culturale e lavoristica rappresentata dal c.d.
cooperativismo di piattaforma, in circolazione già da qualche tempo con l’idea di invertire la
logica finora dominante, a favore di un sistema in cui i lavoratori gestiscono l’applicazione e
non il contrario, in modo da garantire condizioni lavorative dignitose e contrastare le
disuguaglianze economiche. Al momento tutti i soci lavoratori sono titolari di un contratto di
lavoro subordinato con retribuzione oraria e tutti gli altri istituti ad esso ascrivibili; l’orario di
lavoro, che dovrà essere articolato in base ai momenti di maggiore intensità dell’attività
commerciale, sarà probabilmente il primo tema della contrattazione di secondo livello, che si
direbbe improntata ad un clima di forte collaborazione tra le parti.
Questa realtà, meritoria, costituisce un’eccezione, in un contesto in cui la difficile esigibilità
delle tutele che pure sono state previste dall’ordinamento, conduce al sopruso e allo
sfruttamento. Questo è quanto emerge dal decreto con cui il 20 maggio il Tribunale di Milano,
sezione misure di prevenzione, ha disposto l’amministrazione giudiziaria di Uber Italy, filiale
italiana di Uber, che eroga un servizio di food delivery tramite la app “uber eats”. L’ accusa è
quella di intermediazione illecita e sfruttamento della manodopera, c.d. caporalato.
La decisione, recentissima, è la prima che ascrive una condotta penalmente rilevante alla
gestione dei lavoratori da parte delle piattaforme, e la piattaforma ha immediatamente negato
le accuse: la prima udienza è prevista per il 22 ottobre.

Dott.ssa Laura Angeletti – Dottoranda ADAPT/UniBg

Lavoro Agile, oggi una necessità, domani una opportunità.

IL LAVORO AGILE – SMART WORKING

1. Il lavoro agile (Smart Working) e il lavoro a domicilio (il telelavro): punti in comune e differenze; 2. Il lavoro agile (Smart Working) nell’attuale legislazione; 3. Contratti ed esperimenti di lavoro agile (Smart Working) già in essere. Possibilità di applicazione; 4. Punti critici: come determinare la retribuzione, controllo e potere disciplinare, riservatezza, personalità della prestazione, aspetti previdenziali; 5. Il lavoro agile (Smart Working) nel pubblico impiego: il testo unico e la normativa in materia, disposizioni contrattuali, circolari, esperienze, la normativa dell’emergenza, regolamenti degli enti pubblici.

1. Il lavoro agile (Smart Working) e il lavoro a domicilio (il telelavro): punti in comune e differenze

Il lavoro agile – o Smart Working – viene introdotto nel nostro ordinamento con la legge 22 maggio 2017 n. 81, con il fine di conciliare i tempi di vita e di lavoro e, in questo modo, di aumentare la produttività. La legge lo definisce come una modalità di prestazione del lavoro subordinato, riportante delle peculiarità delineate dalla legge stessa.

La pratica del lavoro agile porta dei vantaggi: il miglioramento della qualità della vita del lavoratore, che ha più tempo libero a disposizione da dedicare a se stesso e alla famiglia, comporta un miglioramento dei profitti aziendali poiché il benessere del dipendente aumenta la produttività e riduce l’assenteismo. Inoltre, la riduzione degli spostamenti per recarsi sul posto di lavoro riduce l’impatto ambientale, oltre a ridurre gli infortuni in itinere (ridotti anche grazie a una qualità della vita meno frenetica del lavoratore).

Il lavoro a domicilio – o telelavoro – è stato introdotto invece dal DPR n. 70/1999 e ripreso dall’articolo 1 dell’Accordo del 9 giugno del 2004. Per tale modalità di lavoro si intende una prestazione lavorativa subordinata effettuata regolarmente a distanza dal lavoratore, cioè al di fuori della sede di lavoro, con il prevalente supporto di tecnologie dell’informazione e della comunicazione.

Le due modalità lavorative riportano dei punti in comune:

  • Si tratta di una prestazione di lavoro subordinato;
  • La prestazione lavorativa non avviene all’interno dei locali aziendali;
  • La possibilità di utilizzo di un supporto tecnologico;
  • La possibilità, tanto per il settore privato come per il settore pubblico, di optare per tale modalità di lavoro.

Nonostante le somiglianze, vengono riportate tuttavia delle differenze:

  • La disciplina dello Smart Working esclude l’applicazione della normativa sul telelavoro, inadeguata di fronte alla veloce evoluzione degli strumenti tecnologici, oltre ad essere più rigida e costosa;
  • Il luogo di lavoro nel caso dello Smart Working è flessibile e non deve svolgersi obbligatoriamente sul luogo di lavoro, mentre nel caso il telelavoro è sì disancorato dai locali aziendali, ma prefissato;
  • Dalla flessibilità del luogo di lavoro deriva che, nel caso dello Smart Working, il datore di lavoro deve individuare nell’informativa periodica (con cadenza almeno annuale) i rischi generali e specifici connessi alla modalità della prestazione, mentre nel caso del telelavoro (di cui, a differenza dello Smart Working, si conosce in anticipo il luogo della prestazione) il datore deve anche garantire la sicurezza dei luoghi che il dipendente utilizza per lavorare;
  • L’orario di lavoro nel caso dello Smart Working è flessibile (comportando il diritto del lavoratore alla disconnessione), mentre è definito nel telelavoro ed equivale alla durata della prestazione in azienda.

Il tempo del lavoro assume quindi natura definitoria per distinguere le due fattispecie.

2. Il lavoro agile (Smart Working) nell’attuale legislazione

Come già accennato sopra, il lavoro agile viene introdotto nel nostro ordinamento dalla legge 22 maggio 2017 n. 81, con la finalità di aumentare la produttività permettendo al lavoratore la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.

La definizione di lavoro agile viene delineata dalla legge attraverso alcune caratteristiche:

  • L’esecuzione della prestazione lavorativa avviene solo in parte all’interno dei locali aziendali e con i vincoli di orario massimo derivanti da legge e contrattazione collettiva;
  • La possibilità di utilizzo di strumenti tecnologici;
  • L’assenza di postazione fissa nei periodi di lavoro svolti fuori dai locali aziendali;
  • La volontarietà della prestazione;
  • La necessarietà di un accordo scritto tra le parti, che definisca le modalità di esecuzione della prestazione quando resa all’infuori dei locali aziendali e gli strumenti utilizzati dal dipendente, oltre all’individuazione del tempo del lavoro e del rispetto dei tempi di riposo e all’individuazione del periodo di preavviso di recessione dell’accordo a tempo indeterminato che non sia inferiore a 30 giorni;
  • La durata dell’accordo può essere a tempo determinato o indeterminato e ciascuno dei contraenti può recedere prima della scadenza del termine (se a tempo determinato) o senza preavviso se sussiste una giusta causa (se a tempo indeterminato). Se questa mancasse, l’accordo deve prevedere un periodo di preavviso comunque non inferiore a 30 giorni.

3. Contratti ed esperimenti di lavoro agile (Smart Working) già in essere. Possibilità di applicazione

Diverse grandi imprese, alla proposta di riforma che avrebbe introdotto lo Smart Working nell’ordinamento italiano, si sono dimostrate poco interessate. Da un lato, il quadro normativo non era certo ed interpretabile, e dall’altro lato non era chiara la materia di modalità di utilizzo degli strumenti e di gestione delle questioni riguardanti salute e sicurezza sul lavoro.

Altre imprese, invece, avevano adottato già dal 2016 delle modalità di Smart Working. Questo ha aperto le porte a delle opportunità, ad esempio gli uffici condivisi di co-working, e può aprirne in futuro per combattere la discriminazione di genere:

A. La modalità dello Smart Working in spazi di co-working

Come già evidenziato da Il Sole 24 ore nel 2015, sono stati sperimentati degli spazi di co-working, ossia degli uffici in condivisione tra più professionisti che lavorano con la modalità dello Smart Working. A Milano è stato aperto uno di questi spazi che può ospitare fino a 5mila lavoratori, ma esistono anche altre numerose realtà di co-working tra l’Italia e la Svizzera. Il vantaggio di questo tipo di uffici, secondo Mauro Mordini (Country Manager di Regus) è quello di pagare solo per ciò che effettivamente si usa (linee telefoniche, WiFi ecc.) e di usufruire di spazi diversi per il lavoro a seconda delle esigenze. L’abitazione del lavoratore non è un ambiente professionale e non dà accesso a tutti gli strumenti che si possono trovare in uno spazio condiviso, permettendo inoltre un risparmio sui costi fissi. Viene offerta un’occasione, tra l’altro, di creare un network di contatti che si generano da un ufficio in cui coesistono più piani e più realtà.

B. Lo Smart Working come modalità per combattere la discriminazione di genere

I presupposti da prendere in considerazione sono tre:

  • l proposito dell’introduzione dello Smart Working nell’ordinamento italiano con la legge del 22 maggio 2017 n.81 è quello di aumentare la produttività permettendo al lavoratore una più semplice conciliazione dei tempi del proprio lavoro e della propria vita;
  • Vantaggi derivanti dalla stipulazione di tali accordi sono il miglioramento della qualità della vita del lavoratore, poiché diventa meno frenetica vista anche la riduzione degli spostamenti per recarsi al luogo di lavoro;
  • Come evidenziato a livello tanto nazionale quanto dai lavori degli ultimi anni della Commissione Europea, molte donne italiane sono fin troppo spesso costrette ad optare per soluzioni di riduzione dell’orario di lavoro (part-time), riducendo così anche lo stipendio e i contributi previdenziali, se non addirittura lasciando il lavoro per un periodo o definitivamente (comportando la mancanza di stipendio e contributi previdenziali), poiché il carico della vita famigliare è tutto sulle loro spalle. Questo comporta, ad esempio, una discriminazione indiretta di misure in materia previdenziale, come ad esempio la legge 28 marzo 2019 n.26 che istituisce la modalità di pensionamento anticipato Quota 100. Lavorando meno ore rispetto agli uomini o dovendo lasciare il lavoro per un periodo o definitivamente per prendersi cura della famiglia (oltre al discorso sul gender pay gap), per le donne è più arduo versare i contributi per gli anni necessari necessari per poter accedere alla pensione anticipata, nonostante la previsione della c.d. opzione donna. Inoltre, le donne sono più esposte al rischio di infortuni in itinere poiché il dover conciliare i tempi del lavoro con le necessità famigliari le porta a muoversi più di fretta rispetto agli uomini.

Un accordo di Smart Working, quindi, può essere un’occasione per la donna per non dover lasciare il lavoro o per non essere costretta ad optare per una riduzione dell’orario di lavoro, siccome lo stesso scopo che si propone l’introduzione della modalità è rendere facile al lavoratore (la lavoratrice) la conciliazione tra il tempo del lavoro e della propria vita. La lavoratrice, allora, non si troverebbe costretta ad accontentarsi di un salario ridotto (o mancante) e potrebbe versare i contributi previdenziali senza veder svanire la possibilità, ad esempio, di un pensionamento anticipato.

Inoltre, la riduzione degli spostamenti permetterebbe alla lavoratrice di non dover muoversi in fretta, riducendo gli infortuni in itinere.

4. Punti critici: come determinare la retribuzione, controllo e potere disciplinare, riservatezza, personalità della prestazione, aspetti previdenziali

Il dipendente, nello svolgimento della propria mansione con le modalità dello Smart Working, ha diritto ad una retribuzione non inferiore a quella corrisposta agli altri lavoratori subordinati a parità di mansioni svolte.

Il potere disciplinare del datore di lavoro è lo stesso previsto dall’art. 7 della legge 20 maggio 1970 n. 300 (lo Statuto dei Lavoratori), dei limiti della legge e dell’accordo raggiunto con il lavoratore. L’accordo tra le parti, oltretutto, deve precisare eventuali altri comportamenti disciplinarmente rilevanti ulteriori rispetto a quelli già individuati dal datore di lavoro nel codice disciplinare esposto in azienda.

Il datore di lavoro, inoltre, deve garantire la protezione dei dati utilizzati ed elaborati dal lavoratore che svolge la sua prestazione lavorativa in modalità di Smart Working.

Dal punto di vista della sicurezza sul lavoro, come già accennato nel primo capitolo, il datore di lavoro ha l’obbligo generale di garantire la salute e la sicurezza del lavoratore in modalità di lavoro agile, ma ha anche l’obbligo di informativa periodica (almeno una volta all’anno) in cui deve individuare i rischi generali e specifici connessi alla modalità di adempimento alla prestazione lavorativa. Se dovesse verificarsi un infortunio durante lo svolgimento dell’attività lavorativa all’infuori dei locali aziendali, connesso con la prestazione lavorativa, la legge stabilisce il diritto alla copertura INAIL.

5. Il lavoro agile (Smart Working) nel pubblico impiego: il testo unico e la normativa in materia, disposizioni contrattuali, circolari, esperienze, la normativa dell’emergenza, regolamenti degli enti pubblici.

Il lavoro agile nel settore pubblico

Il lavoro agile era già stato previsto come applicabile al pubblico impiego con l’art. 14 della legge 7 agosto 2015 n. 124, Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche, che introduceva nuove misure per la promozione della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, che le varie amministrazioni avrebbero dovuto applicare dal momento dell’entrata in vigore della legge.

Queste, infatti, con il limite delle risorse di bilancio disponibile con la legislazione vigente e senza oneri ulteriori per la finanza pubblica, avrebbero dovuto adottare misure per fissare gli obiettivi annuali per l’attuazione del telelavoro, ma soprattutto sperimentare la modalità di prestazione lavorativa dello Smart Working.

Misure, queste, concernenti l’organizzazione del lavoro basate sulla flessibilità lavorativa che tenga conto dei bisogni dei dipendenti in modo da conciliare i loro tempi della vita e del lavoro, che permettano entro tre anni ad almeno il 10% dei dipendenti, che richiedano l’accordo per lavorate con tale modalità, di avvalersi delle nuove e flessibili modalità lavorative, con la garanzia di non subire penalizzazioni ai fini del riconoscimento della professionalità e della progressione di carriera.

Destinatari di tali misure sono tutti i dipendenti delle amministrazioni pubbliche, senza discriminazioni. A tale proposito viene istituito un organo di controllo, il Comitato Unico di Garanzia. I dirigenti, anch’essi potenziali fruitori della misura, sono tenuti a salvaguardare le aspettative di chi utilizza le nuove modalità in termini di formazione e crescita professionale e promuovano percorsi informativi e formativi che non escludano i lavoratori dal contesto lavorativo, dai processi di innovazione in atto e dalle opportunità professionali.

Le varie amministrazioni sono tenute a:

  • Adottare misure che permettano al lavoratore di conciliare i tempi del lavoro e della propria vita, che non prevedano per forza la presenza del lavoratore nei locali aziendali;
  • Dare la precedenza alla fruizione dei lavoratori che si trovino in condizioni di svantaggio personale, familiare e sociale e dei dipendenti impegnati in attività di volontariato;
  • Individuare le attività che non sono compatibili con la nuova modalità di lavoro, tenendo conto dell’obbiettivo per il triennio successivo all’entrata in vigore della legge della fruizione della misura da parte di almeno il 10% dei dipendenti che lo richiedano;
  • Individuare degli obbiettivi prestazionali specifici, misurabili, coerenti e compatibili con il contesto organizzativo che permettano di responsabilizzare il personale e di valutare e valorizzare la prestazione in termini di risultati effettivamente raggiunti, obbiettivi tanto quantitativi come qualitativi;
  • Promuovere dei corsi di formazione, in particolare per i dirigenti, per una maggiore diffusione del ricorso alla nuova modalità lavorativa e per incrementare produttività e modelli organizzativi più competitivi;
  • Riprogettare lo spazio fisico e virtuale del lavoro, creando anche degli spazi condivisi;
  • Promuovere l’uso della tecnologia per la prestazione lavorativa, anche per colmare il c.d. digital divide per il consolidamento di una struttura amministrativa basata su reti informatiche e tecnologicamente avanzate.

A tal proposito, è necessaria un’attenta analisi del contesto dell’organizzazione del lavoro interna all’amministrazione, la definizione degli obiettivi e delle caratteristiche del progetto generale di Smart Working, avviare poi la sperimentazione, ed infine monitorarla e valutarla.

La direttiva è vincolante per le Amministrazioni dello Stato:

  • Scuole;
  • Aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo;
  • Regioni, Province, Comuni, Comunità montane e loro consorzi e associazioni;
  • Università;
  • Istituti autonomi case popolari;
  • Camere di commercio e loro associazioni;
  • Tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali;
  • Amministrazioni, aziende ed enti del Servizio sanitario nazionale;
  • Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) e le Agenzie (ad esempio, l’Agenzia delle Entrate).

La normativa dell’emergenza

Vista la pandemia del virus COVID-19 che negli ultimi mesi si sta diffondendo non solo in tutta Europa, ma anche in tutto il mondo, si è vista la necessità di un distanziamento sociale per rallentare – e poi fermare – il contagio. La necessità sottesa allo Smart Working, quindi, in questo periodo non è tanto la conciliazione dei tempi del lavoro e della vita del lavoratore, quanto la necessità di evitare contatti con le altre persone nei locali aziendali.

La necessità di salvaguardare la salute e sicurezza dei lavoratori sul luogo di lavoro stato evidenziato dal DL 2 marzo 2020 n.9 (e successive modifiche) e dal Protocollo condiviso dal Governo e dalle Parti Sociali del 14 marzo 2020 – Protocollo condiviso di regolazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus COVID-19 negli ambienti di lavoro. Entrambe le fonti legali dispongono di preferire l’applicazione della misura, ove possibile, dello Smart Working, tanto nel settore privato come nel settore pubblico.

Il DL 25 marzo 2020 n.19 dedica al pubblico impiego gli articoli 18 e seguenti e, incentrato sull’applicazione dello Smart Working, è l’articolo 18:

  • Art. 18 Misure di ausilio allo svolgimento del lavoro agile da parte dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni e degli organismi di diritto pubblico: per agevolare lo Smart Working vengono incrementati del 50% i quantitativi massimi delle vigenti convenzioni-quadro di Consip SPA per la fornitura di PC e tablet ai lavoratori, fatta salva la facoltà, da parte dell’aggiudicatario, di recesso da esercitarsi entro 15 giorni dalla comunicazione della modifica da parte della stazione appaltante. Nel caso di recesso o aumento dei quantitativi non soddisfacente al fabbisogno delle Pubbliche Amministrazioni, è possibile pubblicare dei bandi di gara.

Tuttavia, come esposto nell’articolo Lavorare da casa sta innalzando la produttività (ma si lavora anche di più). I primi dati, comparso sulla rivista Forbes Italia il 2 aprile 2020, molti dei lavoratori alle dipendenze di aziende pubbliche quanto di pubbliche amministrazioni ritengono di lavorare di più rispetto alle ore di lavoro all’interno dei locali aziendali (ricerca condotta da OnePoll per conto di Citrix Systems – fornitore statunitense di sistemi di business continuity, coinvolgente 5mila lavoratori in tutto il mondo, Italia compresa). Il 22,1% degli italiani intervistati sostiene di aver lavorato almeno un giorno da casa anche prima dell’emergenza mondiale, il 70,8% sostiene di lavorare le stesse ore lavorate in ufficio o superiori e il 78,9% sostiene che i livelli di produttività sono uguali o superiori.

Questi dati, probabilmente, saranno dovuti al fatto che la normativa dell’emergenza ha velocizzato il passaggio dal lavoro nei locali aziendali al lavoro agile, omettendo ad esempio la fase di formazione prevista invece dalla legge 7 agosto 2015 n. 124. La differente ratio delle due fonti, tuttavia, non può giustificare la restrizione del diritto del lavoratore al rispetto dell’orario di lavoro ed alla disconnessione.

Fabio Petracci

Chiara Bassanese