Coronavirus

Lavoro agile nella PA, primi risultati e indicazioni sulla gestione post – pandemia

Come è accaduto nel settore privato, così anche nel pubblico impiego si è assistito, durante l’emergenza pandemica, ad un ricorso massiccio allo smart working come modalità di esecuzione della prestazione di lavoro, che garantisse continuità del servizio salvaguardando la sicurezza dei cittadini.

Sul piano normativo, la disciplina applicata è la legge 81/2017, in quanto compatibile e fatta salva l’applicazione delle diverse disposizioni specificamente previste, in accordo con le direttive per la promozione della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, adottate in base all’art. 14 della L. 124/2015.

Si è altresì previsto (art. 263 del D.L. 34/2020) che le pubbliche amministrazioni elaborassero entro il 31 gennaio di ciascun anno, il Piano organizzativo del lavoro agile (POLA), e che almeno il 15 per cento del personale potesse avvalersi della modalità agile per lo svolgimento della prestazione lavorativa[1].

A tal fine, il Ministro per la pubblica amministrazione ha approvato, con decreto del 9 dicembre 2020 le Linee guida che indirizzano le pubbliche amministrazioni nella redazione del suddetto Piano. I contenuti minimi richiesti sono “I) Livello di attuazione e di sviluppo del lavoro agile (da dove si parte?); II) Modalità attuative (come attuare il lavoro agile?); III) Soggetti, processi e strumenti del lavoro agile (chi fa, che cosa, quando e come per attuare e sviluppare il lavoro agile?); IV) Programma di sviluppo del lavoro agile (come sviluppare il lavoro agile?) “[2]

Quanto ai soggetti coinvolti, un ruolo fondamentale nella definizione dei contenuti del POLA è svolto dai dirigenti come promotori dell’innovazione organizzativa. Questa richiede un importante cambiamento di stile manageriale e di leadership, caratterizzato dalla capacità di lavorare e far lavorare per obiettivi, spostando l’attenzione dal controllo alla responsabilità per i risultati.

I dirigenti sono chiamati altresì a operare un monitoraggio mirato e costante, in itinere ed ex-post, basato sul raggiungimento degli obiettivi fissati e alla verifica del riflesso sull’efficacia e sull’efficienza dell’azione amministrativa.

Com’è andata

Per valutare il fenomeno sul piano quantitativo, il Dipartimento della funzione pubblica ha avviato il monitoraggio dello stato di attuazione del lavoro agile nelle pubbliche amministrazioni, e a tal fine sono stati istituiti l’Osservatorio nazionale del lavoro agile nelle pubbliche amministrazioni (art. 263, co. 3-bis, del D.L. 34/2020) e una Commissione tecnica di supporto (DM del 20 gennaio 2021).

L’ultimo monitoraggio disponibile risale ad aprile 2020 e costituisce una rilevazione dell’ampio utilizzo della modalità di lavoro agile durante il periodo pandemico.

L’ISTAT invece, in tempi più recenti, ha effettuato una valutazione dell’impatto della modalità di lavoro agile sulla qualità del servizio reso, misurato sulla base del grado di soddisfazione degli utenti nel periodo maggio 2020 – gennaio 2022[3].

Stando alla rilevazione, la maggioranza delle persone che si è rivolta ad un ufficio pubblico (65,2%) nel periodo preso in considerazione, non ha ravvisato cambiamenti nella qualità di almeno uno dei servizi ricevuti rispetto al periodo pre-pandemico, mentre un cittadino su quattro (25,6%), ha lamentato un peggioramento in almeno una delle circostanze in cui si è rivolto alla PA. Una quota più bassa (13%) ha notato invece un miglioramento.

Focalizzando l’attenzione su quanti si sono rivolti ad un solo ufficio pubblico, il 20,9% ha riscontrato un peggioramento, il 9,8% un miglioramento, e resta fortemente maggioritaria la quota di quanti non rilevano cambiamenti (64,8%). Il 4,5% ha avuto difficoltà a esprimere un giudizio. Tuttavia, tra quanti hanno lamentato un peggioramento, il 62,1% si è dichiarato comunque soddisfatto (a fronte del 37,9% di non soddisfatti), quindi si è tratto di un peggioramento che nella maggior parte dei casi non ha inficiato la soddisfazione degli utenti.

Ai cittadini che si sono dichiarati complessivamente insoddisfatti o hanno riscontrato un peggioramento nel servizio, sono stati proposti anche quesiti mirati a capire se le criticità riscontrate dipendessero, a loro parere, dall’adozione del lavoro a distanza e, dunque, dalla minore presenza di dipendenti negli uffici di interesse.

I rispondenti si sono distribuiti in maniera omogenea tra le opzioni date: per il 31,4% i problemi c’erano anche prima dell’adozione del lavoro a distanza, per il 31,2% il lavoro a distanza è una concausa, per il 28,6% invece il disservizio è causato esclusivamente dal lavoro a distanza. L’8,8% non è stato in grado di esprimere un’opinione in merito.

Non sono emerse differenze significative in base alle variabili socio-demografiche né in base ai canali di accesso ai servizi.

Rientro in presenza dei dipendenti pubblici

Un anno fa, con il DPCM del 23 settembre 2021, è stato sancito che, a decorrere dal 15 ottobre 2021, la modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa nelle amministrazioni pubbliche sarebbe tornata ad essere quella svolta in presenza. Le amministrazioni sarebbero comunque state chiamate ad assicurare il rispetto delle misure sanitarie di contenimento del rischio di contagio da Covid-19.

Il rientro in presenza del personale delle pubbliche amministrazioni è stato disciplinato con il decreto del Ministro per la pubblica amministrazione 8 ottobre 2021, che ha individuato le condizionalità ed i requisiti necessari per utilizzare il lavoro agile, e dalle “linee guida” che hanno ad oggetto l’obbligo di esibizione del Green pass e le modalità di controllo del rispetto di esso.

Il quadro regolatorio è stato completato dal Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale siglato a Palazzo Chigi il 10 marzo 2021, dal Contratto collettivo sottoscritto tra Aran e parti sociali il 21 dicembre 2021, che del lavoro agile nel pubblico impiego ha individuato caratteristiche, modalità, limiti e tutele.

Ai sensi della definizione data dal contratto collettivo, “Il lavoro agile di cui alla legge n. 81/2017 è una delle possibili modalità di effettuazione della prestazione lavorativa per processi e attività di lavoro, previamente individuati dalle amministrazioni, per i quali sussistano i necessari requisiti organizzativi e tecnologici per operare con tale modalità.”[4] conseguentemente, la disciplina della modalità lavorativa contiene i tratti salienti di quella applicata nel settore privato.

L’adesione al lavoro agile ha natura consensuale e volontaria ed è consentita a tutti i lavoratori, fermo restando che l’amministrazione individua le attività che possono essere effettuate in modalità agile. L’amministrazione, altresì, “avrà cura di facilitare l’accesso al lavoro agile ai lavoratori che si trovino in condizioni di particolare necessità, non coperte da altre misure.”[5]

L’accordo individuale, stipulato per iscritto ai fini della regolarità amministrativa e della prova, disciplina l’esecuzione della prestazione lavorativa svolta all’esterno dei locali dell’amministrazione, anche con riguardo alle forme di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro e agli strumenti utilizzati dal lavoratore, che di norma vengono forniti dall’amministrazione.

Quanto all’orario di lavoro, e al diritto alla disconnessione, si prevede che la prestazione lavorativa in modalità agile si articoli in due fasce temporali:

  1. a) fascia di contattabilità – nella quale il lavoratore è contattabile sia telefonicamente che via mail o con altre modalità similari, la cui durata non può essere superiore all’orario medio giornaliero di lavoro;
  2. b) fascia di inoperabilità – nella quale il lavoratore non può erogare alcuna prestazione lavorativa. Tale fascia comprende il periodo di 11 ore di riposo consecutivo di cui all’art. 17, comma 6, del CCNL 12 febbraio 2018 a cui il lavoratore è tenuto nonchè il periodo di lavoro notturno tra le ore 22:00 e le ore 6:00 del giorno successivo.

Viene sancito il diritto alla disconnessione; pertanto, negli orari al di fuori della fascia a), egli non è tenuto ad avere contatti con i colleghi o con il dirigente per lo svolgimento della prestazione lavorativa, a leggere e rispondere a e-mail e messaggi, a rispondere alle chiamate, ad accedere al sistema informativo dell’Amministrazione.

Per quanto riguarda i lavoratori fragili, invece, il Dipartimento della Funzione pubblica ha precisato che la flessibilità per l’utilizzo del lavoro agile per il pubblico impiego, già presente all’interno della circolare del 5 gennaio 2022, sarà disponibile anche dopo il 30 giugno 2022, per garantire ai lavoratori fragili della PA la più ampia fruibilità di questa modalità di svolgimento della prestazione lavorativa. Sarà quindi il dirigente responsabile a individuare le misure organizzative che si rendono necessarie, anche derogando, ancorché temporaneamente, al criterio della prevalenza dello svolgimento della prestazione lavorativa in presenza.

A cura della dott.ssa Laura Angeletti
Centro Studi Corrado Rossitto di UNIONQUADRI

[1] percentuale così ridotta dall’art. 11-bis del D.L. 52/2021, in luogo dell’originario 60 per cento

[2] LINEE GUIDA SUL PIANO ORGANIZZATIVO DEL LAVORO AGILE (POLA) E INDICATORI DI PERFORMANCE (Art. 14, comma 1, legge 7 agosto 2015, n. 124, come modificato dall’articolo 263, comma 4 bis, del decreto legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77)

[3] Rapporto ISTAT  “CITTADINI E LAVORO A DISTANZA NELLA PA DURANTE LA PANDEMIA | MAGGIO 2020 – GENNAIO 2022”

[4] CONTRATTO COLLETTIVO NAZIONALE DI LAVORO DEL PERSONALE DEL COMPARTO FUNZIONI CENTRALI TRIENNIO 2019 – 2021, Art. 36, comma 1

[5] CONTRATTO COLLETTIVO NAZIONALE DI LAVORO DEL PERSONALE DEL COMPARTO FUNZIONI CENTRALI TRIENNIO 2019 – 2021, Art. 37, comma 3

2] LINEE GUIDA SUL PIANO ORGANIZZATIVO DEL LAVORO AGILE (POLA) E INDICATORI DI PERFORMANCE (Art. 14, comma 1, legge 7 agosto 2015, n. 124, come modificato dall’articolo 263, comma 4 bis, del decreto legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77)

[3] Rapporto ISTAT  “CITTADINI E LAVORO A DISTANZA NELLA PA DURANTE LA PANDEMIA | MAGGIO 2020 – GENNAIO 2022”

[4] CONTRATTO COLLETTIVO NAZIONALE DI LAVORO DEL PERSONALE DEL COMPARTO FUNZIONI CENTRALI TRIENNIO 2019 – 2021, Art. 36, comma 1

[5] CONTRATTO COLLETTIVO NAZIONALE DI LAVORO DEL PERSONALE DEL COMPARTO FUNZIONI CENTRALI TRIENNIO 2019 – 2021, Art. 37, comma 3

VIDEO – Contratto: Procedimento disciplinare nella scuola dopo la legge Madia

Video-intervista sul tema del Procedimento disciplinare nella scuola dopo la legge Madia, tema del seminario di formazione per RSU-Tas e Dirigenti sindacali tenutosi a Napoli il 29 gennaio 2022.

La Legge n.46/2022 e il riconoscimento delle Forza Armate a riunirsi in associazione e sindacati

Con la recente Legge n.46/2022, lo Stato italiano ha definitivamente sancito il diritto di riunirsi in associazioni professionali di carattere sindacale del personale delle forze armate e delle forze di polizia a ordinamento militare.

La menzionata legge è la naturale conseguenza dell’importante pronuncia delle Corte Costituzionale n.120 dell’11.04.2018 che ha statuito la parziale illegittimità costituzionale dell’art.1475, comma 2, del codice dell’ordinamento militare (D.lgs. n.66/2010).

La vicenda nasceva – in sede di giustizia amministrativa – dal contrasto tra la norma interna (appunto l’art.1475, comma 2, dell’ordinamento militare, secondo cui “i militari non possono costituire associazioni professionali a carattere sindacale o aderire ad altre associazioni sindacali”) e la norma di rango sovranazionale, da rinvenirsi in primis nell’art.11 (rubricato <libertà di riunione e di associazione>) della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU).

Pare necessario allora soffermarsi sulla ratio dell’impedimento imposto dalla norma nazionale ed oggetto del sindacato di costituzionalità della Corte.

Sostanzialmente, viene posto il problema della ratio individualistica del diritto all’associazionismo con il <sacro dovere> di difesa della Patria e delle Istituzioni, che involgerebbe complessivamente – senza ammettere eccezione alcuna – il corpo delle Forze Armate.

Ebbene, la Corte risolve l’indicato contrasto riconoscendo che la normativa europea non contempla limiti di categorie a cui essere applicata, ma al contempo – data la specificità della categoria interessata – debba essere disciplinata da una normativa ad hoc.

La Corte Costituzionale ha quindi dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art.1475, comma 2, del D.lgs. n.66/2010, in quanto prevede che “I militari non possono costituire associazioni professionali a carattere sindacale o aderire ad altre associazioni sindacali” invece di prevedere che “I militari possono costituire associazioni professionali a carattere sindacale alle condizioni e con i limiti fissati dalla legge; non possono aderire ad altre associazioni sindacali”.

Tale ultimo inciso ha la finalità di garantire l’unione della categoria, evitando il sorgere di contrapposizioni interne.

Ecco quindi spiegata la necessità di una disciplina legislativa specifica.

Sinteticamente, i tratti salienti della legge che ne è conseguita (la n.46/2022) possono così riassumersi.

I primi articoli (dall’art.1 all’art.4) delineano la natura, i principi costitutivi, nonché il dovuto iter di riconoscimento che dovrà essere attuato dal Ministero.

Norma che implicitamente comporta una sorta di sospensione della legittimità delle associazioni già presenti nel settore, che dovranno attendere l’eventuale riconoscimento ministeriale.

Nei successivi articoli (fino all’art.8 compreso) vengono indicati i principi e le disposizioni che devono regolare gli statuti, nonché gli aspetti finanziari e di bilancio.

Infine, cuore del provvedimento legislativo è dato dalla normativa concernente la rappresentatività e l’attribuzione dei poteri negoziali per esperire la contrattazione nazionale di comparto.

Al contempo, però, pur ribadendo che tale legge sana il contrasto e la parziale illegittimità rilevata dalla Corte Costituzionale, non ci si può esimere dal rilevarne alcune carenze, prima tra tutte il divieto di far parte dei sindacati per gli appartenenti delle Forze Armate in congedo.

avv. Alessandro Capuano

Alte professionalità

Salario minimo – rappresentatività – contrattazione collettiva

Intervento  del Presidente del Centro Studio, Fabio Petracci in occasione del seminario “Salario minimo garantito” tenutosi a Milano il 14 luglio scorso.

Le esigenze dei quadri e delle specifiche rappresentanze professionali.

L’introduzione di un salario minimo può comportare significative conseguenze sia sul piano della contrattazione collettiva, sia su quello della rappresentatività delle organizzazioni sindacali.

Rileviamo però che non si tratta di un’interdipendenza assoluta ed inevitabile in tutte le sue conseguenze.

Verificheremo la possibilità di introdurre un salario minimo senza influire in maniera significativa sullo stato attuale della contrattazione collettiva e della rappresentatività.

Verificheremo inoltre le inevitabili ricadute dell’introduzione del salario minimo sulle dinamiche contrattuali delle categorie che direttamente non paiono interessate al salario minimo, come la categoria dei quadri.

Effettueremo le nostre riflessioni sulla base delle normative vigenti che possono accompagnare l’introduzione di un salario minimo.

 

La direttiva comunitaria limiti ed effetti.

La direttiva non contiene e peraltro non potrebbe contenere misure atte ad incidere direttamente sul livello delle retribuzioni nei singoli paesi della Comunità. Il trattato di funzionamento dell’Unione Europea all’articolo 135 vieta alla Comunità di intervenire sulle retribuzioni imponendo “vincoli amministrativi, finanziari e giuridici.

Essa invece, si limita, una volta intrapresa dal singolo governo la scelta di fissare un minimo salariale o tramite norma di legge o tramite contrattazione collettiva, ad integrare e completare le necessarie azioni degli stati membri, limitandosi a dei principi generali.

La direttiva fornisce in pratica una guida ed una cornice di attuazione.

Essa assume una rilevanza comunitaria più che nazionale, ponendosi non come limite, ma quale correttivo alla competitività esterna dei membri della Comunità Europea.

La direttiva punta ad istituire un quadro per fissare salari minimi ed equi.

Essa si limita a stabilire delle procedure per assicurare l’adeguatezza dei salari minimi e promuovere la contrattazione collettiva laddove essi esistono.

In pratica, una volta che uno stato membro si doti di un salario minimo dovrà stabilire un quadro procedurale per fissare ed aggiornare i salari minimi.

La normativa comunitaria, infatti, prevede che laddove via sia il salario minimo legale, questo debba essere pari almeno al 60% del salario mediano lordo nazionale e al 50% del salario medio lordo nazionale (parametri Ocse riconosciuti a livello internazionale). Inoltre, il salario minimo deve essere al di sopra della soglia di dignità, valutata non sull’individuo ma sul nucleo familiare, in funzione del potere d’acquisto calcolato sull’accesso a un paniere di beni e servizi essenziali a prezzi reali, comprensivi di Iva, contributi di sicurezza sociale e servizi pubblici. In sostanza, si lega la fissazione del minimo da un lato alla media delle retribuzioni generali del Paese, e dall’altro al potere d’acquisto reale delle famiglie.

Sono infatti previsti degli aggiornamenti periodici.

Le ricadute sul nostro sistema retributivo.

Nel nostro paese le retribuzioni minime non arrivano al 60% del salario medio proposto dalla UE.

Ci si chiede se potrà scattare l’obbligo di adeguarsi.

E’ inoltre in corso una notevole inflazione destinata con l’incombente crisi economica a ridurre rapidamente il potere di acquisto dei salari.

Esistono numerose aree di lavori atipici dove sussistono problemi di adeguatezza della retribuzione.

L’articolo 36 della Costituzione.

Per converso, nell’ambito del nostro ordinamento è estremamente importante la funzione dell’articolo 36 della Costituzione che riferisce l’adeguatezza della retribuzione non solo ai bisogni esistenziali del lavoratore, ma anche alla quantità e qualità del lavoro.

Dunque anche la proporzionalità delle retribuzioni rispetto alla qualità delle mansioni svolte assurge a principio costituzionale.

Questa norma, fondamentale per il riferimento della Costituzione al lavoro, non comporta una riserva normativa o contrattuale in favore dei sindacati per il regolamento dei rapporti di lavoro. (Corte Costituzionale n.106/1962). In quell’occasione, la Corte Costituzionale era chiamata a pronunciarsi in merito ad alcuni articoli della cosiddetta “Legge Vigorelli”.

E’ dunque possibile un intervento legislativo sul salario minimo che non comporti automaticamente la revisione delle regole sulla rappresentatività.

E’ necessario poi adeguare le retribuzioni dei lavoratori ad alta professionalità ai minimi contrattuali introdotti.

Eventuali altre ricadute.

Ciò non significa che l’introduzione per legge di un salario minimo non possa comportare conseguenze contrattuali e retributive al di fuori della stretta sfera di osservanza dello stesso.

Conseguentemente, le parti sociali sarebbero inevitabilmente condizionate dall’importo fissato come minimo legale anche per quanto riguarda la determinazione delle retribuzioni relative ai lavoratori inquadrati in qualifiche superiori rispetto a quelle interessate dal minimo legale. E così, anche per esse dovrebbero prevedere nei successivi rinnovi contrattuali incrementi proporzionali. Inoltre, sino a quando non vi sia un complessivo intervento di riadeguamento da parte dei rinnovi dei contratti collettivi, si potrebbe dubitare della rispondenza al criterio di proporzionalità dei minimi contrattuali relativi alle qualifiche superiori che, pur essendo rispettose del minimo legale, risultino uguali o solo lievemente superiori rispetto al minimo legale riconosciuto alle qualifiche inferiori.

In sostanza, l’aumento dei salari più bassi potrebbe incidere con un effetto a cascata anche su quelli più alti.

Esso potrebbe costituire inoltre uno stimolo per le organizzazioni sindacali ad ulteriori richieste retributive.

Potrebbe però anche verificarsi l’ipotesi che diversi livelli di inquadramento vengano sotto l’aspetto retributivo appiattiti.

Chi tutela la specificità delle categorie professionali, come quella dei quadri e di altre categorie particolarmente qualificate?

L’introduzione di una base di partenza retributiva appare idonea a rafforzare le dinamiche contrattuali e la tutela delle categorie destinate ad un ipotetico appiattimento delle loro posizioni.

Potrebbe infatti verificarsi un drenaggio di risorse contrattuali a danno delle categorie più alte o invece, come già accennato, un automatico livellamento retributivo.

Riteniamo quindi che nell’ambito della contrattazione e della rappresentatività dovrebbe essere riservato adeguato spazio alle istanze delle categorie maggiormente professionalizzate, come i quadri.

Trattasi non dimentichiamo di ambiti professionali destinati logicamente ad uno spazio di rappresentatività numerica limitato.

In tale ambito, l’associazione dei quadri non contesta la rappresentatività delle organizzazioni sindacali generaliste e non contesta neppure il ruolo della contrattazione collettiva nell’ambito della determinazione del salario minimo in concorrenza con la fonte legale.

Ciò che invece determina la nostra opposizione è il tentativo di imporre in forma surrettizia di una legge che attui l’articolo 39 della Costituzione una determinazione delle regole sulla rappresentatività da parte dei soggetti che ne dovrebbero divenire i destinatari.

Ci riferiamo in primo luogo all’accordo del 10 gennaio 2014 tra Confindustria, CGIL, CISL e UIL che redigevano un testo unico sulla rappresentanza ai fini della contrattazione nazionale di categoria e sulle rappresentanze in azienda.

Nella parte concernente la contrattazione collettiva l’ammissione alla contrattazione era riservata alle organizzazioni sindacali firmatarie dell’accordo interconfederale del 28 giugno 2011 e del successivo protocollo del 31 maggio 2013 che abbiano, nell’ambito di applicazione del contratto collettivo nazionale di lavoro, una rappresentatività non inferiore al 5%, considerando a tale fine la media fra il dato associativo (percentuale delle iscrizioni certificate) e il dato elettorale (percentuale voti ottenuti su voti espressi).

Ne seguiva la convenzione del 19 settembre 2019 tra INPS, Ispettorato Nazionale, del Lavoro, Confindustria CGIL, CISL, UIL, per ammettere alla contrattazione collettiva le sole organizzazioni sindacali rientranti nei parametri di cui all’accordo del gennaio 2014.

A tali accordi faceva seguito la circolare 3/2018 ed ulteriori interventi dell’Ispettorato del Lavoro volti a riconoscere esclusivamente CGIL, CISL, UIL quali parti contrattuali.

Questi interventi erano determinati dalla necessità di contrastare il diffondersi dei cosiddetti contratti pirata.

Nel nome di questa emergenza, si è voluto intervenire non con la selezione dei contratti mediante criteri oggettivi, ma sulla base di criteri soggettivi di difficile attuazione, sulla selezione dei soggetti atti a stipulare i contratti, eludendo così il delicato tema della rappresentatività sindacale.

Il sindacato dei quadri anche in ragione delle esigenze sopra menzionate, auspica che il dumping sociale e l’introduzione di un minimo salariale vengano introdotti senza interventi che non siano di legge sullo stato attuale della rappresentatività e che tengano conto delle emergenti e specifiche esigenze delle specifiche categorie professionali.

Fabio Petracci.

Benessere e lavoro

Riporto un breve stralcio di un mio intervento alla manifestazione Gradisca Olistica promossa dal Comune di Gradisca d’Isonzo in data 23.6.2022, dedicato al benessere nel luogo di lavoro.

Il concetto di benessere nel luogo di lavoro e quanto mai vasto, variegato e non sempre esaustivo.

L’osservatore nota una rilevante differenziazione tra situazioni macroscopiche dove è in gioco l’incolumità delle persone ed altre maggiormente sfumate e spesso difficili da definire, ma nel loro insieme degne d’importanza ed esame.

Si parte quindi dal dato base che, come accennato, è individuato nell’incolumità fisica del lavoratore, individuato nel settore dell’antinfortunistica.

Si passa poi all’altrettanto importante campo della tutela morale e della dignità del lavoratore dove trovano collocazione recenti aspetti negativi del rapporto di lavoro, quali il mobbing, la dequalificazione, le molestie, le discriminazioni.

La disciplina della sicurezza nel lavoro si è quindi spinta nell’ambito ancor più complesso dello stress lavoro correlato, fenomeno rilevato e studiato a anche a livello comunitario ed ora inserito con non pochi dubbi nella nostra disciplina del lavoro.

In maniera più diretta, ci troviamo spesso dinnanzi ad una cattiva organizzazione del lavoro che impone sforzi inutili o crea situazioni di difficile convivenza nel posto di lavoro.

Queste situazioni per quanto differenti trovano completamento e contemplazione nell’ambito del codice civile, dove l’articolo 2087 impone al datore di lavoro l’applicazione di tutte le tecniche utili e conoscibili a tutela della salute fisica e psichica del lavoratore.

Il tema da affrontare non si esaurisce qui, in quanto il benessere è in un certo modo la nuova frontiera del lavoro, dove il lavoro ordinaria fonte di stress può fornire al lavoratore benessere e soddisfazione. Tutto questo non è né facile, né scontato.

Da osservatore privilegiato allorquando ho operato nel Punto Mobbing del Comune di Trieste ho esaminato diverse se non prevalenti situazioni di malessere anche grave spesso solo marginalmente o per nulla connesse a violazioni di legge del datore di lavoro.

Quindi situazioni da non portare innanzi al Giudice, ma non per questo da sottovalutare, come non rilevanti.

In questi casi, il fattore lavoro riveste quasi sempre un ruolo primario, talvolta in concorso con fattori personali o familiari. Il lavoro però ha un rilievo importante e spesso scatenante.

Rileva spesso l’incomprensione da parte del lavoratore dei propri limiti, talora dell’obsolescenza della propria professionalità, talora vi si accompagna, impreparazione, scarsa attitudine per la tipologia del lavoro, scelte professionali sbagliate, difficoltà di comunicazione.

Non possiamo imputare la gran parte di queste situazioni all’azienda o al datore di lavoro, almeno in termini di inadempienza contrattuale.

Servono pertanto nuovi modi di affrontare il lavoro su tutti i fronti.

Il lavoratore deve imparare a conoscere quando può aver raggiunto i propri limiti professionali, dirigenti e datori di lavoro debbono imparare a gestire i conflitti, anziché dar sfogo a condotte ispirate a manifestazione di potere o di autoritarismo, in quest’ultimo caso soprattutto nell’ambito del pubblico impiego.

La formazione e la consapevolezza dovranno accompagnare questi momenti tenendo presente oltre che gli interessi degli attori anche quelli del lavoro e della produttività termini che non debbono ritenersi caduti in desuetudine.

Chi lavora deve inoltre rendersi conto che in alcuni casi soddisfazioni e benessere possono essere ricercati anche al di fuori del lavoro.

Va poi superato un concetto arcaico ed autoritario di ambiente di lavoro, dove l’azione del datore di lavoro deve spogliarsi di ogni manifestazione di forza fine a sé stessa e tendere all’utilità comune.

Da ultimo, anche perché paradigmatico, ricorderemo il recente caso dell’insegnante trans Cloe Bianco di recente suicidatasi perché sanzionata e privata della docenza, per essersi presentata sul posto di lavoro in abbigliamento sicuramente improprio.

Il caso non è stato chiarito in tutti i suoi contorni, ma sta già alimentando polemiche e partigianerie.

Un punto è certo. Siamo nell’ambito della scuola e quindi della cultura e della conoscenza della vita per chi si apre ad essa.

Ritengo come un atteggiamento maggiormente mediato, spiegato, scevro di atteggiamenti autoritari o prono alle critiche esterne, attento all’evoluzione dei costumi spesso difficilmente accettabile ed attento alla dignità della persona, avrebbe potuto sortire un esito diverso.

Fabio Petracci

WEBINAR – Decreto PNRR 2 (D.L. 36/22) e Riforma del Pubblico Impiego

Giovedì 23 giugno 2022, dalle 10.00 alle 12.00, l’avv. Petracci sarà relatore del webinar:

Decreto PNRR 2 (D.L. 36/22) e Riforma del Pubblico Impiego
Tutte le novità in materia di reclutamento, concorsi, fabbisogni del personale e codice di comportamento dei dipendenti

Durante la sessione affronterà in diretta tutti gli argomenti indicati nel programma, risponderà ai quesiti pervenuti e approfondirà le tematiche segnalate dai partecipanti.

L’obiettivo di questo webinar è fornire gli strumenti per attuare tutte le novità, in tema di pubblico impiego, introdotte dal PNRR 2 (D.L. 36/2022).

Saranno analizzate, punto per punto, le nuove disposizioni, con particolare attenzione a:

  • Programmazione dei fabbisogni e nuovi profili professionali
  • Reclutamento e possibilità di assunzione: novità
  • Nuove regole per i concorsi e portale unico del reclutamento inPA
  • Novità in tema di codice di comportamento dei dipendenti pubblici sui social
  • Parità di genere e vantaggi specifici per i generi meno rappresentati
  • Novità in tema di passaggi diretti e distacchi, concorsi e procedure di mobilità
  • Modifiche al decreto-legge 80/2021, applicazione a regioni ed enti locali
  • Incarichi professionali al personale in quiescenza: novità

La registrazione video del Webinar sarà disponibile entro 24 ore dalla conclusione.

Per informazioni sulle modalità di iscrizione si rimanda alla seguente pagina di riferimento della Professional Ac@demy.

Sanità. Il personale può operare in regime di lavoro autonomo che subordinato

Strutture sanitarie convenzionate il personale sanitario può operare tanto in regime di lavoro autonomo che subordinato. Lo afferma una recente sentenza della Corte Costituzionale del 9 maggio 2022.

La Corte Costituzionale stabilisce che le regioni ed il settore pubblico non possono imporre alle aziende sanitarie private l’assunzione di personale per la cura della persona esclusivamente con contratto di lavoro subordinato.

Ciò significa che medici, infermieri ed altro personale addetto alla cura della persona, affinchè la convenzione sia valida, potrà essere tanto lavoratore autonomo che subordinato.

Con la recente sentenza del 9 maggio 2022 n.113, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 9 comma 1 della legge regionale del Lazio 28.12.2018 n.13 laddove stabilisce che il personale sanitario addetto ai servizi alla persona nelle strutture sanitarie private accreditate debba necessariamente intrattenere con la struttura un rapporto di lavoro subordinato.

Ha ritenuto la Corte Costituzionale come una simile norma e quindi non solo quella impugnata venga a violare in maniera eccessiva e non necessaria i principi di libertà economica sanciti dalla Costituzione (articolo 41 Costituzione).

 

Alte professionalità

D.L. 80/2021 CONV. L. 113/2021: Area di elevata qualificazione

Il decreto legge 9 giugno 2021 n. 80 “Misure urgenti per il rafforzamento della capacità amministrativa delle pubbliche amministrazioni funzionale all’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e per l’efficienza della giustizia”, convertito in legge 6 agosto 2021 n. 113, all’art. 3, prevede che i dipendenti pubblici, con esclusione dei dirigenti e del personale docente della scuola, delle accademie, dei conservatori e degli istituti assimilati, siano inquadrati in almeno tre distinte aree funzionali.

Alla contrattazione collettiva è demandata l’individuazione di un’ulteriore area per l’inquadramento del personale di elevata qualificazione.

Dispone altresì che le progressioni all’interno della stessa area avvengano, con modalità stabilite dalla contrattazione collettiva, in funzione delle capacità culturali e professionali e dell’esperienza maturata e secondo principi di selettività, in funzione della qualità dell’attività svolta e dei risultati conseguiti, attraverso l’attribuzione di fasce di merito.

Fatta salva una riserva di almeno il cinquanta per cento delle  posizioni  disponibili  destinata  all’accesso dall’esterno, per le progressioni fra le aree e, negli enti locali, anche fra qualifiche diverse, è prevista una procedura comparativa basata sulla valutazione positiva conseguita dal dipendente negli ultimi tre anni in servizio, sull’assenza di provvedimenti disciplinari, sul  possesso  di  titoli o competenze  professionali ovvero di studio ulteriori rispetto a quelli previsti per l’accesso all’area dall’esterno, nonché sul numero e sulla tipologia degli incarichi  rivestiti.

Il quadro normativo ed organizzativo delineato dal decreto legge pone una serie di aspetti applicativi che necessitano di un indirizzo per il corretto perseguimento delle finalità di rafforzamento delle pubbliche amministrazioni.

La disposizione relativa al numero delle aree, termine ragionevolmente assimilabile a quello di categorie, produce un ulteriore impatto nei comparti in cui le categorie non dirigenziali sono attualmente quattro (es. regioni ed enti locali), qualora si intendesse ridurle a tre.

I profili che necessitano di un approfondimento e di un indirizzo possono essere così individuati:

  1. declaratoria funzionale dell’area di elevata qualificazione;
  2. primo inquadramento nell’area di elevata qualificazione;
  3. accesso all’area di elevata qualificazione;
  4. rischio di appiattimento del personale ricompreso nelle altre aree, in particolare dei funzionari apicali che non trovassero collocazione nell’area di elevata qualificazione;

Va preliminarmente osservato che il decreto individua le condizioni per il riconoscimento delle professionalità presenti tra il personale non dirigenziale delle pubbliche amministrazioni, sinora “compresso” dall’istituzione della separata area dirigenziale, dalla quale lo separa un divario giuridicamente ed economicamente rilevante.

È quindi necessario porre attenzione alla fase istitutiva della nuova area e all’eventuale conseguente riassetto delle aree esistenti.

La qualifica di quadro, introdotta nel lavoro privato dalla legge n. 190/1985 con una novella dell’art. 2095 del c.c., avrebbe potuto trovare applicazione anche al pubblico impiego qualora le parti contrattuali l’avessero prevista.

La necessità di individuare figure professionali alle quali attribuire la gestione di unità organizzative di livello sub-dirigenziale e la responsabilità esterna degli atti, ha visto la quasi totalità dei comparti di contrattazione optare invece per incarichi a termine, conferiti ai funzionari dell’area apicale.

Sono stati introdotti così incarichi variamente definiti e disciplinati quali le posizioni organizzative, le specifiche responsabilità, i coordinamenti, ecc.

Una consolidata giurisprudenza ha tracciato i profili di tali incarichi stabilendo che il conferimento al personale non dirigente delle pubbliche amministrazioni esula dall’ambito degli atti amministrativi autoritativi e si iscrive nella categoria degli atti negoziali, assunti dall’Amministrazione con la capacità ed i poteri del privato datore di lavoro. Con specifico riferimento alle posizioni organizzative, ma con valenza generale, è assodato che l’incarico non determina un mutamento di profilo professionale, che rimane invariato, né un mutamento di area, ma comporta soltanto un mutamento di funzioni, le quali cessano al cessare dell’incarico.

Si tratta, in definitiva, di una funzione ad tempus la cui definizione – nell’ambito della classificazione del personale di ciascun comparto – è demandata dalla legge alla contrattazione collettiva (ved. Cass. SS.UU. n. 16540/2008, 8836/2010, sez. lav. n. 6367/2015, 20855/2015, 2141/2017).

La giurisdizione è conseguentemente devoluta al giudice ordinario, il quale sottopone a sindacato i poteri esercitati dall’amministrazione nella veste di datrice di lavoro, sotto il profilo dell’osservanza delle regole di correttezza e buona fede, siccome regole applicabili anche all’attività di diritto privato, alla stregua dei principi di imparzialità e buon andamento di cui all’art. 97 Cost. (ved. Cass. SS.UU. 9332/2002, 18017/2003, 1252/2004, sez. lav. 2836/2014).

È quindi esclusa la tutela amministrativa, non sussistendo una posizione di interesse legittimo, quanto piuttosto di diritto soggettivo o di interesse legittimo privato.

Diverso inquadramento giuridico implicano le progressioni con inquadramento all’area – o categoria – superiore.

Sul punto merita un richiamo la pronuncia del Consiglio di Stato Sez. V, 11 febbraio 2014, n. 647 in materia di progressione verticali riservate al personale interno.

Come è stato chiarito anche dalla più recente giurisprudenza (fra le ultime: Cassazione Civile SS.UU. n. 5699 dell’11 aprile 2012, n. 13796 del 1 agosto 2012), nel lavoro pubblico contrattualizzato, per procedure concorsuali ascritte al diritto pubblico e all’attività autoritativa dell’amministrazione si intendono anche i procedimenti concorsuali “interni” destinati a consentire l’inquadramento di dipendenti in aree funzionali o categorie più elevate, e cioè ad una progressione verticale, profilandosi, in tal caso, una novazione oggettiva dei rapporti di lavoro.

Ciò comporta che rientrano nella giurisdizione del giudice amministrativo le controversie attinenti ai concorsi nella pubblica amministrazione che comportino passaggio in aree funzionali o categorie più elevate.

Le controversie in materia di procedure concorsuali per l’assunzione di dipendenti della p.a., si riferiscono non solo a quelle strumentali alla costituzione per la prima volta del rapporto di lavoro, ma anche alle prove selettive dirette a permettere l’accesso di personale dipendente a una fascia o ad un’area superiore, essendo il termine “assunzione” correlato alla qualifica che il candidato intende conseguire e non solo all’ingresso iniziale nella pianta organica dell’amministrazione.

Ne consegue una chiara distinzione tra gli incarichi conferiti con i poteri del privato datore di lavoro, che non comportano alcuna mutazione di inquadramento, e le progressioni verticali finalizzate all’inquadramento in una diversa area o categoria, ascrivibili agli atti autoritativi della p.a., assistiti dalle garanzie procedimentali della legge 241/90 e dai principi costituzionali dell’art. 97, ultimo comma.

L’individuazione dell’area di elevata qualificazione non può quindi esaurirsi nella mera stabilizzazione di una varietà di incarichi conferiti e gestiti secondo moduli di diritto privato.

Anche in sede di primo inquadramento, si ritiene imprescindibile la valutazione di requisiti e titoli nell’ambito di una procedura formalizzata in una graduatoria, con eventuale possibilità di scorrimento, individuando senz’altro quali requisiti il possesso della laurea attinente al profilo professionale e l’idoneità alla qualifica direttiva.

In analogia alla disciplina dei concorsi pubblici, poiché pur sempre di mutamento di area e di mansioni che si tratta, ciascun titolo dovrebbe concorrere a determinare l’esito valutativo, assicurando un bilanciamento come previsto dalle linee guida sulle procedure concorsuali (Direttiva n. 3/2018 del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione).

Le linee guida prevedono inoltre che occorra evitare di escludere di fatto categorie di potenziali candidati meritevoli attribuendo un peso eccessivo a titoli che essi non possono avere. Per evitare questo rischio, si può stabilire un punteggio massimo a determinati titoli. Per quanto riguarda i titoli di servizio, essi non devono essere discriminatori, per esempio se si tratta di titoli di cui possono realisticamente essere in possesso soltanto, o quasi soltanto, determinate categorie di dipendenti.

Va infine evitato l’appiattimento con lo svuotamento delle mansioni più qualificanti l’area direttiva, composta da funzionari che fino ad oggi hanno rappresentato il livello più prossimo alla dirigenza.

L’accesso successivo all’area di elevata qualificazione dovrebbe essere disciplinata quale progressione tra aree, assumendo comunque quali requisiti l’idoneità alla qualifica o categoria direttiva (C o D, a seconda dei comparti) e la laurea attinente al profilo professionale da ricoprire.

In tale sede va senz’altro valorizzata quale titolo l’esperienza maturata dal personale apicale. Se è vero, infatti, che l’area di elevata qualificazione viene formalmente individuata solo ora, è altrettanto vero che le attività che richiedono una particolare qualificazione qualcuno fino ad oggi deve averle pur svolte.

Dott. Fulvio Carli

I limiti di età per il collocamento a riposo nel pubblico impiego si applicano alle partecipate?

Il Decreto Presidente della Repubblica 29/12/1973 n.1092 stabilisce testualmente all’articolo 4 che gli impiegati civili di ruolo e non di ruolo sono collocati a riposo al compimento del sessantacinquesimo anno di età; gli operai sono collocati a riposo al compimento del sessantacinquesimo anno di età, se uomini, e del sessantesimo anno di età, se donne.

La norma non opera cenno alcuno ai dipendenti dalle partecipate.

Successivamente, l’articolo 1 della legge 70/1975 nello stabilire che lo stato giuridico e il trattamento economico d’attività e di fine servizio del personale dipendente dagli enti pubblici individuati ai sensi dei seguenti commi sono regolati in conformità della presente legge, esclude dall’applicazione della stessa gli enti pubblici economici, gli enti locali e territoriali e loro consorzi, le istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza, gli enti ospedalieri e gli enti ecclesiastici, le università e gli istituti di istruzione, gli istituti di educazione, le opere universitarie, le scuole di ostetricia autonome, gli osservatori astronomici e vulcanologici, gli istituti geologici, le deputazioni di storia patria e in genere le accademie e gli istituti culturali di cui al decreto legislativo 27 marzo 1948, n. 472, e successive modificazioni, salvo quelli compresi nella parte VII della tabella allegata alla presente legge, gli ordini e i collegi professionali, le camere di commercio e gli enti di patronato per l’assistenza dei lavoratori, la Cassa per il Mezzogiorno.

La tabella allegata alla presente legge contiene l’elenco degli enti individuali e classificati, sulla base delle funzioni esercitate, in categorie omogenee, senza pregiudizio per le soppressioni o fusioni di enti che dovessero intervenire per effetto di successive leggi di riforma.

Nella tabella allegata non vi è cenno alcuno alle partecipate.

Ancora di seguito, il decreto legge 24/06/2014, n. 90- Misure urgenti per l’efficienza della p.a. e per il sostegno dell’occupazione – all’articolo 1 Misure urgenti in materia di lavoro pubblico – stabilisce che salvo quanto previsto dal comma 3, i trattenimenti in servizio in essere alla data di entrata in vigore del presente decreto sono fatti salvi fino al 31 ottobre 2014 o fino alla loro scadenza se prevista in data anteriore. I trattenimenti in servizio disposti dalle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e non ancora efficaci alla data di entrata in vigore del presente decreto-legge sono revocati.

Attualmente il decreto legislativo, 19/08/2016 n° 175 all’articolo 19, stabilisce ai primo comma che, salvo quanto previsto dal presente decreto, ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle società a controllo pubblico si applicano le disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile, dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, ivi incluse quelle in materia di ammortizzatori sociali, secondo quanto previsto dalla normativa vigente, e dai contratti collettivi.

Aggiunge quindi al secondo comma che le società a controllo pubblico stabiliscono, con propri provvedimenti, criteri e modalità per il reclutamento del personale nel rispetto dei princìpi, anche di derivazione europea, di trasparenza, pubblicità e imparzialità e dei princìpi di cui all’articolo 35, comma 3, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165.

Pare quindi che la specialità normativa delle predette società si limiti alle procedure di assunzione per la selezione ed il contenimento dell’organico.

Si ritiene pertanto che nelle società partecipate non vadano applicati i limiti di età per la risoluzione del rapporto.

 

Art. 19
Gestione del personale

Articolo 1 legge 70/1975

Lo stato giuridico e il trattamento economico d’attività e di fine servizio del personale dipendente dagli enti pubblici individuati ai sensi dei seguenti commi sono regolati in conformità della presente legge.

Sono esclusi dall’applicazione della presente legge gli enti pubblici economici, gli enti locali e territoriali e loro consorzi, le istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza, gli enti ospedalieri e gli enti ecclesiastici, le università e gli istituti di istruzione, gli istituti di educazione, le opere universitarie, le scuole di ostetricia autonome, gli osservatori astronomici e vulcanologici, gli istituti geologici, le deputazioni di storia patria e in genere le accademie e gli istituti culturali di cui al decreto legislativo 27 marzo 1948, n. 472, e successive modificazioni, salvo quelli compresi nella parte VII della tabella allegata alla presente legge, gli ordini e i collegi professionali, le camere di commercio e gli enti di patronato per l’assistenza dei lavoratori, la Cassa per il Mezzogiorno.

La tabella allegata alla presente legge contiene l’elenco degli enti individuali e classificati, sulla base delle funzioni esercitate, in categorie omogenee, senza pregiudizio per le soppressioni o fusioni di enti che dovessero intervenire per effetto di successive leggi di riforma.

Alte professionalità

In vista dell’area delle Elevate Professionalità nelle Pubbliche Amministrazioni

Intervento dell’avv. Fabio Petracci , Centro Studi di CIU Unionquadri, in occasione del Convegno Quadri e Alte Professionalità nel Pubblico Impiego.

Vedrò di sollevare alcuni quesiti per favorire ed avviare la discussione.

Stiamo trattando delle categorie delle alte professionalità nell’ambito del Pubblico Impiego, dove un grosso nucleo di professionalità appaiono  compresse nel cosiddetto inquadramento delle categorie non dirigenziali e dove si è voluto individuare il motore della macchina amministrativa esclusivamente nella dirigenza.

Ciò avviene, nonostante nell’organizzazione del lavoro privato presenti ormai e da tempo nuove forme di organizzazione che vede sempre più protagonisti lavoratori altamente qualificati che svolgono un lavoro non manuale volto alla produzione di output tendenzialmente intangibili.

Da molto tempo, sono emerse e si sono consolidate nuove istanze del ceto medio che dopo la marcia dei 40.000 e la lotta al livellamento retributivo, ora è alle prese con l’accentramento della ricchezza e la scomparsa di molte forme di mobilità sociale.

L’emergere di queste istanze ha trovato trova una seppur parziale risposta nel mondo del lavoro con la legge 190/85 che riconosce la categoria dei quadri intermedi, modificando l’articolo 2095 del codice civile.

Sul piano del lavoro pubblico, nonostante l’epocale riforma degli anni 90 che ha voluto introdurre la disciplina del lavoro privato nelle pubbliche amministrazioni un simile fermento non si è mai verificato.

Allorquando con la legge 421/1992 si delineava il nuovo assetto dell’impiego pubblico, nessun ostacolo normativo si frapponeva alla piena applicazione dell’articolo 2095 del codice civile che vede le categorie dei lavoratori suddivise in operai, impiegati, quadri e dirigenti.

Il tema era toccato sotto l’aspetto dello spazio contrattuale collettivo dall’articolo 40 del DLGS 165/2001 che prevedeva l’esistenza di una specifica e distinta disciplina nell’ambito dei contratti collettivi di comparto per coloro che svolgono compiti di direzione o che comportano iscrizione ad albi.

Con il DLGS 150/2009 l’articolo 40 era semi abrogato, restando la semplice previsione della possibilità per i contratti collettivi di istituire apposite sezioni per specifiche professionalità.

Trattandosi di un mondo del lavoro ormai collocato nell’ambito del diritto civile, ci si chiede il perché di questa differenziazione.

In primis, potremmo ritenere come l’organizzazione del lavoro pubblico, nonostante la riforma, non appaia in grado di fare propria la nuova organizzazione del lavoro della conoscenza nonché le istanze sociali ormai maturate.

Ove un tanto non fosse vero, potremmo azzardarci a ritenere l’esistenza nell’ambito del pubblico impiego di un deficit di pluralismo e libertà sindacale se non addirittura una certa sudditanza delle scelte legislative rispetto ad un ruolo anomalo del sindacato.

Nell’ambito di questa consolidata situazione, si inserisce l’esigenza straordinaria di una Pubblica Amministrazione altamente qualificata imposta dal PNRR.

E’ stata quindi introdotta per legge una ulteriore area professionale dove collocare le Elevate Professionalità.

Il contratto collettivo delle Funzioni Centrali ha recepito questa previsione meglio definendo quest’ambito di inquadramento.

Resta aperta la definizione dei criteri per l’accesso a quest’area di inquadramento.

Di fronte a questo improvviso mutamento di rotta che impone il riconoscimento de Elevate Professionalità serve focalizzare la nostra attenzione sui criteri di selezione degli appartenenti all’area professionale ad evitare trascinamenti ed automatismi, evitando pure che la nuova area automaticamente assorba anomale situazioni individuali e collettive già consolidate.

E’ necessario quindi creare una reale posizione retributiva e normativa per quanti verranno a far parte dell’area delle elevate professionalità.

Va attentamente verificata l’analoga ed inferiore area dei funzionari che ricalca per certi versi talune caratteristiche della nuova area delle Elevate Professionalità per verificare se vi sia un disegno di una Pubblica Amministrazione nel suo complesso totalmente professionalizzata.

Bisognerà ragionare oltre l’ipotesi prevista per il contratto delle amministrazioni centrali per poter tradurre la riforma nelle diverse amministrazioni, principalmente locali, dove esistono situazioni spesso difformi.